La libertà sindacale nel periodo corporativo
La libertà sindacale nel periodo corporativo
Come si giunge alle corporazioni
Nel primo decennio del 900, l’Italia è un paese che fonda il proprio lavoro prevalentemente sull’agricoltura, mentre solo in alcune zone del paese si ritrova un lavoro industriale.[1] Nei primi quindici anni del Novecento, ossia nella cd. “Età giolittiana”, numerose richieste sono poste al legislatore al fine di emanare una legge volta a disciplinare le relazioni di lavoro, soprattutto collettive. Le proposte, caratterizzate da “una vena sottilmente illiberale”[2], consistono nel divieto di sciopero, arbitrato obbligatorio delle controversie collettive, riconoscimento per legge di un sindacato controllato e una contrattazione collettiva inderogabile. La Prima guerra mondiale, eccetto la immediata ebbrezza della vittoria che si diffonde in tutto il paese, porta conseguenze particolarmente negative, soprattutto nel mercato del lavoro. La crisi economica è molto grave e la lira è trascinata nel vortice dell’inflazione, i salari medi reali degli operai sono dimezzati rispetto a quelli esistenti cinque anni prima[3]. L’inasprimento delle condizioni di vita delle classi popolari produce una vera e propria reazione a catena, costituita da scioperi, manifestazioni e soprattutto occupazioni sia di terreni che di fabbriche.
Per la prima volta si individua un sentimento di insoddisfazione generalizzato tra i lavoratori. La protesta è posta in essere dagli operai nelle industrie, dai braccianti nelle campagne ed anche dai pubblici dipendenti. Infatti, l'anno 1919 totalizza complessivamente in Italia oltre 1.800 scioperi economici e più di 1.500.000 scioperanti[4]. Gli operai scioperano in particolar modo per ottenere aumenti dei salari e la riduzione del lavoro a otto ore (riconosciuta soltanto nell’aprile del 1919), mentre nelle campagne agli scioperi prendono parte più di 500.000 lavoratori e si riscontrano diverse finalità: i braccianti lottano per ottenere il monopolio del collocamento e l’imponibile della manodopera, mentre i salariati fissi e i mezzadri chiedono di stipulare nuovi accordi per loro più favorevoli. Inoltre, nel 1919 si verificano, soprattutto nel Lazio e nel meridione, importanti lotte per l'occupazione delle terre incolte da parte di braccianti agricoli, coloni e contadini piccoli proprietari. Soprattutto in Toscana, ove si ricordano i “Bocci-Bocci”, si formano delle rivolte contro il carovita. Tali moti si diffondono in pochi mesi in tutta la penisola. La repressione dei moti popolari è particolarmente cruenta nelle campagne. “L'episodio più efferato è l'eccidio di Canneto Sabino in provincia di Rieti in cui restano uccisi undici braccianti, tra cui due donne.”[5] Le proteste si intensificano ulteriormente nel 1920, quando si formano in Italia più di 2.000 scioperi e più di 2.300.000 scioperanti; nello stesso anno, i lavoratori organizzati in sindacati ammontano a più di 3.500.000, di cui 2.150.000 nella sola C.G.d.L. In questo stesso anno il padronato industriale e agrario si organizza a livello nazionale: nel dicembre 1920 nasce la Confederazione generale dell'agricoltura[6]. Tale periodo storico viene definito “Biennio Rosso”. Gaetano Salvemini, studiando le cronache giornalistiche del biennio, ha messo in evidenza che 65 sono le vittime delle violenze operaie, mentre 109 militanti operai sono morti durante gli scontri dalle forze dell’ordine, mentre altri 22 sono uccisi da altri civili.[7]
Avvento del fascismo e la nascita del Corporativismo
Nel 1922 l’Italia diventa fascista. “Il nuovo governo mostrò presto i tratti autoritari che i lavoratori già conoscevano, poiché lo squadrismo fascista si era già da anni distinto nella repressione, spesso brutale, dell’associazionismo sindacale”.[8] La dittatura si impone nel 1925 con l’assunzione da parte di Mussolini della responsabilità morale del delitto Matteotti e si consolida nel 1926 con le leggi “fascistissime”, che aboliscono ogni libertà politica e di espressione contraria al potere[9]. Tali leggi segnano l’inizio del Corporativismo[10]. Si tratta dell’ideologia portante del regime, ove si cerca di risolvere il contrasto tra lavoratori e imprenditori, ponendoli uno di fianco all’altro, poiché il lavoratore diventa “collaboratore” del datore di lavoro[11] e a questi deve essere “Fedele”[12]. Quindi, l’imprenditore è considerato “capo della fabbrica” mentre i lavoratori sono suoi collaboratori, anche se “dipendono gerarchicamente” da lui.[13]
