La prigionia di Mussolini
La prigionia di Mussolini
Il 12 settembre 1943 i nazisti riuscirono a liberare Benito Mussolini, dopo quasi 50 giorni di prigionia. In occasione dell’ottantesimo anniversario, non intendo ricordare l’operazione dei paracadutisti tedeschi (nome in codice “Quercia”), che è stata forse fin troppo mitizzata. Come illustrerò in questo articolo, il 12 settembre era diventato molto più facile liberare l’ex duce. L’uomo, poi, anche dopo un tentativo di suicidio, era arrivato ad essere l’ombra di sé stesso, come capiremo nelle prossime righe. Oggi, ritengo, invece, importante ricordare i nomi e l’impegno di quei militari, che riuscirono in segreto a custodire e trasferire l’ex capo del governo in varie località d’Italia. Non dimentichiamo che, dopo l’arresto del 25 luglio, che ho analizzato in un recente articolo, i nazisti cercarono in tutti i modi di liberarlo. Come ricorda nel suo libro “Memorie del Terzo Reich” il ministro Albert Speer, fu forte la reazione di Hitler alla notizia dell'arresto di Mussolini: “Non c'era gran rapporto in cui il Führer non chiedesse che fosse fatto tutto il possibile per ritrovare l'amico disperso. Diceva di essere oppresso giorno e notte dall'angoscia”. La sera del 26 luglio 1943 Hitler convocò nel suo quartier generale a Rastenburg (denominato “la Tana del Lupo”) sei ufficiali scelti per pianificare un'operazione segreta proprio con quel chiaro obiettivo.
Per analizzare la storia, come andrebbe sempre fatto, occorre partire dall’analisi contestualizzata degli episodi. Dobbiamo ripartire quindi da Villa Savoia, sulla via Salaria a Roma, dove l’ex duce era stato arrestato dai Capitani dei Carabinieri Vigneri ed Aversa. Da quel momento, entrò in gioco in modo incisivo l’Arma che, nei 50 giorni tra l’arresto e la liberazione di Mussolini, fu protagonista assoluta di uno dei passaggi storici più drammatici per il futuro dell’Italia.
Il 25 luglio 1943, nel pomeriggio afoso dell’estate romana, l’ex duce era dovuto salire su un’ambulanza, che raggiuse a velocità sostenuta la caserma Podgora, a Trastevere, sede della Legione Carabinieri Reali di Roma. All’oscuro di ogni cosa, il comandante della caserma, Tenente Colonnello Santo Linfossi, accolse i nuovi giunti. Riconosciuto Mussolini, si pose istintivamente sull’attenti. Vigneri, allora, gli chiese di aprire il circolo ufficiali per accogliere l’ospite. Poco dopo, giunse il Maggiore Giuseppe Sciavicco, che, con un coltello, recise il filo del telefono. Erano le 18,00 circa di quel 25 luglio, quando possiamo affermare che ebbe inizio la prigionia di Mussolini.
