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Marcia su Roma, 28 ottobre 1922

Piero Buscaroli, da il “Roma”, 28 ottobre 1972
Marcia su Roma
Marcia su Roma

Marcia su Roma, 28 ottobre 1922

Cinquant’anni fa, quella complessa successione di eventi che fu chiamata “marcia su Roma” portava il movimento fascista al governo della Nazione. Sulla natura della “marcia” continuano dispute oziose e ironie inutili. Mussolini giunse a Roma, in vagone letto dopo che ebbe in mano, nero su bianco, il telegramma col regio incarico.

E’ naturale che l’antifascismo trionfante cerchi di rimuovere quelle fronde di epopea che il fascismo vittorioso appose ai suoi esordi. Tuttavia, si riconosce oggi che la marcia su Roma fu un modello insuperabile nella sua specie. Né colpo di Stato classico, né pura azione di forza, fu un’accorta combinazione di mezzi diversi regolati in vista di un fine; aggiunse una forte pressione extralegale a completare e accelerare conclusioni statutarie e legali che erano da tempo nell’aria, e nella persuasione delle classi dirigenti.

La storiografia antifascista degli ultimi anni ha modificato alcuni punti di vista. E siccome non deve più difendere i superstiti delle vecchie classi dirigenti scomparse, non pretende più che il fascismo strangolasse una democrazia sana e vitale. Si ammette che il fascismo si limitò a seppellire un regime già morto. I cui epigoni, tuttavia, andarono a gara nell’aprirgli le porte. Gli applausi di Croce al discorso di Mussolini al San Carlo, quattro giorni avanti la presa del potere, furono confermati da fervidi voti di fiducia. Personaggi come Giolitti e Orlando e Salandra si affannarono, furono interessati, parteciparono a febbrili trattative di ministri con Mussolini: il nuovo regime riceveva abbondanti benedizioni dal vecchio: quali che fossero i sogni e le illusioni che questo poteva ancora nutrire.

Da tutti i settori dello Stato che, messo a rude prova da quattro anni di aspra guerra, aveva dovuto sopportare il turbine di tre anni di sovversione, scioperi e conflitti civili, si anelava al fascismo con ansia di novità e di salvezza. Se nell’esercito, nella polizia, nei carabinieri e nella burocrazia statale si faceva causa comune coi fascisti, ciò non significa che questi corpi dello Stato tradissero, in quanto che lo stato li aveva abbandonati. Il vecchio regime era, ed era sentito morto, ed era incapace di risollevarsi.

D’altra parte, si sostiene oggi che, dopo il fallimento della loro grande prova nell’agosto del 1922, anche il pericolo rappresentato dalle sinistre era passato. La “ventata rossa” si stava esaurendo. Il socialcomunismo aveva mostrato i suoi evidenti limiti nel massimalismo urlante ed estremista, tuttavia incapace di disciplina, di organizzazione e di azione. Insomma: il fascismo vinse per la ragione eterna delle vittorie umane: perché era il più forte.

Sul regime che seguì: sulle sue idee, sulle sue caratteristiche, nelle sue opere, nel suo sviluppo, sulla sua fine, si sono scritte e più ancora si scrivono oggi, intere biblioteche. Lontani dall’apologia inane e dall’insulto triviale, dobbiamo solo compiangere questo paese che, dopo cinquant’anni dal principio e dopo trenta dalla fine cruenta del fascismo, non ha ancora trovato l’alba di un esame sereno e virile. Né pretendiamo di poterlo fare noi, qui ed oggi.

Diremo soltanto: il fascismo fu un tentativo nuovo e originale di offrire agli angosciosi problemi politici e sociali del mondo moderno una risposta, laddove liberalismo e marxismo avevano già, chiaramente, fallito. Fu una risposta pratica, moderna e italiana. Ancor meglio: fu il primo contributo che l’anima italiana offrisse alla grande politica da mezzo millennio. Le signorie rinascimentali, infatti, erano state l’ultima parola che la Penisola avesse detto in fatto di istituzioni politiche. Da allora, era stato silenzio. Il fascismo fu un tentativo di riconciliare i ceti sociali avvelenati dalla lotta di classe. Di riconsacrare il lavoro, degradato ad avvilente fatica. Di persuadere i ceti più umili di qualcosa che i cosiddetti “stati socialisti” impareranno qualche decennio più tardi: che la patria, la nazione non solo “invenzione dei capitalisti” come dice il manifesto comunista: ma realtà comune, cosa di tutti, premessa al benessere e alla dignità di tutti.

Il fascismo tolse ai partiti il potere statale che avevano usurpato. Le corporazioni in quanto nuova via per trovare alle masse una rappresentanza organica dei loro interessi, furono una esperienza che tuttora affascina e attrae: in Italia, e più ancora, lungi dai nostri veleni, fuori d’Italia. E l’esperienza riesca ancor più, attuale, dopo che all’usurpazione compiuta dai partiti si è aggiunta e sovrapposta quella, ancor più odiosa e insopportabile, rappresentata dai sindacati.