Nel rapporto tra le parti non deve emergere l’interesse del capitalista contrapposto all’interesse dei lavoratori, ma tutto deve essere rivolto al soddisfacimento di un interesse superiore.[14] “Quello di un Stato, hegelianamente etico, che deve imporsi e condurre al superamento di ogni conflitto causato dai contrapposti interessi di classe”.[15] Quindi, “il fine superiore è la prosperità economica nazionale a cui concorrono tutte le forze di lavoro, organizzative, esecutive, intellettuali, tecniche e manuali, ciascuna delle quali deve poter fruire della tutela commisurata al ruolo svolto nel processo produttivo.”[16] Nello Stato corporativo fascista a molti studiosi stranieri e nazionali, anche cattolici, si manifesta il superamento del conflitto tra classi che aveva caratterizzato la politica europea negli anni precedenti: il capitalismo «rapace», l'individualismo sfrenato, la lotta di classe, il comunismo livellatore. Si istituisce il Consiglio Nazionale delle Corporazioni, mentre per sostituire la Camera dei deputati, si istituzionalizza la Camera dei fasci e delle corporazioni. Inoltre, si dispone la chiusura delle Camere del Lavoro, suscitando una forte reazione nei sindacalisti, negli operai e nei contadini, che con forza cercano di resistere e difendere quei luoghi.
Nel periodo corporativo il lavoro non è un diritto della persona che lo presta, bensì un dovere sociale, il cui adempimento è conforme alle modalità ed alle condizioni poste dall’imprenditore. I vantaggi per l’imprenditore sono individuabili nell’organizzazione e nella direzione, che permettono allo Stato di imporre un clima sociale a-conflittuale[17]. Ciò è possibile soltanto criminalizzando ogni forma di contestazione sindacale e preservando tale clima in ogni modo. Ma è impossibile una radicale eliminazione del conflitto tra le parti mediante un’elaborazione teorica. Le corporazioni sono enti aventi natura pubblicistica che riuniscono i rappresentanti dei lavoratori e dei capitalisti, ma nonostante l’idea di base fosse presente sin da subito come pietra d’angolo del regime fascista, soltanto col la l. 163 del 1934 saranno ufficialmente istituite. Ma il sistema non diverrà mai operativo. “Il sistema giuridico non è mai corporativo se non di nome”.[18] Infatti, il modello corporativo conserva i lineamenti d’un produttore al quale bisogna poter chiedere più obbedienza che consenso. La struttura piramidale su cui si fonda lo Stato richiama la medesima struttura esistente nei luoghi di lavoro, sia nelle fabbriche che nelle campagne. Una struttura dove “pochi comandano e sono sempre gli stessi”.
Si richiama alla mente la dinamica sociale esistente nell’età liberale.[19] Pur tuttavia, a fine Ottocento i primi sindacati cercavano con forza di combattere le angherie del padrone in ogni modo. Per evitare forme di contestazione ed il blocco della produzione, lesivo dell’interesse dello Stato, il regime fascista interviene sin da subito sugli unici organismi in grado di poter opporsi: i sindacati. Questi ultimi diventano sin da subito “oggetto di controllo”.[20] Infatti, il r.d.l. 24 gennaio 1924 n. 64 sancisce la “vigilanza dell’autorità politica della Provincia sulle associazioni e corporazioni di qualsiasi natura, mantenute coi contributi dei lavoratori”. Il guardasigilli Alfredo Rocco aveva teorizzato il sindacato come organo di stato[21], con il fine specifico di svolgere pubbliche funzioni, collaborazione con l’impresa ed il partito, al fine di prevenire qualsiasi contrasto.[22] Il 2 ottobre 1925 Confindustria e i sindacati fascisti firmarono il Patto di Palazzo Vidoni, ove si riconoscevano reciprocamente come unici rappresentanti delle parti sociali.[23] La Carta del Lavoro del 1927, contenente i principi fondanti dello stato, sancisce all’art. 3 che l’organizzazione sindacale è libera ma, contestualmente, ribadisce che la rappresentanza professionale e la stipulazione dei contratti collettivi di lavoro obbligatori sono oggetto di potere esclusivo delle associazioni riconosciute.
