L'antisemitismo nella Criminologia del Novecento
L' antisemitismo nella Criminologia del Novecento
La diffusione dell' antisemitismo
Il nazismo ed il fascismo avevano creato un Ordinamento giuridico e, prima ancora, sociale in cui l'antisemitismo era giustificato e, anzi, incentivato dal Diritto. Tuttavia, esistono pure istanze morali superiori, in tanto in quanto, come asserito da Cartabia & Violante (2018) “se, da una parte, il rischio è quello di allargare illimitatamente i confini delle azioni e delle persone sanzionabili, dall'altro lato vi è quello di sentirsi autorizzati a qualsiasi atrocità, perché così vuole la legge. Al processo di Norimberga, agli imputati che si difendevano affermando di avere ubbidito alle leggi, venne contrapposta l'esistenza di principi universali e prevalenti che riguardano il rispetto della dignità umana“. Trattasi della perenne conflittualità tra un “diritto di natura“ che sovente confligge con il dato de jure condito. La Morale è ontologicamente autorizzata a porre dei limiti precettivi al Diritto. Anche Eichmann, durante il processo di Gerusalemme, come riferito in Crescenzi (2016), aveva tentato di ipostatizzare il Diritto rispetto all' Etica, poiché “Führerworte haben Gesetzeskraft“ [le parole del Führer avevano forza di legge]. Del resto, Scholl (2006) rileva che Kurt Hüber, partigiano tedesco giustiziato dai nazisti nel 1943, aveva affermato, prima di essere messo a morte, che “il ritorno a principi chiari, morali, allo Stato di Diritto, alla mutua fiducia tra gli uomini non è un'illegalità, ma, al contrario, il ripristino della legalità“. Dunque, come si può notare, il dramma del contrasto al nazi-fascismo è stato quello della contestazione di un Diritto valido, ancorché ingiusto se rapportato alla ratio metatemporale e metageografica del rispetto verso la dignità dell'uomo. In termini laicisti, Torodov (2001) ha precisato che “il delitto potrebbe diventare legittimo perché il popolo l'ha voluto e l'individuo l'ha accettato ? No. C'è qualcosa che si trova al di sopra della volontà individuale e della volontà generale, e che, tuttavia, non è la volontà di Dio: è l'idea stessa di giustizia“. Sempre entro una prospettiva non necessariamente religiosa, Lévinas, citato in Torodov (ibidem) parla del “valore assoluto dell' umanità“, il quale, sotto il profilo assiologico, va anteposto al dato de jure condito.
Rummel (1991) nota, sotto il profilo statistico, che, nel Novecento, i genocidi hanno recato alo sterminio di 121 milioni di persone, mentre le guerre, nel secolo scorso, hanno provocato la cifra inferiore di 82 milioni di morti. Secondo le rilevazioni di Pinker (2017), tutti gli omicidi volontari del XX Secolo hanno prodotto meno assassinii delle esecuzioni sostenute da motivi razziali e/o religiosi. Tuttavia, anche negli Anni Duemila, mancano serie e scientifiche analisi criminologiche del genocidio. P.e., Yacoubian (2000) ha amaramente rinvenuto un solo Articolo sullo sterminio razziale, dal 1990 al 1998, passando in rassegna le tredici Riviste criminologiche più importanti dell' Occidente. Parimenti, Day & Vandiver (2000) denunziano che “la Criminologia del genocidio è ancora agli inizi“, anche se l'immane tragedia novecentesca del Rwanda ha accesso una luce di speranza all'interno della Letteratura criminologica.