In “Storia di un anno” (un resoconto in terza persona), proprio Mussolini descrisse i momenti successivi al suo arresto: “chiuso lo sportello, l’autoambulanza partì a grande velocità. […] dopo una mezz’ora di corsa, si fermò a una caserma di carabinieri. […] Qui Mussolini restò circa un’ora e quindi, sempre nell’autoambulanza, fu portato nella caserma allievi carabinieri […] fu accompagnato nella stanza adibita ad ufficio del comandante la Scuola, colonnello Tabellini, mentre nella stanzetta vicina si mise di guardia un ufficiale […] Mussolini notò allora che ben tre carabinieri montavano di sentinella alla porta dell’ufficio situato al secondo piano. Fu allora che, meditando nella stanza, si affacciò per la prima volta alla mente di Mussolini il dubbio: protezione o cattura?”. Il Colonnello Dino Tabellini era assente semplicemente poiché aveva assunto la carica di Capo di Stato Maggiore dell’Arma, sostituendo il Colonnello Barengo, morto il 19 luglio nel bombardamento di San Lorenzo assieme al Comandante Generale Hazon, come ho descritto in un articolo di questa rubrica. Subito dopo il trasferimento alla Legione Allievi Carabinieri di via Legnano, Mussolini ricevette la visita del Maggiore medico Santilli al quale riferì di soffrire di ulcera duodenale da 20 anni. Quel dottore lo trovò “molto pallido, con lo sguardo morto che di tanto in tanto diventava fisso e avvilito per la dilatazione palpebrale”. Verso l’una di notte l’ex duce fu svegliato dal Tenente Colonnello Ettore Chirico, vice comandante della Legione Allievi, che gli annunciava la visita del Generale del Regio Esercito Ernesto Ferone, con un messaggio di Badoglio. La lettera, a firma del nuovo Capo del Governo, precisava che “…quanto è stato eseguito nei Vostri riguardi è unicamente dovuto al Vostro personale interesse, essendo giunte da più parti precise segnalazioni di un serio complotto contro la Vostra Persona. Spiacente di questo [il Capo del Governo] tiene a farVi sapere che è pronto a dare ordine per il Vostro sicuro accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località che vorrete indicare”. Letta la missiva, Mussolini dettò la risposta: dopo aver ringraziato, chiese di essere trasferito presso la Rocca delle Caminate, unica residenza di cui poteva disporre. Assicurava di fornire ogni collaborazione senza creare difficoltà, compiacendosi con Badoglio per la scelta di proseguire il conflitto a fianco dell’alleato germanico.
Mussolini rimase presso la Legione Allievi fino alla sera del 27 luglio, quando lasciò Roma (non sarebbe più tornato nella Capitale) con una colonna di sei automobili. La scorta era comandata dal Colonnello dei carabinieri Antonio Pelaghi. L’ex duce pensò che la sua destinazione fosse Rocca delle Caminate, nella sua Romagna. Dopo qualche chilometro, però, si rese conto che il convoglio prendeva tutt’altra direzione. A mezzanotte circa, giunse a Gaeta dove, con la corvetta Persefone, si fece rotta verso Ventotene. Prima di scendere, accertata la presenza di un nutrito presidio tedesco, previo un sopralluogo sull’isola, si preferì allora Ponza. Venuto a conoscenza della nuova destinazione, Mussolini si irrigidì, sapendo che l’isola ospitava noti antifascisti, come il suo attentatore Tito Zaniboni, oltre a Nenni, Bencivenga e Torreggiani. Lì giunto provò a rifiutare lo sbarco, ma alle 13,00 del 28 luglio era nella sua nuova abitazione, una casa modesta su due piani nei pressi del porto. C’erano circa dieci carabinieri di vigilanza, con il Vicebrigadiere Marini. Il dispositivo era comandato dal Maresciallo Maggiore Osvaldo Antichi, al quale il Comandante Generale Cerica aveva personalmente attribuito la responsabilità della custodia dell’ex duce. Da quel momento, per ben 47 giorni, Antichi seguì come un’ombra Mussolini, diventandone quasi un angelo custode al quale confidare pensieri e intenzioni. Ponza si rivelò, però, inadatta ad ospitare quel personaggio. La voce della presenza di Mussolini giunse finanche ai confinati antifascisti. Nenni annotò il 28 luglio nel suo diario: “…stamane l’arrivo di Mussolini fra i reali carabinieri (benché senza manette) e il suo confinamento nella prossima frazione di Santa Maria, ha schiarito almeno un lembo del mistero, quello delle pretese dimissioni […] Sono a bordo un civile (che poi appresi essere Mussolini e che sul momento non riconosco) e sei carabinieri […] Quattordici carabinieri montano la guardia attorno alla sua dimora al comando di un tenente colonnello. Due sono addetti al suo servizio personale”.