Dunque, i lavoratori non erano totalmente liberi di costituire delle organizzazioni sindacali né le stesse, già esistenti, potevano agire liberamente. Possiamo dire, dunque, che in astratto si ammette siffatta libertà, ma nei fatti si nega il pluralismo sindacale. “La legislazione del 1926, fedele all’ideologia corporativa dell’eliminazione del conflitto di classe, abolisce definitivamente la libertà sindacale, riconduce le controversie tra lavoratori e datori di lavoro all’arbitrio dello Stato e delle corporazioni”;[24] il sindacato, ente pubblico diventa organo dello Stato totale, del tutto funzionale alle sue strategie. Con l’avvento del fascismo viene meno il pluralismo sindacale[25] e sono posti dei limiti al riconoscimento del sindacato e ai suoi poteri. Infatti, i sindacati “antinazionali sono “sciolti[26], ed è istituito di fatto il sindacato unico fascista[27], ente pubblico nelle mani del partito[28]. Il riconoscimento è attribuito, su proposta ministeriale, ad una sola associazione sindacale per categoria, ed è sottoposta a due condizioni: la prima è che rappresenti almeno il dieci per cento dei lavoratori; la seconda è che i dirigenti costituiscano garanzia di capacità, di moralità e di sicura fede nazionale. Soltanto il sindacato riconosciuto[29] poteva stipulare il contratto collettivo[30] con efficacia generale per tutti i lavoratori della categoria, a prescindere dalla loro adesione volontaria (rappresentanza legale). Il contratto corporativo, concluso da soggetti con personalità giuridica di diritto pubblico, è configurato come una vera e propria legge[31]. La legge Rocco, inoltre, prevede un potere particolarmente invasivo a svantaggio dell’organismo sindacale. Infatti, si prevede il potere, in capo allo Stato, nella figura del Ministro delle Corporazioni (istituzione creata in tale periodo) e di quello dell’Interno, di revocare i dirigenti al vertice dell’organizzazione sindacale (art.7), di sciogliere le associazioni, sottoposte ad una stretta vigilanza ministeriale (art. 8) e, altresì, di disconoscere successivamente il sindacato quando fossero venute meno le condizioni richieste per la registrazione (art. 9). Non solo lo sciopero ma anche la serrata sono riconosciuti come reato dal nuovo codice penale del 1930(il codice Rocco)[32]. La legge n.563 del 1926 è la madre di tutte le leggi del periodo in materia di lavoro. Non a caso è stata definita “fascistissima”. Ma nonostante ciò, lo stato fascista la considera solo come una fase di transizione per l’evoluzione e la stabilità del nuovo ordinamento.[33] Infatti gli aspetti analizzati da tale legge sono: “la costituzione di sindacati unici di categoria; l’efficacia sostanzialmente legislativa dei contratti collettivi che essi avrebbero stipulato; la devoluzione alle competenze delle corti di appello, con l’aggiunta di assessori designati dai sindaci per dirimere tutti i conflitti collettivi inconciliabili in sede negoziale, il divieto di ricorso ai mezzi di autotutela, poiché “ non hanno bisogno della violenza per difendersi quando godono del diritto di rivolgersi al giudice”.[34] Il 21 aprile 1930 fu Mussolini, nel discorso inaugurale del Consiglio Nazionale delle Corporazioni, a rivendicare alle corporazioni la funzione di esaurire in sé il compito del sindacalismo fascista, superando ed andando oltre al sindacalismo stesso: «È nella corporazione che il sindacalismo fascista trova infatti la sua meta.
