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Mustang - III

Mustang - Tibet
Mustang - Tibet

Mustang - III

Ovunque veniamo accolti con rispetto e sempre ci viene fornito con gentilezza quel poco che c’è.

A volte, quasi a salutare il progredire del nostro percorso, appaiono i due principali giganti imbiancati, l’Annapurna (8.090 m) ed il Dhaulagiri (8.170 m), accompagnati dalla loro corte di cime minori, ma comunque elevate.

Finalmente Lo Manthang, la capitale di questo piccolo regno che stento a capire se sia reale o frutto della mia fantasia.

Il prezioso e raro centro storico ha la tipica impronta urbanistica tibetana ormai scomparsa nel Tibet stesso. Mi viene da pensare, ad esempio, a come sia stata stravolta l’affascinante Lhasa negli ultimi decenni di occupazione cinese.

Qui siamo a 3.840 metri e mura perimetrali della città e vicoli tortuosi la difendono dal vento che sia alza ogni mattina alle 10.00 circa. È un vero piacere camminare e perdersi in queste viuzze. Il centro storico è ancora integro, le fortezze nei dintorni, invece, sono a suo tempo state distrutte preventivamente dal re del Nepal per evitare che questo piccolo regno si rafforzasse troppo.

Nei monasteri della città gli affreschi negli ultimi anni sono stati riportati al loro originario splendore dal restauratore italiano Luigi Fieni. La sera in uno di questi templi assisto ad una cerimonia (puja) particolare: suoni e vibrazioni profonde richiamano la emanazione dell’Universo secondo la concezione tibetana, cioè la progressiva condensazione di una chiara luce in un vuoto infinito.

Uno dei principali motivi che ha richiamato me come altri stranieri qui proprio in questo momento è costituito dal Tiji Festival che si svolge dal 27° al 29° giorno del terzo mese del calendario lunare tibetano. È un rito di purificazione che precede la stagione del raccolto e trae origine da miti e leggende antichi di secoli. Rappresenta la cacciata dei demoni e del trionfo delle divinità, cioè la lotta del bene contro il male.

La parola Tiji deriva da Tenji o Tenche, dal Tempa Chhirim, che significa “Preghiera per la pace nel mondo”. Segna la vittoria di Dorje Sonam, altrimenti detto Dorje Jono, contro Ma Tam Ru Ta, una divinità malvagia che aveva portato nel Paese la siccità e causato la perdita del raccolto. L’acqua, infatti, è la risorsa più preziosa in un territorio estremamente arido.

Queste danze sacre vengono effettuate dai monaci nella piazzetta a lato del palazzo reale sotto l’occhio vigile di Guru Rimpoche, raffigurato in un grande thangka appeso per l’occasione.

I costumi e le maschere sono certo unici, ma quello che è importante non è il fattore estetico. Nel buddhismo mahayana, diffuso nelle aree tibetane, il percorso verso la liberazione non è individuale, come nel buddhismo theravada, ma collettivo. Per tale motivo queste danze hanno carattere liturgico ed esorcistico al contempo. In altre parole, sono finalizzate a cacciare il male dalla comunità. Il male, assorbito da un impasto di farina e burro, viene distrutto e poi gettato in un terreno fuori città.

Dopo tre giorni ci rimettiamo in viaggio verso le grotte affrescate. Questa terra è infatti anche denominata la “Cappella Sistina” dell’Asia. Prima Garphu, poi la bellissima Luri Gompa, con uno stupa interno ricavato nella roccia ed intonacato e dipinti unici risalenti al XIII-XIV secolo. Infine, percorrendo a piedi il letto asciutto del fiume Puyon Khola, fino alla grotta di Tashi Kabum, anche qui con stupa e affreschi.

Nel viaggiare a ritroso lungo la strada verso il Mustang inferiore facciamo una deviazione al piccolo e tranquillo villaggio di Lubra, uno degli ultimi ancora fedele al culto bön sciamanico animistico. I pochi abitanti sono abituati ad una vita semplice e, dopo l’arrivo di una spedizione scientifica che voleva studiava i loro usi funebri, hanno portato i corpi dei loro defunti in grotte remote.