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L’apparente “solidarietà” del Governo Badoglio sulla questione ebraica

Badoglio e la questione ebraica
Badoglio e la questione ebraica

L’apparente “solidarietà” del Governo Badoglio sulla questione ebraica


Introduzione

Il 5 agosto 1938, giorno in cui venne pubblicato il primo numero della rivista “La Difesa della Razza”, Roberto Farinacci – protagonista di una aggressiva campagna denigratoria nei confronti degli ebrei – affermava che “il problema razziale è squisitamente politico; mi convinco ancora una volta che quando gli scienziati vogliono rendere un servizio alla politica, compromettono qualsiasi problema. Sul terreno filosofico e scientifico si può sempre discutere, sul terreno politico, dove ci sono delle ragioni di Stato, si agisce e si vince”[1]. Dalla dichiarazione appena riportata si riesce a cogliere un aspetto fondamentale, intorno al quale ruota il presente contributo: la politica è il “motore” di un Paese, l’unica in grado di poter incidere sulla vita degli individui. Con la caduta del fascismo – avvenuta formalmente il 25 luglio 1943 – e la celere costituzione di un Governo transitorio affidato a Pietro Badoglio, si apre per l’Italia una nuova storia, in cui le Istituzioni sono chiamate a “riparare” agli orrori del passato, a prescindere dalla presenza o meno di talune barriere. È solo grazie alla Costituzione del 1948 che viene sancita l’uguaglianza di tutti gli italiani senza distinzioni, tra l’altro, di “razza”[2], il cui accenno costituisce il rifletto delle tragiche persecuzioni subite soprattutto dagli ebrei, nonchè la volontà dello Stato democratico di affermare l’irrilevanza giuridica del fattore razziale, accanto a quello religioso[3]. La scelta di inserire tale termine nella disposizione costituzionale sembra prendere le mosse dalla sua diffusione nel linguaggio dell’epoca, in quanto richiamato anche nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, dove all’art. 2 si fa esplicito riferimento alle discriminazioni di razza. Si deve comunque segnalare la volontà del legislatore del 1944 tanto di ristabilire il principio dell’assoluta eguaglianza di ciascun cittadino di fronte alla legge, quanto di riscostruire la situazione giuridica ed economica di coloro che erano stati materialmente danneggiati dalla legislazione razziale[4]. Il lasso di tempo intercorso tra la caduta del fascismo ed il mancato l’attivismo del legislatore risulta, però, ampio; talmente ampio da porre in discussione la politica del Governo dei c.d. “quarantacinque giorni”.


L’ambiguo operato del Governo dei c.d. “quarantacinque giorni”

Prima di riflettere sulle ragioni che impedirono al Governo Badoglio di agire in maniera decisiva in termini di repressione della normativa fascista e dei suoi effetti, appare vitale tracciare il quadro generale degli interventi attuati nel breve lasso di tempo (25 luglio – 8 settembre 1943). Le speranze di un impellente cambiamento suscitate dalla deposizione di Benito Mussolini da parte del Gran consiglio del fascismo si dovettero scontrare con il timore di dover gestire una realtà ancor più complessa. Entrando nel merito, il Governo Badoglio si era limitato a compiere soltanto qualche atto formale di carattere marginale, tra cui l’invito a restituire ai senatori ebrei i loro diritti, la soppressione dell’Ufficio studi e propaganda sulla razza, la revoca di talune autorizzazioni di polizia, la concessione dei passaporti, l’abolizione delle norme sull’internamento e i campi di lavoro. In concreto, si tratta di misure ben lontane da quelle auspicate, che non consentirono ai cittadini ebrei di poter riacquistare i propri diritti civili e politici. Difatti, è solo a seguito dell’armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943 che presero avvio le procedure per l’abrogazione delle “disposizioni limitative dell’esercizio dei diritti civili e politici dei cittadini italiani appartenenti alla razza ebraica”; tuttavia, il predetto processo – lungo, faticoso e talvolta contraddittorio – aveva rivelato specialmente nelle sue fasi iniziali la penetrazione di una mentalità razzista nella burocrazia, così come le resistenze alla reintegrazione degli ebrei nei loro diritti patrimoniali frapposte dagli interessi consolidati nel corso del tempo[5]. Tale circostanza è confermata dal linguaggio razziale impiegato ancora nel 1944 dai dirigenti della Questura e dalla Prefettura di Pescara che aveva giovato dell’ambiguità del lessico proposto dai decreti volti all’abrogazione della normativa razziale; a ciò deve aggiungersi che una parte significativa di essi era al servizio della Repubblica sociale, e dunque aveva applicato la legislazione razzista italiana[6].