Evidentemente, soprattutto durante il nazi-fascismo, l'odio etnico per antonomasia si è rivolto e si rivolge verso gli ebrei. Secondo Israel (2005), “la concezione degli ebrei come gruppo estraneo, ostile ed indesiderabile […] è attribuibile al fenomeno della diaspora, [poiché] gli ebrei costituiscono un gruppo che vive all'interno di società più ampie pur mantenendo la propria identità. [E'] un gruppo di stranieri in patria, condizione, in questo senso, condivisa con gli zingari (anche loro perseguitati)“. Interessante è pure Beller (2017), a parere del quale “l' antisemitismo è l'odio per gli ebrei, che si è diffuso attraverso i secoli ed i continenti, Nell'accezione (relativamente) moderna, esso si identifica con un'ideologia e una corrente politica, sorta in Europa centrale verso alla fine del XIX Secolo, che ha raggiunto il suo scellerato apice con l'Olocausto […]. L'antisemitismo è spesso anche inteso come una categoria psicologica, che varia da un vago pregiudizio dispregiativo nei confronti degli ebrei, in quanto diversi, fino ad una patologia conclamata di odio paranoico, che ne propugna lo sterminio, considerandoli una razza intenzionata a distruggere la civiltà occidentale (ariana)“. Secondo Wistrich (1991) la persecuzione verso gli ebrei rappresenta l'odio etnico per antonomasia, ovverosia “l' antisemitismo è probabilmente la matrice di ogni razzismo o etnocentrismo, perché […] il pregiudizio contro gli ebrei ha una storia millenaria, che, di volta in volta, si è rivestita di razionalizzazioni differenti, dall'accusa di deicidio e di omicidio rituale, sopravvissuta fin quasi nell'attualità, a quella del complotto economico-politico, ancora praticata, e ha assunto fisionomia diversa a seconda del bisogno contingente. Questa proteiformità consente di analizzare le molteplici cause, chiedendoci quali e quante potrebbero essere riciclate, per essere utilizzate contro altri gruppi di persone, appunto alla bisogna“. Tra il 1879 ed il 1914, nell'Impero austro-ungarico, dodici ebrei vennero processati per omicidio rituale. Anche nella Russia degli Zar, nel 1913, un ebreo venne accusato di sacrificio umano.
Beller (ibidem) ha notato che molti ebrei di pelle bianca, negli Anni Sessanta del Novecento, avevano sostenuto le rivolte degli afroamericani di Martin Luther King, e ciò illumina molto con afferenza al carattere “trasversale“ ed “emblematico“ del pregiudizio antisemita. Del pari, Germinario (2010) propone anch'egli una visione archetipica dell'antisemitismo, in tanto in quanto “è tutt'altro che un caso che, nei totalitarismi fascista e nazista, razzismo ed antisemitismo abbiano convissuto sino a divenire due universi ideologici inscindibili. Il razzismo, insomma, è uno, anche se può assumere diversi aspetti e diversi obiettivi“
Bauman & Goldkorn (2018) indicano, tuttavia, che la sistematicità dell'antisemitismo negli Anni Trenta e Quaranta del Novecento non aveva mai avuto analoghi antecedenti; in effetti, “in quanto progetto che prevedeva l'annientamento di uomini, donne, bambini perché appartenenti o assegnati ad una categoria prescindendo dalle loro azioni, la parola Olocausto non aveva precedenti nella Storia e, pertanto, non aveva un nome consolidato nei dizionari […] Olocausto, nel Levitico, significa interamente bruciato e si riferisce all'offerta portata al Tempio, che doveva essere completamente distrutta con il fuoco“. Dopo la Shoah, nel Diritto internazionale, venne coniato il lemma tecnico “genocidio“, impiegato anche nella fattispecie del massacro degli Armeni. Assai interessante è la terminologia usata da Kelman (1973), il quale parla, nel caso dei genocidi, di “sanctioned massacres“ [massacri autorizzati], ovverosia “progettati dalle autorità per annientare un'intera categoria di persone designate per la loro appartenenza etnica, nazionale, religiosa o per altro“. Tuttavia, Bauman & Goldkorn (ibidem) esortano la Criminologia degli Anni Duemila ad estendere ad altri genocidi le categorie interpretativo-giuridiche tipiche della Shoah. Levi (1986) definisce lo sterminio degli ebrei “la macchia di [questo] secolo“. Tuttavia, Segre & Delera (2015) ribadiscono che l'Olocausto si è trasformato in un evento paradigmatico che, oggi, è la griglia ermeneutica migliore per comprendere tutti gli altri genocidi su base etnico-religiosa. Inoltre, Kelman (ibidem) sottolinea che esiste una notevole differenza tra la “soluzione finale“ ed un “evento bellico“ in senso proprio, in tanto in quanto “la Shoah non fu un combattimento, un confronto tra due forze, ma fu assolutamente unidirezionale: l'uccisione di donne, vecchi e bambini [anziché soldati] ne è la prova“. Il razzismo occidentale verso gli ebrei assume pure delle connotazioni linguistiche, giacché, sotto il profilo etimologico, il lemma “ebreo“ pare derivare da “habiru“, che significa non solo “fuoriuscito“, “rifugiato“, ma anche “nemico“, “bandito“.
