L'antisemitismo “nazional-popolare”
L'antisemitismo “nazional-popolare”
Il dramma dell'indifferenza
Merzagora (2019) afferma, con molto realismo, che “se […] molti furono coloro che commisero barbarie o che si voltarono per non vedere, bisogna essere davvero ottimisti e davvero presuntuosi per pensare che noi saremmo stati fra i giusti“. Altrettanto disincantato si dimostra Zimbardo (2020), ovverosia: “potreste concluderne che voi non fareste come la maggior parte delle persone, che voi sareste, ovviamente, l'eccezione alla regola. Questa convinzione, statisticamente irragionevole, […] vi rende ancora più vulnerabili alle forze situazionali, perché sottovalutate il loro potere, così come sopravvalutate voi stessi“. In tema di Shoah, e, più latamente, di genocidio, Bayard (2018) rimarca che “quando su una popolazione di diversi milioni di persone soltanto qualche migliaio decide di resistere, non ho ragione di pensare che avrei fatto parte di questo gruppo privilegiato“. Torodov (2018) riprende un concetto caro alla mediazione penale e sostiene che “se l' individuo si sente la coscienza a posto, perché incarna il bene, l'educazione non ha compiuto alcun progresso. Solamente se può immedesimarsi –anche– nel colpevole, può trasformarsi da dentro, o almeno vigilare sulla parte di sé che sarebbe capace di commettere un crimine“.
Tale universalità della criminogenesi è pure la ratio che provoca compassione ed empatia durante il tentativo tecnico di mediare, ante judicatum, tra la vittima di reato ed il responsabile del delitto. Con altri lemmi, Torodov (ibidem) esorta ad abbattere “il muro invalicabile tra il male e noi“; ovverosia, tale Autore reca una visione democratica della Criminologia, all'interno della quale nessuno è esente da eventuali fragilità delinquenziali. D'altra parte, pure nella Weltangschauung cristiana, la potenzialità della devianza è concepita alla stregua di un “peccato originale“ che rende ciascuno debole e quantomai bisognoso di auto-controllo. In effetti, pure Merzagora (ibidem) asserisce che “se è vero che bene e male convivono in ogni persona, benché in percentuali diverse, e se è vero che la situazione dà una forte spinta, la domanda E io cosa avrei fatto ? è pertinente“. Con un guizzo di ottimismo, Bayard (ibidem) non nega, nella Germania della prima metà del Novecento, l'esistenza di gruppi partigiani più o meno organizzati, “ma non si tratta di quegli eroi i quali solitamente si sono messi o si mettono al centro dell'attenzione e, anzi, la loro efficacia dipende proprio dall'invisibilità, tant'è che forse sono più di quanti non si sappia, e siccome ritengono le loro azioni prive di particolare valore, non le pubblicizzano neppure“. Tali furono pure, nell'Italia del Ventennio, molti componenti clandestini e quasi anonimi della resistenza anti-fascista. Assai interessante è stato un esperimento criminologico di Oliner & Oliner (1988), in cui è stato misurato il grado di “personalità altruistica“ di circa 700 individui intervistati. Da tale Censimento è emerso che, in non pochi soggetti censiti, si sono avuti casi di aiuto gratuito, a prescindere dalle consuete variabili inibenti della razza, della religione e della cultura.