Parallelamente i nazisti avevano intensificato l’attività di intelligence per individuare dove fosse detenuto l’ex duce. Ponza non era più sicura. Leggendo una relazione del Maresciallo Antichi, si comprendono le modalità del secondo trasferimento: “… in serata un telegramma cifrato avvertiva che verso le ore 3 del giorno 7 [agosto - ndr] un cacciatorpediniere avrebbe attraccato al largo per imbarcare Mussolini e la scorta. Mussolini venne preavvisato del viaggio soltanto un’ora prima […] Attraversammo il Tirreno, in burrasca, e verso le ore 13 dello stesso giorno il cacciatorpediniere attraccò a La Maddalena”. Furono imbarcati anche due Ufficiali dei carabinieri giunti da Roma, il Maggiore Camillo Meoli, che comanderà il contingente di vigilanza, e il Tenente Elio Di Lorenzo. La nave arrivò a Padule, nell’arcipelago della Maddalena, dove Mussolini fu condotto nella sua nuova residenza, villa Webber, una palazzina di fine ‘800. Giuse sull’isola anche il Tenente Alberto Faiola, inviato alla Maddalena direttamente da Badoglio. Presso La Maddalena l’ex duce trascorse 20 giorni di prigionia, annotando il suo regime alimentare, molto semplice e frugale, nonché le ore di sonno e la compagnia dei suoi custodi.
Alla lunga, anche La Maddalena si dimostrò inadeguata. C’erano in giro troppi tedeschi, soprattutto marinai. Per la terza volta il prigioniero doveva essere trasferito. Questa volta al Tenente Faiola fu affiancato un funzionario di polizia, Saverio Pòlito, col compito di sovrintendere all’organizzazione delle operazioni. Il 20 agosto proprio Pòlito e il Colonnello Pelaghi si posero alla ricerca di una località che fosse idonea alla detenzione dell’ex duce. Individuarono la villa della marchesa Gonzaga, a 14 chilometri da Perugia. Dopo un ultimo sopralluogo, lungo la strada del ritorno, in una curva sulla via Tiberina, la loro auto sbandò, uscendo fuori strada e finendo in una scarpata. Il Colonnello Pelaghi morì sul colpo, mentre Pòlito rimase ferito gravemente. L’incidente causò una battuta d’arresto per il trasferimento, anche perché nessuno sapeva quale fosse la località prescelta da Pòlito e Pelaghi. Fu allora deciso che Mussolini fosse trasportato sul Gran Sasso. In sostituzione di Pòlito, fu nominato l’Ispettore generale di P.S. Giuseppe Gueli, che il 25 agosto si recò alla Maddalena per un sopralluogo. Dopo due giorni, tutto fu pronto per l’ennesimo spostamento di Mussolini, che annotò sul suo diario: “Oggi 27 agosto 1943, il tenente Faiola…mi ha avvertito di prepararmi a un nuovo trasferimento che inizierà domattina alle quattro. Ha aggiunto che partiremo con l’idrovolante…ma non ha precisato la destinazione”. Alle 4,00 del 28 agosto, a bordo di un idrovolante, Mussolini, il Tenente Faiola e il Maresciallo Antichi lasciarono La Maddalena. Il velivolo ammarò sul lago di Bracciano, all’idroscalo di Vigna di Valle, dove ad attendere l’ex duce c’erano Gueli, un Tenente Colonnello dei carabinieri ed alcuni agenti. Il prigioniero salì su un’ambulanza militare, condotta da un carabiniere, assieme a Faiola ed Antichi. Gueli e gli agenti seguirono su altre auto. Il convoglio giunse ad Assergi verso le 13,30, ai piedi della funivia per Campo Imperatore. Ad un centinaio di metri dalla stazione a valle c’era la villetta della contessa romana Rosa Mascitelli, che fu requisita. Per cinque giorni sarà la residenza provvisoria del duce. L’albergo di Campo Imperatore non era ancora disponibile per la presenza di alcuni villeggianti e addirittura di militari tedeschi. lì convalescenti. Con un pretesto tutti gli occupanti dell’hotel furono evacuati. Mussolini giunse in quella che definì la “più alta prigione del mondo” nel pomeriggio del 2 settembre. Gli fu assegnata una camera al piano superiore. In una stanza adiacente si dispose il Maresciallo Antichi. Da quel momento fu sempre la stessa cameriera, accompagnata dal Carabiniere Ciripicchio, a portagli i pasti. Durante i primi giorni di detenzione al Gran Sasso, lo stato d’animo dell’ex duce fu quello di un uomo afflitto e demoralizzato che aveva maturato profondo disinteresse verso le vicende politiche e militari di quei giorni. In una lettera scritta alla sorella Edvige affermava che “…per quanto mi riguarda io mi considero un uomo per tre quarti defunto. Il resto è un mucchio di ossa e muscoli in fase di deperimento organico da dieci mesi a questa parte […] Non rimpiango niente, non desidero niente”. Non dimentichiamo che, in un biglietto del 24 agosto destinato al Tenente Faiola, si definiva “questo morto di cui non si annuncia ancora il decesso”.