Molti Autori, nella Criminologia contemporanea, reputano che l'antisemitismo costituisca la cartina-tornasole di ogni tipo di razzismo post-bellico. Forse, dall'intolleranza verso gli ebrei si può comprendere il livello raggiunto dalla discriminazione etnica in un determinato tessuto sociale. Adorno et al. (1973) affermava, già negli Anni Settanta del Novecento, che “l'antisemitismo […] è trasversale alle posizioni politiche o, se si vuole, partitiche; lo si ritrova, per così dire, a destra e a sinistra. Nell'attualità, pochi giungono a negare l'Olocausto -ma ci sono anche quelli- e l'antisemitismo prende forme più sottili, che abitualmente contengono l'avverbio però […]. Non sono razzista, però … Tutta una serie di però che testimonia il pregiudizio e che è riassumibile nell'archetipo dei però: però non sono come noi“. Senz'altro, tuttavia, la Shoah non è un fenomeno limitato alla Germania dei primi del Novecento. Durante i decenni successivi, infatti, molti genocidi sono stati e sono compiuti in altri, diversi territori, come dimostrano le tragiche esperienze del Rwanda e dell'ex Yugoslavia. P.e., consta, sotto il profilo statistico, che, durante la II guerra mondiale, le vittime tedesche furono ben 7 milioni, tra cui molti civili. Dunque, qualsiasi Nazione può mettere in atto stermini su base etnica.
La responsabilità dell'Olocausto nazi-fascista
L'Olocauso era ben radicato nell'ideologia nazista, la quale ebbe l'appoggio dell'intera comunità nazionale. A tal proposito, Nielsen & Zizolfi (2005) hanno sottolineato che “l'analisi del nazismo non ha a che fare con singoli individui, ma con un'intera comunità“. P.e., dal punto di vista numerico, Auschwitz era servita da ben 7.000 guardie. Dachau, nel 1945, impiegava 4.100 funzionari, tra soldati e segretari/e. Sempre nel 1945, Mathausen possedeva 5.700 custodi. Ognuno dei 450 treni giunti nei campi di concentramento era custodito da un UPG e da quindici UU.PP.SS. nazisti. Gli Einsatzgruppen delle SS (unità di intervento) giunsero, durante la guerra, a 6.000 agenti in servizio. A ciò si aggiungano 38 “Battaglioni di Polizia“ impegnati nei campi di concentramento, per un totale di 19.000 componenti. Si stima che il solo Himmler avesse, al suo comando diretto, tra il 1941 ed il 1943, almeno 25.000 uomini delle SS. Inoltre, Browning (2022) ha tentato di calcolare l'enorme numero degli “Schreibtschtäter“ [assassini da tavolino] che si occupavano della gestione amministrativa dei campi di sterminio. Oppure ancora, come rimarca Gilbert (2005) la precisione nazista giungeva all'orribile punto di catalogare ed etichettare i denti d'oro strappati ai cadaveri dei prigionieri uccisi nelle camere a gas. Anche i Magistrati tedeschi, tra il 1939 ed il 1945, emisero ben 16.000 condanne a morte, arbitrarie ed irrituali, sulla base della legge nazista afferente alla “ predisposizione criminale“, alla quale era connessa una sanzione criminale c.d. “indefinita“. Altrettanto non-garantistica fu la Sentenza di condanna a morte destinata ai componenti della “Rosa Bianca“, noto gruppo di resistenza anti-nazista.