Lo scenario appena delineato lascia trasparire chiaramente che il Governo Badoglio aveva lasciato il Paese in condizioni di assoluto abbandono, non preoccupandosi di proteggere i suoi cittadini: i timidi interventi compiuti non potevano competere con il mantenimento della costruzione giuridica persecutoria.

Il carattere ambiguo della politica del Governo Badoglio emerge anche dalle annotazioni del diario di Piero Calamandrei, il quale accentuava altresì il silenzio sceso negli ambienti politici romani circa l’abolizione delle leggi razziali. Alla luc di ciò, è possibile ammettere che l’inerzia governativa aveva non solo “offuscato” una data storica come quella del 25 luglio 1943, ma aveva anche reso irrilevanti le conseguenti manifestazioni di entusiasmo e l’ipotesi di riavviare un discorso antifascista nella società.


Le ragioni del vuoto di potere

Giunti a tale punto, appare doveroso riflettere sulle probabili ragioni che non consentirono al Governo in carica di intervenire in modo tempestivo a tutela della popolazione ebraica, nonché a rinviare l’opera capillare di defascistizzazione del Paese nel mese di settembre del 1943, in primis attraverso l’abrogazione della normativa razziale. È particolarmente accreditata la tesi secondo cui il Governo guidato dal maresciallo Pietro Badoglio decise di muoversi timidamente – alternando concessioni a chiusure – per il timore di inasprire il rapporto con gli alleati tedeschi. La predetta circostanza trova conferma nelle memorie scritte pubblicate alla fine del conflitto bellico; egli ammette l’impossibilità di addivenire, in quel preciso momento, ad una totale abrogazione delle leggi razziali senza scontrarsi con i tedeschi, e specialmente con Hitler, che non solo ne era stato il fautore, ma le aveva imposte a Mussolini, il quale pochi mesi prima aveva negato la sussistenza del problema ebraico nel contesto italiano. L’esigenza primaria, dunque, era quella di non destare dubbi negli alleati; il mantenimento delle misure antisemite rappresentava così l’unica modalità per avvalorare l’immagine di un’Italia fedele all’alleanza. Senza mettere in discussione un’imminente minaccia tedesca, si ritiene imprescindibile tenere conto di taluni elementi significativi, tra cui la piena adesione dello stesso Badoglio al “Diritto razzista” ed il suo omesso sostegno alle comunità israelitiche, con le quali non si rivengono incontri ad hoc nell’arco di tempo indicato. In aggiunta, appare irragionevole ricondurre la paternità delle leggi razziali ad Hitler, in modo tale da alleviare le responsabilità di Mussolini[7], a fronte dello storico discorso tenuto a Trieste il 18 settembre 1938 (“l’ebraismo mondiale è stato, durante 16 anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del Fascismo”), in occasione del quale egli decise di affrontare – per la prima volta – la delicata “questione ebraica”, anticipando la proclamazione delle leggi razziali[8].  