Il sindacalismo, di ogni scuola, ha un decorso che potrebbe dirsi comune, salvo i metodi: s'incomincia con l'educazione dei singoli alla vita associativa; si continua con la stipulazione dei contratti collettivi; si attua la solidarietà assistenziale o mutualistica; si perfeziona l'abilità professionale. Ma mentre il sindacalismo socialista, per la strada della lotta di classe, sfocia sul terreno politico, avente a programma finale la soppressione della proprietà privata e dell'iniziativa individuale, il sindacalismo fascista, attraverso la collaborazione di classe, sbocca nella corporazione, che tale collaborazione deve rendere sistematica e armonica, salvaguardando la proprietà, ma elevandola a funzione sociale, rispettando l'iniziativa individuale, ma nell'ambito della vita e dell'economia della Nazione. Il sindacalismo non può essere fine a sé stesso: o si esaurisce nel socialismo politico o nella corporazione fascista. È solo nella corporazione che si realizza l'unità economica nei suoi diversi elementi: capitale, lavoro, tecnica; è solo attraverso la corporazione, cioè attraverso la collaborazione di tutte le forze convergenti a un solo fine, che la vitalità del sindacalismo è assicurata.» [35]
La caduta del fascismo ed il periodo transitorio
Travolto dal cattivo esito del II conflitto mondiale, in uno stato segnato dalle numerose proteste nelle grandi fabbriche, il fascismo cade nel 1943. Si cerca di ripristinare lo status quo ante, eliminando tutte le istituzioni del regime, tra queste le corporazioni[36].
Il legislatore persegue tale scopo con il D. Lgs. 369 del 1944. Inoltre, si affidano le organizzazioni sindacali di diritto pubblico dei lavoratori e degli imprenditori a due commissari, che stipulano il primo contratto collettivo libero dopo l’esperienza corporativa. Si tratta dell’accordo Buozzi-Mazzini, che ripristina le commissioni interne.[37] Al fine di garantire ai lavoratori una minima tutela sociale, il legislatore ha disposto che i contratti collettivi stipulati dai sindacati di diritto pubblico, appena disciolti, rimanessero in vigore, fino a quando non fossero intervenuti nuovi contratti nella fase post corporativa. Con il Patto di Roma del 1944 si costituisce il sindacato libero e vi è la nascita di una Confederazione sindacale unitaria dei lavoratori (CGIL), che detiene una base libera e volontaria (caratteristiche totalmente assenti nel sindacato corporativo); tale organismo, per la prima ed unica volta in Italia, “riunisce tutte le anime del sindacalismo, da quella marxista a quella laico liberale a quella cattolica[38]. Con un decreto luogotenenziale del 1944 si ha la definitiva abrogazione dell’ordinamento corporativo ed il venir meno di tutti i sindacati corporativi.
Pur tuttavia, si lasciano in vigore, mediante il R.D.L. 58 del 1944, tutte le norme corporative “salvo successive modifiche”. Vengono ripristinate le Camere del Lavoro, organismi che erano stati aboliti nel 1926 e che risorgono come associazioni di fatto, provinciali e comunali nel 1943. Nella Repubblica sociale italiana, stato fantoccio nelle mani del Terzo Reich, si pone un programma di socializzazione delle grandi imprese. Esso consiste nel trasferimento allo Stato della proprietà di imprese che operano in determinati settori, nella cogestione di tutte le imprese con più di cento lavoratori da parte dei rappresentanti dei lavoratori e nella partecipazione agli utili dei lavoratori stessi. Sembra un programma rivoluzionario, ma in realtà non è mai stato posto in esecuzione. La funzione è puramente demagogica e scenografica, poiché si cerca di minacciare i grandi proprietari ed industriali e, contemporaneamente, bloccare gli scioperi dei lavoratori. (scioperi puniti con fucilazioni di massa e deportazioni nei campi di concentramento). Tale norma viene abrogata dal comitato di liberazione nazionale, con decreto del 25 aprile del 1945.