Molto importante fu pure la partecipazione all'Olocausto di imprese commerciali come la Krupp e la Siemens-Schuckert, che, grazie al campo di concentramento di Auschwitz, poterono contare sulla manodopera gratuita di 35.000 internati, 25.000 dei quali successivamente uccisi. Oppure ancora, la Topf di Wiesbaden costruì quasi tutti i forni crematori per i prigionieri. Detta azienda, ciononostante, rimase tranquillamente attiva sino agli Anni Settanta del Novecento. Secondo Browning (ibidem) persino i gruppi ricreativi per i soldati tedeschi erano perfettamente a conoscenza del destino degli ebrei nei lager. Si segnala, tuttavia, la voce isolata del Card. Clemens von Galen, strenuo oppositore del regime nazista e del suo folle programma di eutanasia totale. Gilbert (ibidem) testimonia pure le parole di Pio XI, nel 1937, in cui il nazismo venne qualificato come “un'arrogante apostasia di Gesù Cristo […] l'idolatria della razza […] la distruzione della libertà e della dignità dell'uomo“. Deaglio (2017) ha ricordato l'esemplare aiuto ai bambini ebrei fornito dal Card. Angelo Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII, nel 1943. Si segnala pure Crescenzi (2016), il quale rimarca che “il clero italiano nascose molti ebrei e le loro famiglie nei monasteri, e il racconto di testimoni sopravvissuti proprio grazie a questo lo conferma“. In ultima analisi, l'Olocausto non è imputabile all'intero popolo tedesco, ma, senz'altro, vi fu molta indifferenza, presso l'opinione pubblica. Browning (ibidem), con un'immagine assai provocante e viva, ha scritto che “la strada per Auschwitz era costruita sull'odio, ma lastricata di indifferenza“. Basti pensare che Kempowski (2015), negli Anni Settanta del Novecento, intervistò 500 residenti nella Repubblica Federale tedesca e molti risposero, con malcelata nostalgia, che Hitler era stato una sorta di garante dell'ordine e della tranquillità, quel medesimo ordine che aveva costituito una delle parole- chiave del nazismo negli Anni Venti e Trenta del Novecento.
Quanto al ruolo dei civili, Goldhagen (1996) rimarca che “un mito da sfatare è quello secondo cui la popolazione non sapesse cosa stava accadendo. I partecipanti ai massacri, i militari impegnati sul fronte orientale tornavano a casa in licenza e avranno raccontato qualcosa“. A tal proposito, emblematica è la lettera, catalogata da Ingrao (2012), inviata da Walter Mattner alla moglie dopo l'incursione nel ghetto ebraico di Mogilev: “ho preso dunque parte alla grande uccisione di massa dell'altro ieri. Ai primi veicoli [che portavano le vittime] le mie mani hanno un po' tremato al momento di sparare, ma ci si abitua. Alla decima vettura, prendevo la mira con calma e sparavo con fare sicuro contro le donne, i bambini ed i numerosi neonati, cosciente del fatto che ho anch'io due lattanti a casa“. Anzi, Levi (1986) riferisce che, nel campo di concentramento di Katovice, i civili si recavano per acquistare calzature ed abiti sottratti ai cadaveri dei prigionieri gassati. Più e più volte, Goldhagen (ibidem) ribadisce che l'Olocausto in corso era ben noto alla popolazione civile tedesca. P.e., sempre in Germania, i medici favorevoli all'eutanasia ed all'eugenetica ricevevano migliaia di cadaveri sui quali fare esperimenti. Naturalmente, la provenienza delle salme era ben nota, così come noti erano pure i crudeli esperimenti del Dr. Mengele. Con eccessivo ottimismo, Mosse (1994) sostiene che la maggior parte dei civili tedeschi “mai si lasciò sedurre“, ma, al contrario e con maggiore realismo, Arendt (2019) si arrende all'evidenza e conferma che “molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande maggioranza, dovettero essere tentati di non uccidere, non rubare, non mandare a morire i loro vicini di casa […] Essi sapevano che gli ebrei erano trasportati verso la morte e dovettero essere tentati di non trarre vantaggi da questi crimini e divenirne complici. Ma Dio solo sa se avranno imparato a resistere a queste tentazioni […].