Anzi, in Oliner & Oliner (ibidem) vi sono molti esempi positivi di un'empatia eroica, spinta al punto di mettere in pericolo la vita personale del soccorritore. P.e, in Danimarca, la popolazione, compreso il Re, rifiutarono di cucire la stella gialla sugli abiti degli ebrei. In effetti, durante il processo di Gerusalemme ad Eichmann, il procuratore Hausner ringraziò, in forma espressa, “i movimenti clandestini“ per la protezione degli ebrei in Belgio, in Norvegia, in Ungheria, in Francia ed in Olanda. La maggior parte di siffatti gruppi filo-israeliti era guidata da esponenti delle Chiese cristiane europee. Sempre a proposito delle iniziative partigiane contro le deportazioni, Crescenzi (2016) nota che “non dobbiamo dimenticare i funzionari e gli ufficiali italiani che ostacolarono i malvagi disegni di Mussolini, i priori dei monasteri italiani, e semplici persone [italiane], molte delle quali stettero al fianco degli ebrei perseguitati“. Torodov (2001) precisa pure che “occorre anche evitare lo stereotipo dei tedeschi tutti nazisti“. P.e., nelle elezioni del 1933, il 44 % degli elettori votarono per il nazionalsocialismo, ma un 66 % fece un'altra scelta elettorale, di cui è necessario tenere conto. Esisteva pure, in Germania, una resistenza discreta, tant'è che, nel 1943, un'apposita legge nazista dispose la traduzione nei campi di concentramento per i familiari stretti dei partigiani scoperti e giustiziati. Oppure ancora, si pensi a Sophie e Hans Scholl, fratelli fondatori de “La Rosa Bianca“, giustiziati nel 1943 unitamente ad altri oppositori del regime di Hitler. La sorella Inge (Scholl, 2006) ha precisato che “possiamo veramente chiamarli eroi ? Non hanno fatto nulla di sovraumano. Hanno difeso una cosa semplice, sono scesi in campo per una cosa semplice: per i diritti e la libertà dei singoli [… . Ciò a cui aspiravano era che gente come te e come me potesse vivere in un mondo umano […]. Hanno avuto la forza di difendere, con suprema dedizione, i diritti più elementari dell'uomo“. Oltretutto, come rimarcato da Scholl (ibidem) i membri della Rosa Bianca avevano anch'essi subito il sinistro fascino della gioventù hitleriana, per poi dissociarsi, però, dal nazismo e dai suoi orribili crimini contro l'umanità.
Come notato dall' italiana Merzagora (ibidem), “anche il nostro Paese ha avuto i suoi Giusti: alcuni dei quali antieroi, almeno nel senso della modestia e del non volersi mettere in mostra“. L'Ente nazionale per la memoria della Shoah, in Israele, ha menzionato 297 difensori italici del popolo ebraico, quasi tutti estranei al ricordo dell'opinione pubblica.
Giovanni Palatucci, impiegato della Questura di Fiume, venne rinchiuso e ammazzato a Dachau per aver nascosto molti israeliti dell'Istria. Memorabile è pure l' impegno di Gino Bartali, che salvò numerosi ebrei toscani. Deaglio (1991) menziona pure l'eroismo di Carlo Angela, padre del ben più noto documentarista televisivo. Merzagora (ibidem) testimonia che “a parte quei 297, ci furono molti altri italiani che aiutarono i perseguitati: lo so per certo, c'era anche mia madre, e se chiedete ai vostri genitori o ai vostri nonni –dipende dalla vostra età– ne troverete anche voi, e potete chiedere a loro il perché“. P.e., in Borgomaneri (1997) Liliana Segre testimonia la solidarietà dei poliziotti penitenziari e dei detenuti del carcere di San Vittore a Milano: “per uscire [per essere avviati ai campi di sterminio] passammo attraverso un altro raggio; i detenuti erano affacciati ai ballatoi e ci gridavano delle frasi meravigliose: forza, coraggio, abbiate fede, non avere fatto niente […] uno ci gettò un pacchetto di biscotti, altri […] un paio di calzini di lana, altri tavolette di cioccolata, qualsiasi cosa; volevano dimostrarci il loro affetto“. Sempre in Deaglio (ibidem), Giorgio Perlasca, nella propria intervista, specifica, con grande umiltà: “Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto ? […] Non credo di essere stato un eroe […] Dal punto di vista dell'umanità, non avevo altra scelta“. Pochi sanno che, nel 1944, Giorgio Perlasca, a Budapest, falsificò molti salvacondotti per consegnare agli ebrei ricercati passaporti spagnoli. Infatti, nel 1941, in Ungheria, l'ebraismo venne dichiarato, ope legis, alla stregua di una “nuova tubercolosi“ da sradicare attraverso i campi di concentramento. Era financo proibito avere contatti fisici o verbali con persone di etnia ebraica. Anche i matrimoni misti vennero proibiti.