Un altro intralcio risiede nel rigido clima instauratosi all’interno dell’ambiente cattolico, in quanto dai documenti riguardanti l’attività della Santa Sede affiora che una parte delle misure adottate a detrimento dei cittadini ebrei risultano meritevoli di conferma secondo i principi e le tradizioni della religione cattolica[9]. All’indomani della caduta di Mussolini, la linea seguita dalla Santa Sede fu quella della piena obbedienza al governo costituito: il 7 agosto 1943 “La Civiltà Cattolica”, pur essendo indenne da giudizi di natura politica, invitava i cattolici a “cooperare con l’autorità legittima mediante la preghiera, l’azione e il sacrificio, affinché, superata l’ora tanto grave che pesa sui destini della Patria, si spiani la via dell’ascesa”; nel medesimo numero della rivista, l’articolo a firma di Padre Andrea Oddone (“La dignità dell’ubbidienza cristiana all’autorità civile”) impegnava il mondo cattolico ad una posizione di lealtà verso il Governo Badoglio, anche se sottraeva l’istituzione ecclesiastica dalle responsabilità derivanti dalla cooperazione con un regime violento e bellicista[10]. È interessante constatare come una corrente di pensiero riconduca l’atteggiamento non prettamente ostile della Santa Sede alla legislazione discriminatoria nei confronti degli ebrei alla circostanza che “l’ebraismo fosse direttamente collegato con i grandi nemici moderni della società cristiana”[11], aggiungendo che “il rifiuto della parità giuridica degli ebrei era parte integrante di quel mito di una rinnovata cristianità che la Chiesa coltivava da circa un secolo”[12]; solo con l’accettazione del principio della libertà di coscienza si gettarono le basi per l’avvio di un dialogo con gli ebrei, all’insegna del rispetto reciproco e dell’esaltazione della diversità.  

Infine, un terzo ostacolo è intravisto nella già accennata penetrazione della legislazione razziale nella macchina burocratica, che si muoveva in perfetta linea di continuità con la mentalità fascista; il linguaggio burocratico impiegato accentuava la perdurante riluttanza verso la reintegrazione dei cittadini ebrei nei loro diritti. Pertanto, la reale attuazione della abrogazione delle leggi razziali implicava l’intervento politico ai più diversi livelli e nei settori più disparati.

 

Conclusione

Sempre tenendo ferme le ragioni sopraesposte, si ritiene che l’omesso intervento da parte del Governo Badoglio tanto sulla soppressione della normativa italiana antiebraica quanto sulla rimozione degli effetti da questa scaturenti costituisca soprattutto un atto di mancato coraggio, che non trova alcuna giustificazione. La parentesi dei “quarantacinque giorni” aveva comportato un illusorio allentamento della pressione sugli ebrei, in virtù non solo della mancata abrogazione delle leggi razziste, ma anche delle palesi resistenze palesate in ordine alla responsabilità degli internamenti e delle misure di polizia e della persistente esclusione degli “appartenenti alla razza ebraica” dalle forze armate.

Nell’ottica di chi scrive, quanto verificatosi sino a quel momento storico avrebbe dovuto

spingere la classe dirigente a procedere ad un risanamento delle ferite arrecate dal regime fascista, consapevoli delle gravose conseguenze riversatesi sull’indentità nazionale, sulla dignità dello Stato, sulla coscienza individuale e collettiva ebraica. Il Governo Badoglio – data la sua breve durata – si sarebbe potuto limitare ad una dichiarazione di uguaglianza di tutti i cittadini veicolata attraverso qualunque forma. È opportuno marcare come la fine dell’incubo non si tradusse automaticamente nella fine dei calvari materiali, individuali e familiari; solo a distanza di anni iniziava a maturare nel contesto nazionale la percezione della dimensione che aveva assunto il conflitto bellico sotto la prospettiva della sorte degli ebrei. Si deve attendere l’insediamento della Costituente per rimediare ai “vistosi” errori del passato, o meglio per prendere atto che quando i cittadini non solo più eguali di fronte alla legge si infrange un principio fondamentale dell’ordinamento statutario, alternando  la struttura stessa della società oltre che il rapporto governanti-governati[13].