La soluzione finale, se doveva essere applicata in tutta Europa, richiedeva qualcosa di più che il tacito consenso dell'apparato statale: richiedeva la collaborazione attiva di tutti i ministeri e di tutti i servizi civili“. Basti pensare che, negli Anni Sessanta del Novecento, nella Repubblica federale di Germania, su un totale di 11.500 Magistrati in servizio, ben 5.000 avevano svolto il loro ministero nei “Tribunali del popolo“, costituiti in epoca nazista. Di tali connivenze trascorse era ben cosciente anche Adenauer. In effetti, Borgomaneri (1997) ha criticato il fatto che i Tribunali di Hamm e di Colonia per il perseguimento dei crimini nazionalsocialisti erano composti da Magistrati collusi con le politiche hitleriane. Pure Frei (2003) ha censito, anche dal punto di vista numerico, che “medici, imprenditori, ufficiali, giornalisti e giuristi sono transitati, più o meno tranquillamente, dalla classe dirigente nazista a quella della Germania del dopoguerra“. Come si può notare, dunque, l'opinione pubblica tedesca non era e non è stata totalmente dissociata dal regime e dai suoi orrendi crimini contro l'umanità. Kempowski (ibidem) riconosce la “rifondazione culturale, la rieducazione e la de-nazificazione“ intrapresa dallo Stato tedesco dopo la II guerra mondiale. Tuttavia, l'epurazione non fu totale, perlomeno nella Germania Ovest, ove troppi funzionari post-bellici risultano essere stati fedeli servitori della barbarie nazionalsocialista.
P.e., Franz von Papen, vice-cancelliere del Reich, venne assolto a Norimberga, poi condannato nel 1947 dal Tribunale per la denazificazione, ma scontò solo due degli anni di lavori forzati comminatigli. Gli venne persino riconosciuta una pensione per aver servito lo Stato in qualità di ambasciatore. Oppure ancora, si pensi al caso di Schacht, criminale nazista che scontò solo due anni di carcere, banchiere di successo ad Amburgo nel dopoguerra e uomo di fiducia presso la Bundesbank sino alla morte, nel 1970. Assai significativa è pure la sorte di Theodor Saevecke, capo della Gestapo a Milano, responsabile delle torture nel carcere di San Vittore ed all'Albergo Regina, esecutore materiale dell'eccidio di Meina e delle fucilazioni del 10 Agosto 1944 in piazzale Loreto, sempre a Milano. Ebbene, Saevecke non fu né perseguito né epurato e, sino agli Anni Sessanta del Novecento, fece una brillante carriera nei più prestigiosi Dipartimenti federali della Polizia della Germania occidentale.
Il pericolo di un nuovo nazismo.
Alla luce delle odierne derive xenofobe della politica, Bayard (2018), sotto il profilo criminologico, afferma che “oltre alla domanda che si pone la scienza del male [la Criminologia] circa la possibilità che persone comuni compiano eccidi, un quesito che si rivolgono tutti è quello che riguarda l'eventualità che la Storia possa vacillare di nuovo“. Tale era pure la domanda inquietante che si poneva Peter Malkin, UPG del Mossad che, nel 1960, coordinò l'arresto di Eichmann in Argentina. D'altra parte, gli Anni Novanta del Novecento hanno visto i genocidi del Rwanda e di Srebrenica. Quest'ultimo si è consumato a poche ore di aereo dall'Italia e lascia intendere che, nella Storia, un ritorno ciclico non è poi così improbabile da escludere
A parere della più recente Criminologia, il calo di omicidi volontari, in Europa, è spiegabile con la Teoria del “processo di civilizzazione“. Pinker (2011) sostiene, forse con eccessivo entusiasmo, che “il posto più sicuro nella storia dell'umanità è l'Europa occidentale a cavallo del XXI Secolo“ Tuttavia, il medesimo Pinker (ibidem) riconosce che “il Novecento è stato il Secolo dei genocidi“. L'espressione “processo di civilizzazione“ è stata coniata, per la prima volta, nel 1939, da Elias (1988), il quale, tuttavia, non si riferiva né ai genocidi né agli eventi bellici. Elias (ibidem) osservava, invece, “la diminuzione, anche nella Germania nazista, dei cc.dd. omicidi privati“. A parere di molti Autori, la “civilizzazione anti-omicidaria di Elias (ibidem) costituisce un'utopia fragile e priva di fondamento. In effetti, con maggiore realismo, Torodov (2019) afferma la necessità di un “umanesimo critico […] [Poiché] bisogna rinunciare all'idea di un progresso continuo, al quale credevano alcuni grandi spiriti del passato. Ciò non prova affatto che l'umanità segua inesorabilmente una china discendente, ma solo che la direzione della Storia non è sottomessa ad alcuna legge semplice, né, forse, ad alcuna legge tout court“.