L'antisemitismo nazista
Negli Anni Sessanta del Novecento, la Procura di Amburgo processò molti dei componenti del Battaglione 101, composto da riservisti della polizia nazista e responsabile del massacro di 38.000 civili di religione ebraica. Tale gruppo militare deportò a Treblinka circa 45.200 israeliti. Ciò che più sorprende, in tema di banalità o, comunque, di normalità del male, consta nel fatto che i componenti del Battaglione 101 erano uomini tedeschi di ceto ordinario, non estremisti e vicini all'altrettanto ordinaria tipologia del padre di famiglia c.d. “normale“ della Germania dei primi del Novecento. Dette “persone comuni“, come le definisce Merzagora (ibidem) ogni giorno fucilavano centinaia di vittime, compresi anziani, donne e bambini. Anche Browning (2004) si chiede, con estrema inquietudine: “Ma come fu che questi uomini si trasformarono, per la prima volta, in assassini ? Che cosa accadde nella loro unità dopo il primo massacro ? Quali scelte erano possibili (sempre che ce ne fossero), e quali furono le risposte ?“. Secondo Merzagora (ibidem), “l'immensità della soluzione finale rende la vicenda [della Shoah] esemplare anche per spiegare altre atrocità […] In ogni caso, alcune spiegazioni sono state utilizzate per altri massacri, per esempio quella che punta l'attenzione sugli effetti brutalizzanti della guerra, che pure è una di quelle che Browning avanza per il Battaglione 101: ci si abitua a uccidere, diviene sempre più facile, si percepisce che la propria vita vale poco e, dunque, poco deve valere quella degli altri, ci si stordisce con le ripetute crudeltà“.
Taluni si sono domandati se, all'interno del Battaglione 101, vi fosse il timore di sanzioni nel caso di declino d'ubbidienza. Ebbene, a tal proposito, durante il processo di Amburgo, emerse che non esistevano gravi conseguenze per i camerati che decidevano di non partecipare alle fucilazioni di massa. Sempre in tema di conseguenze per declino d'ubbidienza, Goldhagen (1998) riferisce che “all'inizio dei massacri, il comandante del Battaglione 101 aveva detto ai suoi sottoposti che, se qualcuno non se la sentiva di uccidere, avrebbe potuto [senza ricevere sanzioni] fare un passo avanti: uno solo lo fece, anche se qualche altro si ritirò dopo le prime carneficine, e altri cercavano di non colpire le vittime sparando in aria o fingendo di sbagliare mira“. Come si può notare, la fattispecie del Battaglione 101 dimostra il non-legame perenne tra crimini di guerra e diserzione dei soldati. E' sempre stato assai difficile gestire la circostanza scriminante dell'“ordine maggiore“ da parte di superiori militari. L'italiofono Ingrao (2012) sostiene che “il discorso relativo alle conseguenze per chi si rifiutava di uccidere vale in generale. In 45 anni di processi, nessun avvocato difensore dei nazisti ha mai potuto documentare casi in cui il rifiuto di obbedire all'ordine di ammazzare un civile inerme o magari un malato sia stato seguito dalla punizione capitale; a qualcuno accadde di essere trasferito al fronte, il che dopotutto era il destino dei soldati tedeschi“. Anche in Goldhagen (ibidem), il soldato n. 67 del Battaglione 101, durante un procedimento penale militare celebratosi dopo la guerra, dichiarò che “ci veniva comunicato, almeno una volta al mese, che, per ordine di Himmler, nessuno poteva imporci di sparare a nessuno“.