E ancora, fu il fascismo un disperato e forse troppo frettoloso tentativo di dare agli italiani un’educazione collettiva, un “tono” nazionale, come lo chiamava Leopardi.

Volle fare dell’Italia una grande potenza. Troppo chiese all’Italia, di troppo la ritenne capace. Peccò per eccesso, non per difetto. Ed ebbe l’appoggio spontaneo, fervido, devoto, di milioni e milioni, della quasi totalità degli italiani: che non erano né scellerati, né babbei, né venduti. Ogni tentativo di negare questa verità si risolve in un insulto ingeneroso verso una intera nazione: nella stupida rivolta di una generazione contro quella che l’ha preceduta.

Il fascismo non fu travolto da un suo fallimento interno, ma dalle conclusioni di una guerra, le cui premesse si erano accumulate da lungi, e che altro non era se non la continuazione della precedente, dopo l’armistizio del 1918. Avervi partecipato è la massima accusa che si rivolge a Mussolini ancor oggi: quella che aggiunse al dissenso dei pochi il timore, la perplessità e la disaffezione dei più. Non è lontano il giorno in cui si riconoscerà che non sarebbe stato possibile, all’Italia, evitare quella guerra. Ma una cosa è chiara anche oggi: che giudicare il fascismo dalla guerra perduta non ha più senso comune. L’Inghilterra e la Francia, che si sono trovate dalla parte dei grandi vincitori, non sono perciò potenze vittoriose. Sono pervase dalla nostra stessa impotenza, attanagliate alle nostre inquietudini. Se mostrano qualche maggior forza di tenuta, non è perché abbiano vinto, ma grazie alle risorse spirituali più profonde, a lunghi secoli di tradizione unitaria.

E’ l’Europa intera che esce dalle sue due guerre civili inerte, senza più voglia di fare storia.

Di questa Europa l’Italia è il malato. Dopo ventisette anni di “libertà”, senza nemici esterni, in condizioni complessive favorevoli, tutto crolla e si sfascia. “E’ un momento di crisi per tutti, di decadenza e stanchezza”: lo diceva l’onorevole Aldo Moro sei giorni fa. Stanchezza? Di che cosa? Ma della libertà, cui questo popolo, questo paese sembrano costituzionalmente incapaci, anche se hanno scimmiottato i sistemi e gl’istituti delle grandi democrazie.

Ecco di nuovo i sintomi di dissoluzione, di fronte ai quali il fascismo non ebbe che da buttar giù, con una spallata, il vecchio regime e seppellirlo. Ma stiamo attenti. Ieri, lo Stato minacciato di distruzione, e le classi dirigenti prese dal panico si gettarono in braccio ai fascisti. Talché si denuncia ancor oggi il clima di fraternizzazione, impunità e complicità, di cui il fascismo fu favorito da polizia, carabinieri e burocrazia statale, nella sua marcia al potere. Oggi, un simile disarmo opera a favore dei comunisti.

Intimidite e paralizzate le forze dell’ordine, altre potenti complicità entrano in campo: nella Magistratura, nei partiti concorrenti e avversari, nella Chiesa, nei ceti possidenti che ancora si illudono: nella grandissima industria, tra i cosiddetti “padroni” e la stampa da costoro mantenuta.

Treni speciali corrono la penisola, come cinquant’anni fa quelli fascisti. Oggi, sono gli attivisti di sinistra che sotto gli occhi compiacenti del potere, calano a Reggio Calabria per provocare ed umiliare una città “di destra” ancora riluttante. Sono comuniste le manifestazioni fragorose che, come i festival dell’Unità invadono le città, e tendono a caratteristiche ufficiali. E milita a favore dei rossi il timore, il desiderio diffuso di trovarsi dalla parte del vincitore: quel senso dell’ineluttabile, quell’atteggiamento stanco e rassegnato che giova ai possibili nuovi padroni, più della stessa loro forza, che, forse, non c’è.

Si ripete che il regime non adoperò, contro il fascismo che bussava alle porte di Roma, la forza ancora intatta dello Stato. Se l’esercito avesse avuto l’ordine…Non l’ebbe. Ma oggi i Facta pullulano, e sembra che l’idea d’incarnare quel ruolo solletichi molti aspiranti. E Facta voleva, almeno, ordinare lo stato d’assedio. Anche oggi, la forza dello Stato c’è ma nessuno pensa di adoperarla. Eppure: chi dette avvio all’esperienza fascista poteva non sapere quel che sarebbe successo. Ma oggi? Intorno a noi languono e soffrono già viventi paradigmi del nostro possibile destino. Andate a Praga; andate a Budapest; andate a Berlino Est; andate a Varsavia: Potremmo finire così. Vittime di una tirannide che non sarebbe neppure nazionale e domestica, ma soltanto vassalla di un potere straniero.

Il solo modo di commemorare il 28 ottobre è di risvegliare le coscienze addormentate e salvare questo paese da una tirannia rossa. Impedire che tra qualche mese, il becchino rosso si presenti a seppellire il cadavere di questa democrazia; che c’è già.

Piero Buscaroli, da il “Roma”, 28 ottobre 1972