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Un soldato disperso

Perù
Ph. Simona Balestra / Perù

Qui in Italia, nella mia casa che per me è una tana/rifugio, coltivo la silenziosa arte della pazienza. Devo averne, perché la pandemia non molla la presa e le frontiere del Nepal non saranno presto riaperte.

La radio mi rimanda notizie di profughi che fuggono da conflitti o da terre colpite dal cambiamento climatico. Sono drammi di persone la cui vita segue binari molto diversi da quelli usuali nelle aree più prospere del mondo, per cui si stenta a capire e ad affrontare la situazione.

Dovrei narrare di Asia, ma mi viene invece alla mente Giuseppe. L’ho conosciuto circa venti anni orsono. Benché anziano, era lucido ed ancora in buona salute. Le parole gli sorgevano spontanee, ma al contempo velate di pudore. Con un tono di voce sommesso svelò a me un filo di ricordi ancora netti.

Lascio parlare lui, che può raccontare meglio di me.

Nel 1942, come tanti, fui destinato al fronte orientale. Non avevo idea di che terra fosse la Russia e dovetti capirlo da solo. All’inizio pensavamo di stare vincendo la guerra e che tutto sarebbe presto terminato, ma già nel 1943 ci fu chiaro che le cose stavano diversamente.

Quando arrivò l’inverno il nostro equipaggiamento dimostrò la sua inadeguatezza e così pure i rifornimenti. Anche le operazioni presero una piega non favorevole. Nel corso di una ritirata mi ritrovai separato dal mio reparto e disperso.

Il freddo era terribile e capii che se mi fossi messo a riposare anche per pochi minuti per me sarebbe stata la fine. Vagai a lungo tra la neve finché non scorsi una abitazione in lontananza. Quando arrivai alla casa mi resi conto che dentro c’era qualcuno. Se erano partigiani per me poteva essere la morte, ma dovevo tentare, non avevo altre possibilità.

Bussai ed una voce femminile disse qualcosa che non capii, poi l’uscio fu timidamente aperto. Entrai ed un lieve tepore mi avvolse come una carezza, ma tre donne si misero ad urlare per la paura. Era di me che avevano paura. Mi resi conto che, armato e con la barba lunga, potevo aver dato l’impressione di un aggressore. Posai il fucile a terra e feci loro cenno di non temere. Riuscii un po’ alla volta a rassicurarle.

Non parlavo russo e tantomeno loro l’italiano, per cui cercammo di comunicare con parole lente e gesti, come fanno i bambini quando non si conoscono. Capii che erano una famiglia, una madre e due figlie. Avevano temuto che volessi fare loro del male, ma io cercavo solo un po’ di pace, volevo soltanto sopravvivere. Mi accolsero e quella divenne la mia famiglia.

Anni dopo, finita la guerra ma con una pace fredda di nuovi antagonismi, mi prese la nostalgia dell’Italia e mi accorsi di sentirmi diviso in due. Svetlana, la madre, lo avvertì istintivamente. Da donna intelligente non cercò di ostacolarmi. Quando riuscii a organizzare la partenza mi prese da parte e mi disse: “Durante la guerra mio marito è rimasto ucciso in uno scontro con i nemici. Forse sei stato tu ad ucciderlo, chi può dirlo, ma quando sei entrato in questa casa lo hai fatto in pace e per noi sei sempre stato il benvenuto”.

Non sono più tornato laggiù, ma quelle parole le ho ancora dentro e le porterò dentro per sempre.”

Mi accorgo che la mia radio, che non sto più ascoltando, continua a dare le ultime notizie…