Pure Cartabia & Violante (2018) hanno sfatato il mito dell'“ordine“ inappellabile come circostanza esimente. P.e., il generale Bruger, braccio destro di Himmler, declinò di ubbidire e non uccise 5.000 prigionieri; il tutto senza subire conseguenze. Secondo Zimbardo (ibidem), non si pone la questione del declino d'ubbidienza, in tanto in quanto “è più la conformità, cioè la pressione del gruppo dei pari, il bisogno di approvazione sociale che non l'autorità a contare, benché conformità e autorità si rafforzino a vicenda […] Volete che le persone resistano alle pressioni delle autorità ? Fornite modelli sociali di pari che si sono ribellati“. E' più che evidente che Zimbardo (ibidem) può spiegare molto non soltanto nell'ambito della disciplina militare, ma anche in quello della criminalità giovanile, ove “la pressione del gruppo dei pari“ risulta decisiva. Molto pertinentemente, Merzagora (ibidem) osserva che “è suggestivo che fare un passo avanti –come era richiesto a chi [nel Battaglione 101] voleva sottrarsi al compito di uccidere– comporti l'uscire dai ranghi, il che, a propria volta, metaforicamente, vuol dire uscire dalla conformità. Ogni totalitarismo spinge verso l'annullamento dell'autonomia dell'individuo in favore dell'autorità, ma anche del conformismo di gruppo […] Non esiste [più] l' io, non esistono gli altri, se non come nemici, esiste solo il proprio gruppo“.
Esisteva pure, nel Battaglione 101, il rimedio delle sostanze tossicovoluttuarie, come dimostra una testimonianza raccolta in Browning (ibidem): “[…] qualcuno cercava conforto nell'alcol. La maggior parte dei miei compagni eccedeva nel bere a causa delle numerose fucilazioni di ebrei, perché quella vita era assolutamente intollerabile da sobri“. Interessante, sempre nel Battaglione 101, era il caso del capitano Hoffman, assalito da crampi intestinali di origine psicosomatica e cagionati dal senso di ripugnanza per le continue stragi di civili inermi.
Il disprezzo per la controparte.
Durante gli eventi bellici, le parti in causa si dividono e nasce un rapporto dualistico basato sulla ratio binomica superiorità/inferiorità. Ingrao (ibidem) reputa che, non solo nella fattispecie dell'antisemitismo, “un fattore psicologico che rende possibile l'incrudelire è stato descritto come la riduzione animalesca dell'avversario, definita contro-antropomorfismo. Si tratta della tendenza a negare le qualità prettamente umane alle proprie vittime, per poter aggirare quella forza inibente l'aggressività che è costituita dall'identificazione [umana]“. Similmente, Merzagora (ibidem) asserisce che “nel concetto di violenza è implicito l'assunto che agli esseri umani sia dovuto un certo rispetto. E' per questo motivo che la pietra angolare di tutte le persecuzioni e di tutti gli stermini è lo stabilirsi di un sistema di teorie che sancisce che l'altro è, essenzialmente, meno umano, e, perciò, inutile, da buttare via, o pericoloso“. Il concetto di riduzione della controparte ad “animale“ è presente pure in Zulueta (2009).
Del pari, Zimbardo (ibidem) precisa che, negli scontri, bellici e non, “è molto utile una percezione distorta degli altri come subumani, cattivi, superflui, animali; percezione che deve essere, a propria volta, agevolata da slogans e immagini propagandistiche“. Interessante è pure l'analisi di Baron-Cohen (2011), a parere del quale, nei conflitti interpersonali maggiormente violenti, “gli altri sono ridotti ad animali, o, addirittura, ad oggetti“. Acuta è pure l' affermazione di Torodov (ibidem), secondo il quale “per facilitarsi il compito, chi vuole comportarsi da boia, deve dirsi che le proprie vittime non sono esseri umani, […]. Cessano di comportarsi da umani quelli che uccidono in se stessi ogni umanità per decidere lo sterminio degli altri“. In Levi (1986), il comandante del lager di Treblinka, mentre stava scontando la condanna all'ergastolo, riferisce che “le umiliazioni nei confronti dei prigionieri erano necessarie per far sì che gli aguzzini facessero quel che facevano. Per poterla uccidere, la vittima andava degradata, de-umanizzata, appunto, affinché l'uccisore sentisse meno il peso della sua colpa“.
