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Ubi tu Gaius, ibi ego Gaia: il matrimonio in un affresco di Pompei

La tradizione del rito matrimoniale a Roma
matrimonio romano
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È un affresco su intonaco, rinvenuto – miracolosamente intatto – nel 1868 nel tablinum di una delle tante case dell’antica Pompei. Oggi custodito al museo archeologico nazionale di Napoli.

Databile per analisi al IV stile pompeiano, la pittura parietale raffigura una coppia di coniugi della borghesia locale: si tratta del panettiere Terentius Neo e Signora, come rivela liscrizione allinterno della dimora.

La collocazione strategica (sulla parete di fondo del grande ambiente principale della tipica domus romana – antesignano dei nostri attuali saloni) lascia intuire quanto marito e moglie ci “tenessero” a rendere visibile il loro legame a chiunque transitasse per latrio. Particolare che anche a noi posteri, a distanza di millenni, certo non sfugge.

I due sono ritratti quali raffinati benestanti, colti e alla moda. Lui, in toga, stringe tra le mani un rotolo di papiro; lei, in veste ed acconciatura ricercate, ostenta tavoletta cerata e stilo.

Eppure i tratti somatici degli sposi, nella loro rusticitas (zigomi pronunciati e nasi “importanti”), tradiscono la provenienza provinciale – presumibilmente sannita – degli sposi: i classici parvenus che, una volta guadagnata una discreta agiatezza con il piccolo commercio al dettaglio cittadino, si affannano a mascherare le proprie umili origini per entrare a pieno diritto nel jet set della Pompei che conta.

D’altra parte, per rimanere in tema di buona società, in epoca latina il matrimonio era, per le classi abbienti, lo strumento principe attraverso cui si realizzava la stipula di un vero e proprio contratto tra le famiglie, interessate a salvaguardare, consolidare, accrescere la propria consistenza patrimoniale.

Insomma, che assumesse la forma di confarreatio, di coemptio o di usus, il patto nuziale suggellava più un accordo di convenienza economico-finanziaria che non la celebrazione di una bella storia d’amore.

Molto sentimentale invece, in ogni caso, la nota formula che veniva pronunciata dalla novella sposa sulla soglia della nuova dimora, a conclusione dell’estenuante rito.

Dopo i lunghi accurati preparativi (la cui descrizione richiederebbe una trattazione a parte), il disbrigo delle immancabili noioserie burocratiche (tabulae nuptiales), il momento clou consistente nell’unione delle mani destre (dextrarum iunctio) ed il colpo di grazia del lauto banchetto (che si protraeva fino a notte fonda), ecco la luce in fondo al tunnel.

La deductio: l’ultima ennesima processione che, tra fiaccole e canti, conduceva finalmente a casa i due sopravvissuti.

Una scena un po’ alla “Ufficiale e Gentiluomo”, con lui che prende in braccio lei e, sullo stipite della porta d’ingresso, con sguardo intenso e voce profonda le chiede: “chi sei?”.

La neo-mogliettina rispondeva con la famosa frase “Ubi tu Gaius, ibi ego Gaia”. Traduzione letterale “Dove tu (sei) Gaio, io (sono) Gaia”; traduzione (mia) libera “Ovunque tu sia/sarai, il mio posto è/sarà accanto a te.

Una sana botta di romanticismo, degna della migliore sceneggiatura cinematografica hollywoodiana: in pratica, in qualunque tempo ed a qualsiasi latitudine, il materializzarsi del sogno proibito di ogni donna.

Anche se non pare che questo tal Terenzio Neo fosse esattamente un Richard Gere