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La Montagna Sacra

Viaggio a monte Kailas
La Montagna Sacra
La Montagna Sacra

Chiamato in tibetano Gang Rinpoche; in sanscrito Kailāsa Parvata; in cinese Gangrénbōqí fēng, alto 6.638 metri sul livello del mare, il monte Kailas si trova poco lontano da due grandi laghi, il Manasarovar e il Raksastal.

 

“V’è quivi fuori di strada un monte sterminante alto, molto largo di circuito, nella sommità ricoperto dalle nuvole e da perpetue nevi e ghiacci, e nel resto molto orrido e rigido per l’acerbissimo freddo, che in esso fa”. Ippolito Desideri S.J. 1716. Questa è la prima descrizione fatta da un occidentale del monte Kailash.

Chiamato in tibetano Gang Rinpoche; in sanscrito Kailāsa Parvata; in cinese Gangrénbōqí fēng, alto 6.638 metri sul livello del mare, il monte Kailas si trova poco lontano da due grandi laghi, il Manasarovar e il Raksastal.

Da esso originano quattro dei fiumi più lunghi dell’Asia, ossia l’Indo (a Nord, dalla bocca del leone), il Brahmaputra (ad Est, dalla bocca del cavallo), il Karnali, affluente del Gange,(ad Ovest, dalla bocca del pavone), il Sutlej corrispondente al mitico Sarasvati (a Nord Ovest, dalla bocca dell’elefante).

L’area è complessivamente considerata un mandala, cioè un diagramma cosmico da utilizzare nella meditazione. I due laghi rappresentano rispettivamente il sole e la luna e la montagna l’energia vitale, e sono effigiati nel più ricorrente dei simboli tibetani, il Nam Chu Wang Den.

Altra possibile lettura vede i quattro fiumi come raggi di una ruota di cui la montagna è il perno, e al contempo il centro e l’origine del mondo, così come è la sorgente dei fiumi. Il kora, cioè la sua circumambulazione, riconosce al Kailas la funzione di asse di rotazione e permette a chi lo compie di fare parte di tale ruota e quindi del vorticare dell’Universo.

È considerato sacro dall’Induismo, in quanto ritenuto il paradiso di Siva (e pertanto è anche denominato “Rajatadri” cioè “Montagna d’argento” o “Ganaparvata” ossia “Montagna delle schiere divine”), dal Bön e dal Buddhismo tibetano come centro dell’Universo e dimora di Demchog e della sua consorte Dorje Phangmo, e dal Jainismo, come luogo in cui raggiunse la liberazione il primo dei loro santi.

Perfino gli zoroastriani lo venerano.

Compare in una delle opere più belle della letteratura tibetana, “I centomila canti di Milarepa”, e nei più grandi poemi epici di quella indiana ed è identificato col mitologico Monte Meru.

Non è mai stato scalato da nessuno, poiché è considerato sacro da circa un quinto della popolazione mondiale. Tibetani e indiani ritengono di dover compiere un pellegrinaggio intorno al Kailas almeno una volta nella vita. Se effettuato 108 volte, si dice che garantisca il nirvana.

 

Il percorso consiste in un periplo rituale attorno alla vetta lungo circa 53 chilometri alla quota media di 5.000 metri e necessita di circa 36 ore di cammino, di solito suddiviso in tre giorni. Alcuni pellegrini tibetani, tuttavia, impiegano anche due settimane procedendo con una infinita serie di prostrazioni a terra. Lungo il sentiero si incontrano rocce dipinte e bandiere di preghiera, concentrate particolarmente sul Passo di Dolma (raggiunto il quale i tibetani, per celebrare la vittoria degli dei sui demoni, pronunciano la frase “KI KI SO SO LHA GYALO DE THAMCHE PHAM”).

 

Quattro principali monasteri buddhisti: il Darchen Gön, il Chuku, il Dhira Phug e il Zuthul Phug dispongono di spartane foresterie per accogliere i pellegrini e dare loro riparo notturno.

Nella stessa zona si trova anche lo Siva tsal, un cimitero in cui vengono cremati lama e monaci.

Alcuni tra i principali luoghi di culto locali sono stati fondati da Je Paljin, autorevole lama del XIV secolo. L’area è abitualmente frequentata da decine di pellegrini provenienti da tutto il Tibet, che si prostrano nei pressi dei luoghi consacrati.

Un fastidioso vento si leva di solito nel tardo pomeriggio e fino al tramonto, per cui di sera fa un freddo intenso e d’estate durante la notte le temperature possono scendere sotto zero di qualche grado: -3° / -5°. In caso di eventuali malesseri, l’ospedale più vicino al Kailas si trova a Saga (circa 2 giorni di viaggio).

Questo è quanto mi è dato di sapere. Da anni aspettavo questo momento e adesso sono qui, a Darchen. Ho cercato di curare ogni dettaglio: per settimane ho percorso il Tibet occidentale mediamente a 4.000 metri di altezza in modo da ottenere un buon acclimatamento, ho noleggiato sacchi a pelo da alta quota (che sono stati chiusi in sacchi di plastica e caricati su uno yak) e, soprattutto, mi accompagna Tashi, una esperta guida tibetana.

La partenza, purtroppo, viene ostacolata da una improvvisa nevicata che sostituisce il tempo sereno dei giorni precedenti. La visibilità cala ma, ciò che è più grave, si gonfiano le acque dei torrenti da guadare. Saltando sulle rocce che spuntano riesco a non finire in acqua, ma non così i sacchi a pelo, per uno scarto dello yak o, forse, perché legati male. Vengono recuperati, ma non sono asciutti. Siamo comunque decisi ad andare avanti.

L’altitudine si fa sentire. A 5.000 metri l’aria contiene solo circa il 50% dell’ossigeno riscontrabile a bassa quota ed anche un piccolo sforzo manda il battito cardiaco in tachicardia. Riesco a calmarlo con esercizi di respirazione che pratico da anni. Poche sono le persone che incrociamo ed alcune stanno percorrendo il sentiero in senso contrario, segno di una rinuncia per le condizioni atmosferiche.

Dopo la ventina di chilometri prevista per oggi arriviamo finalmente al Dhira Phug Gonpa, un piccolo monastero nel quale facciamo tappa per la notte. Tashi riesce ad asciugare i sacchi a pelo con un fuoco, ma della cenere mi finisce negli occhi. Durante la notte inizio a lacrimare abbondantemente e a nulla vale lavarli con dell’acqua: si è sviluppata una congiuntivite.

La mattina arriva notizia che il Passo Dolma è stato bloccato dalla bufera di neve, che adesso si è calmata. A malincuore, in mancanza di condizioni di sicurezza minime, decidiamo di tornare indietro. Cammino lentamente, in una fitta nebbia che non è intorno al mio corpo, ma solo nei miei occhi (per fortuna a Darchen un provvidenziale antibiotico in gocce mi salva la vista).

Ripercorro con la mente i tanti sforzi fatti per arrivare quassù e la meta sfuggita per poco, ma sono anche riconoscente a chi ha tentato in tutti i modi di facilitare il mio pellegrinaggio. Penso che sia una buona occasione per imparare umiltà e accettazione dei propri limiti. Sono solo un piccolo uomo, ma anche se la Montagna Sacra questa volta mi ha detto di no, la porto ancora dentro di me.

 

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