Tale regola, ad esempio, valeva anche nel genocidio del Rwanda. In effetti, in Ceretti & Natali (2019) un responsabile di crimini contro l' umanità rammenta che “per fortuna, ho cominciato ad uccidere parecchia gente senza guardarla in faccia […] Mi ricordo, però, della prima persona [in Rwanda] che mi ha guardato quando l'ho colpita a morte. Quello sì che è stato impressionante. Gli occhi di qualcuno che uccidi sono una disgrazia se li guardi. Sono immortali se li trovi di fronte al momento fatale […] Sono il rimprovero della persona che stati uccidendo“. Bauman (1989) insiste sulla ratio della “vicinanza“ morale, ovverosia: “la responsabilità viene messa a tacere quando si erode la prossimità. Essa può, alla fine, trasformarsi in avversione, una volta che i soggetti umani a noi vicini siano stati trasformati in altri […] Fu una separazione del genere che consentì a migliaia di uomini di uccidere, e a milioni di osservare l'assassinio senza protestare […]. Al crescere della distanza, la responsabilità verso gli altri si riduce, la dimensione morale dell'oggetto si sfoca, finché entrambe raggiungono il punto di fuga e spariscono dalla vista“. La tematica dell'ipostatizzazione del “noi“, del “nostro gruppo“ si rinviene pure in Fein (1979), ossia “vi è, per le persone, un universo degli obblighi, vale a dire un territorio sociale, un gruppo nei confronti del quale si sente un legame di reciproco rispetto; al di là di questa cerchia, i precetti morali perdono senso, coloro che sono espulsi non fanno più parte dei titolari [passivi] di obblighi etici“.
A parere di chi redige, provvidenzialmente, alla “cerchia“ di Fein (ibidem) si contrappone, almeno in linea teorica, la ratio di quella che dovrebbe essere la “casa comune“ ed universale del Magistero cattolico, l'unico movimento totalmente inclusivo della Storia dell'umanità e delle religioni. La “kathoikouméne“ cristiana tutti include, o dovrebbe includere, senza porre condizioni, perlomeno sotto il profilo del principio generale. In Lifton (1986), Allen parla di “moral numbing“ [ottundimento morale] nei medici nazisti, poiché essi avevano praticato “una sistematica disumanizzazione dei [loro] oggetti di odio e di disprezzo […]. E' probabilmente impossibile uccidere un altro essere umano senza ottundere la propria capacità di immedesimazione verso quella vittima“. Secondo Ceretti & Natali (ibidem), pienamente condivisi da Merzagora ( ibidem ), “il contro-antropomorfismo si pratica ogniqualvolta si paragonano alcuni umani ad animali; di solito, le scimmie per i neri, gli scarafaggi per i Tutsi [in Rwanda], i ratti ed i serpenti per altri. Se, poi, si tratta di animali responsabili di contagio, è l'apoteosi, come scrive Hitler nel Mein Kampf, definendo, con una certa confusione zoologica, il giudaismo come una pestilenza con cui la nazione veniva inoculata […] il calabrone scansafatiche che s'introduce presso gli altri, il ragno che succhia lentamente il sangue delle nazioni“.
