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Le buone intenzioni

Islanda, Iceberg
Ph. Giacomo Martini / Islanda, Iceberg

Le buone intenzioni

Quando uno tiene una rubrica come questa, i toni che adopera sono tanti, gli argomenti per cui trascorre, svariatissimi. Si dirà che scrive, ma allo stesso tempo racconta, commenta, suggerisce, rievoca e si confessa. La tastiera è più libera e varia che non nel giornalismo usuale: il rapporto col pubblico è di tipo diverso, più sommesso, più confidenziale. Capita di raccontare sé stesso, fosse pure per adoperare eventi e reazioni personali come vive testimonianze quotidiane. Se indulgo talvolta alla sfera privata, e racconto al lettore pensieri e fatti che di norma sarebbero esclusi dal rapporto giornalistico, lo faccio perché ricordo l’osservazione di Leopardi sull’interesse personale che i fatti hanno per il lettore, fino al punto che scrittori mediocri riescono a farsi leggere proprio raccontando di sé: e ciò, perché sollecitano nel lettore il confronto di simili reazioni e sentimenti.

Ma queste confidenze rischiano di essere male intese3 e mal giudicate. Ormai sono abituato a vedere, oltre lo schermo dei vetri e gli alberi del giardino, i lettori lontani come spartiti in tre schiere, i benevoli, gl’indifferenti e i contrari. Categorie sempre fluttuanti, intendiamoci, perché a volte basta un nonnulla per spingere in questo invece che in quello schieramento. Tra le esperienze meno piacevoli del mestiere, c’ quello di essere giudicato opportunista, o vanesio, o esibizionista, in base ad una delle opinioni o intenzioni espresse in queste righe. A me è capitato, qualche volta. Mai, tuttavia, come da quando, poche settimane fa, ho raccontato dei disagi che mi toccarono e del disgusto che mi prese, per essermi trovato a Venezia in mezzo al demagogico carnevale “dei centomila” che mise a soqquadro la città, la stazione e il resto. In quel colonnino, per allontanare da me l’accusa d’essere uno di quelli che vorrebbero Venezia morta come un museo (ma poi, credetemi, meglio museo che pattumiera), confessavo d’essere sul punto di comperarvi una casa; e meglio avrei fatto a dire la casa perché, se la compravendita andrà in porto, realizzerò il sogno trentennale di mettere dimora nella città che adoro. Non sapevo che cosa scatenavo. Accanto a una dozzina di lettere deliziose, intrise del “comune amore” per la città, talune accompagnate perfino da buone poesie, me ne tirai addosso altre di rovente accuse. Uno, provvisto del gran nome i Foscari (ma non sarà figlio o parente del mio carissimo amico Ludovico, del mio caro ammiraglio Adriano?), mi tacciava d’essere uno dei “ricchi e vacui signori, italiani e stranieri, che dimora sulla laguna dove trascorrere i propri ultimi giorni in cerca di mai provate futili sensazioni esteticheggianti. E a qualsiasi prezzo acquistano abitazioni che poi magari useranno solo per qualche giorno all’anno, sottraendo a chi ne ha ben più diritto un patrimonio abitativo già di per sé ridotto e degradato”. La misera città, assicura il Foscari, morirà proprio per questo, diventando “pensionato di lusso per ‘foresti’ aspiranti Gustav Aschenbach”.

Dalle alture di Madesimo, sugli spalti dello Spluga, la signora Maria Cristina Basevi Mescola mi attribuisce uno stolido ossequio all’impero della moda, per cui “tutti accorrono a Venezia a comperare la casa, credendo così di essere ‘quasi veneziano’, e sentenziare sulla vita, sull’attività anche il crollo della città, quasi ‘en exclusiv’”. La lettera, al direttore, prosegue: “Sono rimasta sorpresa dalle idee di Santerno che non ritenevo per niente così borghese”. Ho tremato alcuni giorni, all’idea che il direttore Montanelli mi chiamasse e, straziandomi fino alle viscere con quei suoi occhi gelidi e chiari, mi dicesse, secco e metallico: “Qui ti si accusa di idee borghesi. Sei stato scoperto, infine. Riga dritto, o Santerno”. Il direttore chè è curioso come, in questi casi, i dissenzienti non scrivano all’autore, che ritengano indegno delle loro rimostranze, ma al direttore: quasi ci fosse, nel fondo, l’idea di un rabbuffo, una punizione.

Resto turbato. Sapevo di avere idee borghesi, non l’avevo mai nascosto, meno che mai credevo di doverle nascondere ai lettori del “Giornale”. In più, non credevo che amare una città, desiderare di abitarvi, magari in una casa propria, nel cui acquisto mettere tutti i propri averi, fosse così mostruosamente borghese. Così come non credevo davvero di sottrarla a qualcuno, e trasformarmi in un emulo dell’antipatico personaggio manniano. La signora di Madesimo crede che io ceda alla moda? Che ne sa? Non è colpa mia, se finisco col poter fare una cosa che desideravo da trent’anni mentre anche altri la fanno. O crede che le mode siano soltanto borghesi? Si aggiorni sulle mode radicali, e proletarie. Si procuri una buona storia della rivoluzione francese, o anche, semplicemente, una cronaca del Sessantotto in Europa o della rivoluzione culturale in Cina, e imparerà a valutare le mode borghesi con occhio più cordiale.

Questo discorsetto sulle mie intenzioni e il loro uso da parte del lettore, doveva far da preludio al racconto di un’altra esperienza di viaggio che, anch’essa, poteva portarmi consensi da una parte, e, dall’altra, l’accusa di essere il solito “vecchio professore incapace di comprendere” (Foscari). Ma il preludio s’è mangiato lo spazio della sonata; ne parleremo un’altra volta.

Piero Santerno, da “Il Giornale, venerdì 3 aprile 1981