Anzi, il criminologo Kelley, come riferito in Zizolfi (2016), reputa che un ritorno ai genocidi sia più che possibile, in tanto in quanto “il nazismo è stato una malattia socio-culturale che, se ha provocato una vera e propria epidemia solo nei nostri nemici, è però endemica in ogni parte del mondo. Temo proprio che, in certe condizioni, potrebbe [ri] diventare epidemica, anche nel mio stesso Paese“. Kelley, dunque, smentisce la candida ed ingenua Tesi del “processo di civilizzazione“, dato che non si può escludere, per gli anni a venire, una ricrescita esponenziale dell'omicidio volontario e degli ancor più gravi omicidi di massa motivati da variabili etnico-religiose. Il progresso civile ed umanitario non è una costante matematica.
Bauman & Goldkorn (2018) hanno sostenuto che “non si può definire l'Olocausto come un fenomeno confortevolmente atipico […] Per essere stato commesso nel cuore dell'Europa, che all'epoca si considerava l'apice del progresso storico ed il faro del resto della specie umana, meno civilizzata e meno incline a civilizzarsi; per aver fatto ricorso e aver disposto costantemente della collaborazione del meglio della scienza e della tecnologia, supreme conquiste e orgoglio della civiltà moderna […]; per tutte queste ragioni, e probabilmente per altre ancora, l'Olocausto degli ebrei si è ritagliato, nella coscienza dell'epoca, un posto simbolico, interamente proprio“. Dunque, secondo Bauman & Goldkorn (ibidem), l'elevato grado di “civilizzazione“ tecnica del vecchio continente non ha impedito la Shoah, il che getta ombre inquietanti sull'altrettanto progredita società europea degli Anni Duemila. La possibilità di nuovi genocidi rimane un'opzione sempre aperta. Bauman (ibidem) sottolinea, infatti, che “credevo […] che l'Olocausto rappresentasse un'interruzione nel normale corso della Storia, una formazione cancerosa cresciuta nel corpo della società civile, una momentanea follia in un contesto di saggezza […] [E, invece,] l' Olocausto fu pensato e messo in atto nell'ambito della nostra società razionale moderna […] al culmine dello sviluppo culturale umano […]. L'Olocausto fu, nella stessa misura, un prodotto ed un fallimento della civiltà moderna“.