P.e., nel Seicento, i Cattolici irlandesi venivano sovente paragonati, nel Regno Unito, ai pidocchi. Analogo trattamento razzista e contro-antropomorfista veniva riservato ai nativi americani. Adorno et al. (1973) riferisce che il presidente statunitense Truman definiva Giapponesi e Tedeschi alla stregua di “ratti, serpenti e germi“. Giustamente, Bandura (2016) sottolinea che “il contro-antropomorfismo e la de-umanizzazione sono l'ennesima tecnica di neutralizzazione o di disimpegno morale, una strategia messa in atto per svincolarsi dagli standards morali acquisiti durante il processo socializzativo, che consente di mettere a tacere gli imperativi etici e di sganciare il soggetto dalla responsabilità [meta-normativa, non solo giuridica] per l'azione“. Tale “neutralizzazione“ della Morale giunge ad auto-giustificazioni paradossali. P.e., in Browning (ibidem), un soldato del Battaglione 101 asserisce che “ebbi pietà [perché] tentai di uccidere solo bambini e ci riuscii. Siccome le madri tenevano i bambini per mano, il mio vicino uccideva la madre, e io il figlio, perché ragionavo tra me che, dopotutto, senza la madre, il figlio non avrebbe più potuto vivere. Il fatto di liberare [sic] i bambini che non potevano più vivere senza le madri mi pareva, per così dire, consolante per la mia coscienza“.
Tale testimonianza raccolta da Browning (ibidem) dimostra in tutta la sua bestialità l'effetto della relativizzazione delle istanze morali. Esiste, infatti, uno stretto legame tra contro-antropomorfismo e personalizzazione estremistica dell'etica naturale. Zimbardo (ibidem), a tal proposito, parla di “morale messa in folle“, ovverosia “occorre trovare giustificazioni morali e ideologiche che nobilitino le proprie azioni, anche attraverso il confronto vantaggioso con quelle degli altri, sempre visti e descritti come più malvagi. Bisogna, poi, minimizzare o trascurare le conseguenze della propria condotta. Infine, bisogna ricostruire le percezioni che abbiamo delle vittime, non solo attribuendo loro ogni colpa, ma, soprattutto, de-umanizzandole, collocandole al di sotto della giusta considerazione che riserviamo agli esseri umani come noi“. A parere di Vercelli (2013), Himmler, in un discorso tenuto a Poznan nel 1943, ha ben sintetizzato il “declassamento degli umani ad animali“ nel nazionalsocialismo, ossia: “che altri popoli vivano confortevolmente o muoiano di fame mi interessa solo nella misura in cui noi ne abbiamo bisogno come schiavi per la nostra cultura; a parte ciò, il loro destino non m'interessa affatto […]. Noi tedeschi, che siamo il solo popolo al mondo ad avere un atteggiamento decente verso gli animali, assumeremo un atteggiamento decente anche verso questi animali umani, ma è un crimine contro il nostro stesso sangue preoccuparci di loro e attribuire loro degli ideali“
La fisionomia morale dell'“altro“.
Nel nazionalsocialismo, verso gli ebrei, si mescolava odio, senz'altro, ma anche invidia e timore di potenziali pericoli in danno dei consociati “ariani“. D'altra parte, Merzagora (ibidem) afferma che “il male ottuso non ha bisogno di coerenza. Così, l'Altro può essere, al tempo stesso, inferiore e invidiato, inferiore e pericoloso“. D'altra parte, Stangneth (2017) denota che “c'è dell'ambivalenza nell'antisemitismo nazista; Eichmann dirà che la scienza era un'arma di combattimento degli ebrei per conquistare il dominio sul mondo e che, grazie a migliaia di anni di istruzione, il nemico era intellettualmente superiore“. Similmente, Adorno et al. (ibidem) sostiene che gli ebrei, da un lato, mirano a diffondere il comunismo, ma, dall'altro lato, essi incarnano l'apice del capitalismo.