 

[1] R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 1961, p. 243.

[2] Nell’ottobre del 2014, due influenti antropologi hanno rivolto un appello al Presidente della Repubblica italiana e ai Presidenti del Senato, della Camera e del Consiglio dei Ministri per eliminare la parola “razza” dalla Costituzione. Per un approfondimento, in particolare, si veda A. Morelli, Togliere la parola «razza» dalla Costituzione? Ragioni e rischi di una revisione simbolica, in Quad. cost., n. 2, 2021, pp. 461-485.

[3] D.J. Falco, La legislazione italiana contro antisemitismo e razzismo, in M. Sarfatti (a cura di), Il ritorno alla vita vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, Giuntina, Firenze, 1998, p. 117.

[4] S. Caporaso, Integrazione nei diritti patrimoniali degli ebrei – Alienazione di beni immobili – Ebrei discriminati, in Archivio di Ricerche giuridiche, n. 4-5-6, 1947, p. 329 ss.

[5] Come ammesso da M. Toscano, L’abrogazione delle leggi razziali, in M. Sarfatti (a cura di), Il ritorno alla vita vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, cit., p. 62.

[6] G. Perri, Il caso Lichtner. Gli ebrei stranieri, il fascismo e la guerra, Milano, 2010, p. 32.

[7] Come spiegato da M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, Einaudi, Milano, 2002, pp. 25-26, la legislazione razziale riflette il passaggio dall’obiettivo primario, volto alla “eliminazione degli ebrei, italiani e stranieri, dal territorio e dalla società italiana”, a quello dell’eliminazione degli ebrei del proprio territorio a cui “faceva da specchio quello arianizzatore concernente la società italiana”. Sempre a tale proposito, C. Nardocci, Dall’invenzione della razza alle leggi della vergogna: lo sguardo del diritto costituzionale, in Italian Review of Legal History, 5/2019, n. 14, pp. 289-290, tiene a ricordare che il Partito Nazionale Fascista si assunse la piena paternità del documento “Il Fascismo e i problemi della razza”, noto anche come “Manifesto degli scienziati razzisti” – pubblicato il 14 luglio 1938 sul Giornale d’Italia, che determinava l’ingresso dello stesso Partito nella campagna antisemita.

[8] Per un approfondimento sul discorso, si veda M. Sarfatti, Il discorso razzista e antisemita di Mussolini a Trieste il 18 settembre 1938, in Qualestoria. Rivista di storia contemporanea, n. 1, 2013, pp. 103-111.

[9] Actes et documents du Saint Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, 9, Le Saint Siège et les victimes de la guerre. Janvier-Décembre 1943, Città del Vaticano, 1975, pp. 423-424.

[10] L. Ceci, Il pontificato di Pio XI e la violenza politica. Legittimazioni, delegittimazioni, circolazioni, in Raffaella Perin (a cura di), Pio XI nella crisi europea. Atti del Colloquio di Villa Vigoni, Ca’ Foscari, Venezia, 2016, p. 250, riporta che “diverse relazioni hanno mostrato come il rifiuto della violenza (politica, di guerra, razziale) non rientrasse tra i valori ‘non negoziabili’ da parte della Santa Sede, ma fosse tollerata, di fatto, come mezzo per difendere i diritti dei cattolici e per evitare il ‘male maggiore’: l’avvento del socialismo in Italia, la Rivoluzione spartachista, le politiche del Fronte popolare e la guerra civile in Spagna, la laicizzazione del Messico, la forza espansiva del Comintern”.

[11] Così, F.M. Feltri, Per discutere di Auschwitz. Le domande perenni, le tendenze della ricerca, i problemi ancora aperti, Giuntina, Roma, 1998, p. 159.

[12] Così, F.M. Feltri, Per discutere di Auschwitz, p. 159.

[13] L. Crisafulli, Lezioni di Diritto costituzionale, Cedam, Padova, 1970, p. 119.