Dunque, la c.d. “modernità“, intesa come avanzamento delle tecniche materiali, non preserva i gruppi sociali dall'ideare e dal consumare crimini di guerra tremendi ed inattesi. Come riferito da Crescenzi (2014), Eichmann, durante il processo di Gerusalemme, seguitava a dichiarasi responsabile di meri atti burocratici privi di qualsivoglia connotazione morale. Eichmann dimostrava di ipostatizzare la burocrazia, senza interrogarsi con afferenza alle implicazioni etiche dei propri gesti. Di nuovo, come si nota, la tecnica e l'organizzazione non prevengono il crimine; anzi, tolgono ogni profilo di moralità alle azioni umane deontologicamente illecite. Sempre nel resoconto di Crescenzi (ibidem) Eichmann, durante il proprio interrogatorio, si dichiara innocente circa la soppressione dei bambini ebrei deportati“ […] perché non ero responsabile di queste cose, ero responsabile delle questioni riguardanti l'orario, delle questioni tecniche, ma non di queste cose“. Anche Pascal, sotto il profilo teorico-generale, notava che il rigore tecnico, tipico della modernità, evidenzia i mezzi, ma toglie importanza al fine. Oppure ancora, si pensi al chimico Albert Widmann, che perfezionò il Zyklon B per gassare i disabili. Anch'egli, processato dopo la fine della II guerra mondiale, riferì di aver modernizzato le camere a gas senza essersi preoccupato della moralità, o meno, delle soppressioni eugenetiche di uomini con sindrome di down ed epilettici. Analogamente, Otto Bickenbach affermò di aver sperimentato veleni per agevolare gli stermini di massa, ma solamente per rigore tecnico, senza alcun interessamento per il profilo morale. Simile, al processo di Norimberga, fu la risposta dei Generali delle SS Frank e Gauleiter. In effetti, pertinentemente, Gilbert (2005 ) osserva che “lo sterminio, i lager, la soluzione finale erano visti come un problema tecnico, non come un problema etico. Bisognava fare un buon lavoro, ma l'aggettivo buono perde del tutto il significato morale, e alla coscienza si sostituisce la coscienziosità”.
P.e., con attinenza alla soppressione dei bambini disabili, Lifton (2003) rimarca la de-eticizzazione degli incarichi, poiché “tale struttura serviva a distribuire la responsabilità individuale sul maggior numero possibile di persone. In nessun punto della lunga sequenza […] [a cominciare dalle ostetriche] c'era un senso di responsabilità personale o, addirittura, di coinvolgimento, nell'assassinio di un essere umano. Ogni partecipante poteva sentirsi ridotto al rango di non più di una piccola rotella in una grande macchina medica che aveva la sanzione ufficiale dello Stato“. Baron-Cohen (2011) sintetizza, nel seguente schema, l' iper-tecnicismo a-morale del nazismo:
Persona A: nel mio municipio avevo semplicemente l' elenco degli ebrei. Non feci delle retate di ebrei, ma portai l' elenco quando mi fu chiesto
Persona B: mi fu chiesto di andare a quegli indirizzi, arrestare quelle persone e portarle alla stazione dei treni. Questo è tutto quello che feci
Persona C:il mio lavoro era quello di aprire le porte dei treni, solo quello
Persona D: il mio lavoro era far salire i prigionieri sul treno
Persona E: il mio lavoro consisteva nel chiudere le porte del treno, non nel chiedere dove il treno era diretto e perché
Persona F: il mio lavoro consisteva semplicemente nel guidare il treno
[ … ]
Persona Z: il mio lavoro consisteva semplicemente nell'aprire i rubinetti delle docce da cui veniva emesso il gas
Baron-Cohen (ibidem) prosegue rimarcando che “la scienza moderna ha fatto della razionalità la sua unica bandiera per emanciparsi dalla superstizione, finendo per ignorare l'etica. I due piani devono rimanere distinti [ma] non nel senso che non ci si debba chiedere che cosa si stia facendo e perché. Altrimenti, ancora una volta, si è perso di vista il fine“. Nella Criminologia (rectius: nella pseudo-Criminologia] nazista, la responsabilità “tecnica“ aveva completamente sostituito quella “morale“. Quindi, non sempre l'evoluzione tecnica garantisce pure il rispetto dei Diritti Universali dell'Uomo. Bauman (ibidem) rileva che “bisognerà pur rileggere di che cosa la nobile e colta Europa è stata burocraticamente ed ottusamente capace nel pieno della sua prima modernità novecentesca nei confronti degli ebrei […] Si inizia con i clichés colpevolizzanti, i preconcetti, che proiettano espulsione simbolica. Seguono i comportamenti che provocano esclusione sociale, si aggiungono le misure che realizzano un'esclusione discriminatoria. Estote parati. Non ripara la civiltà, non ripara la scienza, non ripara la cultura “