LE MONTAGNE

LE MONTAGNE
Certo, sono ridicoli la mitologia e il rituale delle vacanze. E goffi, come i sentimenti e le aspirazioni alla portata di tutti. Non trovereste un intellettuale militante disposto a farne l’elogio neppure per un milione al rigo, nonostante l’avidità della categoria.
A confessare di trovarsi in vacanza, si rischiano sofferte reputazioni. Meglio il calore delle città; restarci, sia chiaro, non come banali forzati dell’indigenza, ma da volontari del rifiuto, per farlo sapere, telefonarlo in giro, o pubblicarci su lambiccati saggi di prosa ascetica, come fa uno scrittore napoletano, regolarmente di sinistra, che secerne le bave dei suoi ripetuti no: “Non voglio montare su un’auto e far la coda nelle autostrade; non voglio stiparmi in alberghi, pensioni, treni; non voglio arrampicarmi come un ebete su perentorie montagne”.
Lo leggo tornando da una salita di due giorni fin sulla vetta dell’Adamello, con guida e figli, e provo un senso di conforto. Un elogio dell’alpinismo scritto da questo tipo m’avrebbe procurato un attimo di smarrimento. Sentirmi dare dell’ebete, da lui, mi rassicura. Tanto più, che ho portato con me un ebete di professione e tre aspiranti, tra i quindici e i dieci anni, cui certe immagini resteranno tra le più splendenti nel magazzino della memoria.
Credo di avere impresso nella fresca cera, di che, secondo Aristotele, son fatte le giovani anime, qualche segno positivo. “La visione che si gode nelle ore trascorse su una grande cima sorpassa perfino ciò che si ha davanti agli occhi. In tali momenti, anche lo spirito più ottuso condivide con tacita emozione i sentimenti che i poeti hanno espresso per l’eternità”. Non sono parole di uno scrittore di professione, ma di Douglas W. Freshfield, un ricco gentiluomo inglese che l’alpinismo venera tra i suoi padri fondatori. Il panorama dalla cima dell’Adamello, quando vi salì, centoundici anni fa, gli parve “il più bello, sebbene il più esteso, contemplato da un monte nevoso”. Come l’ebete inglese d’un secolo fa, anche i miei tre ebeti in erba hanno provato quel senso di calma signoria della Terra che dà la geografia naturale distesa sotto i propri piedi.
Mi fa piacere d’aver fornito al mio contingente di futuri cittadini il materiale di base per qualche allegoria decente. Scommetterei che se, percorrendo quelle regioni dello spirito che si estendono tra religione e poesia, gli capiterà di aver bisogno di una immagine dell’alba, prima o poi ritornerà il Corno Bianco teneramente illuminato di rosa, che ci accolse poggiando leggero, nella sua enorme massa, sulle ombre gelide del Pian di Neve, quando alle sei del mattino uscimmo dalla porta del rifugio.
In verità, aumentava la contentezza e il sollievo d’esser fuggiti da quelle pareti.
E qui, la musica cambia. Se è vero, come diceva il dottor Johnson, che il miglior paesaggio del mondo è migliorato da un buon albergo, è altrettanto vero che uno cattivo rovinerebbe il Paradiso. “Ma che cosa pretende, a tremila metri”, ringhiò l’ostessa ad una osservazione. Ma anche a tremila metri si ha il diritto di non trovare letti sfondati, camere sudice, imposte così sgangherate che sbattono tutta la notte al vento furioso. Fatica ben sprecata sarebbe stata dirle quel che aggiungo qui. Ho ben chiari i confini che distinguono un rifugio da un albergo.
Dormii la prima volta in rifugio da bambino, al “Pedrocchi” sulla Tosa, nel 1940: l’anno che Emilio Comici cadde in un banale incidente, e Giorgio Graffer bruciò dentro il suo aereo da caccia nei cieli della Grecia. Alla Tosa c’era il vecchio Castelli, un patriarca dell’alpinismo. Cose lontane, ma il rifugio che rifulse sotto le sue cure è ora una sciatta spelonca, come quello d’alta quota sull’Adamello, e tanti altri.
Il Club Alpino Italiano possiede un enorme patrimonio immobiliare, costituito da forse trecento rifugi, costruiti dalle diverse sezioni, oppure ereditati (e sono ancora i più belli) dopo la prima guerra mondiale, dal Club Alpino austro-tedesco. E’ un patrimonio, a suo modo, pubblico, che in molti casi, sta andando in rovina, perché affidato a gestori che dopo aver sfruttato gli immobili senza pietà, li abbandoneranno al loro destino. Non ha ispettori, il Cai?
Sarebbe una metafora troppo facile ricordare che tra i padri fondatori del Cai, centotredici anni fa, c’era quel Quintino Sella che fu anche uno dei fondatori della mal riuscita baracca nazionale, e dedurne che la curva discendente che si riscontra sulle montagne è perfettamente in tono con il declino generale?