Pure Rees (2018) riferisce che, secondo Hitler, la democrazia, nel senso del Diritto Costituzionale, è un istituto originato dalla cultura ebraica. Secondo i neo-nazisti degli Anni Duemila, come riporta Cashman (2002), financo il concetto di “diritti umani“ sarebbe di derivazione giudaica. Addirittura, in Adorno et al. (ibidem), un intervistato accusa gli ebrei di spietatezza, perché “[…] gli ebrei sono aggressivi, scortesi, esclusivisti, intellettuali, sono rumorosi e ossessionati dal sesso“. Come riferito da Albertini & Doucet (2018), il jazzista francese antisemita Gilad Atzmon ha affermato, nel 2015, che “lo scontro tra bolscevismo e capitalismo è uno scontro tra due rabbini e il bolscevismo e la banca sono due sinagoghe“
Merzagora (ibidem) osserva che “il nazismo fa da modello anche nella contraddizione tra inferiorità e pericolosità, e il punto di partenza è il razzismo, che colloca i popoli nordici, alti, biondi e con gli occhi azzurri (ma Hitler, uno specchio lo aveva ?) in cima alla scala evolutiva, seguiti dagli europei del Sud, poi dagli slavi, che sono già subumani (Untermenschen), quindi dai popoli asiatici, infine dai neri. L'immagine degli slavi era quella di popoli inferiori, selvaggi, barbari, che sarebbero stati vinti facilmente e, ciò nondimeno, instillavano terrore. E gli ebrei ? Facile, non sono proprio umani, bensì demoniaci“. In Goldhagen (ibidem), Otto Ohlendorf, nazista fatto prigioniero dopo la guerra, scriveva alla moglie una lettera in cui qualificava gli ebrei alla stregua di “demoni votati a combatterci“. Sempre in Goldhagen (ibidem) due ex soldati del Battaglione 101 ammettono, innanzi alla Procura di Amburgo durante la de-nazificazione, che “non riconoscevamo l'ebreo come essere umano […]. La categoria di essere umano a loro non era applicabile“.
Nel 1938, sulla rivista “Deutsche Justiz”, si dichiarava fieramente che “il nazionalsocialista riconosce che l'ebreo non è un essere umano“. Goldhagen (2010) precisa, molto pertinentemente, che, durante i genocidi, anche in Rwanda e nell'ex Yugoslavia, “il gruppo delle vittime viene de-umanizzato –quindi considerato inferiore-; oppure demonizzato –quindi reputato fonte di minaccia-; o entrambe le cose“. Eguale è l'osservazione di Friedlander (1995), ovverosia: “si è parlato di giudeofobia dei capi nazisti, e una buona tattica per affrontare l'uccisione dell' Altro è vederlo come pericoloso. Gli ebrei, in passato, erano considerati responsabili della peste, dell'uccisione di neonati, di tutti i mali che potevano colpire l'uomo; nel XX Secolo, erano di nuovo presentati dalla propaganda nazista come la fonte di ogni sciagura, colpevoli persino dello scoppio della prima guerra mondiale e della successiva disfatta della Germania, soprattutto dell'impoverimento del popolo tedesco. Il governo aveva dichiarato ripetutamente che le proprietà degli ebrei in Germania ammontavano mediamente a quattro volte quelle dei membri della comunità nazionale tedesca“. La de-umanizzazione è quantomai indispensabile per cancellare ogni remora alla commissione di omicidi volontari di massa. Taluni Autori, nella Criminologia degli Anni Duemila, hanno parlato di un frequente “processo di razzializzazione“, ossia non si procede a valutare il singolo individuo (slavo, africano, zingaro, rumeno, albanese) bensì l'intero gruppo etnico di appartenenza. Il soggetto non vale “in sé“, bensì come membro di un insieme catalogato su base razziale. Sarebbe come negare che la responsabilità penale è personale e, per conseguenza, il Magistrato è tenuto a giudicare la singola persona, a prescindere dall'etnia di appartenenza.