Come analizzato nel mio ultimo articolo di questa rubrica, il 3 settembre a Cassibile fu firmato l’armistizio corto. Badoglio aveva convocato l’Ispettore Gueli per chiedergli il livello di sicurezza dell’albergo. La risposta fu rassicurante: Campo Imperatore era ritenuto inespugnabile. L’8 settembre, alla notizia dell’armistizio, lo stato psicologico di Mussolini peggiorò: accusò Badoglio di tradimento, profetizzando la dura reazione di Hitler contro l’Italia infedele. In una sua relazione, il Generale Filippo Caruso così descrisse la surreale atmosfera che regnava sul Gran Sasso dopo l’armistizio: “nessuno rispondeva più e le notizie erano confuse. Rimanemmo isolati ed in estenuante attesa […] Dopo uno o due giorni dalla proclamazione dell’armistizio s’incominciarono a notare aerei tedeschi sorvolare a bassa quota la località di Campo Imperatore ed ufficiali nazisti andare e venire all’albergo dell’Aquila. Tali movimenti finirono per attirare l’attenzione del comandante il gruppo carabinieri dell’Aquila, maggiore Giulio Cesare Curcio, che ne riferì al prefetto Biancorosso perché potesse renderne edotto l’ispettore Gueli”.
Nel frattempo, giorno dopo giorno, i tedeschi definivano sempre più il loro quadro informativo. L’afflusso nei pressi del Gran Sasso di un contingente di 250 militari italiani, la presenza di un posto di blocco tra Assergi e la stazione inferiore della funivia e lo sgombero dell’hotel costituirono indizi convergenti. La notizia che fugò ogni dubbio giunse il 7 settembre. La Gestapo di Roma intercettò un messaggio cifrato, diretto al Capo della Polizia Senise; decriptato, esso recitava: “Le misure di sicurezza sul e intorno al Gran Sasso sono state ultimate”, firmato Gueli.
Il giorno dopo, il capitano Otto Skorzeny decollò da Pratica di Mare a bordo di un trimotore per sorvolare Campo Imperatore, scattando alcune fotografie, in cui si vedevano soldati armati attorno all’albergo in atteggiamento di vigilanza. I nazisti non avevano tempo da perdere.
Parallelamente, tra le fila italiane la confusione era assoluta. Il 9 settembre il Re, il suo seguito, molti membri del Governo e i vertici militari lasciarono Roma. I tedeschi circondarono la Capitale per occuparla. In un clima di ingovernabile disordine, il contingente di stanza al Gran Sasso era isolato e senza disposizioni. Gueli fu informato dal Prefetto dell’Aquila che circolava la voce di un imminente attacco tedesco. La replica di Gueli al Prefetto è descritta nel memoriale che egli scriverà: “Mi mostro sicuro del fatto mio e dico che non è il caso di preoccuparsi. Poi risalgo e trovo il personale dell’albergo e della funivia in allarme”. A due giorni dalla liberazione dell’ex duce, Gueli ricevette una telefonata del Capo della Polizia, che gli comunicava che «le primitive disposizioni relative alla custodia di Mussolini restano immutate». Ciò significa che il prigioniero non doveva cadere vivo nelle mani di eventuali liberatori.
Alle 3,00 del 12 settembre Mussolini incaricò il Carabiniere Gravetto di recapitare una missiva al Tenente Faiola: “Caro Faiola, scusa il disturbo […]. Il caso ha voluto che proprio io prendessi la comunicazione ufficiale della radio tedesca, che ha detto letteralmente […] “…il Maresciallo Badoglio ha promesso la consegna di Mussolini agli Alleati” […] Il fatto che tu non abbia ricevuto ordini in tal senso, fino ad oggi, non esclude che tu li possa ricevere stanotte o domani. Tu sai, per dura esperienza, che cosa significhi cadere in mani nemiche. Ti prego di risparmiarmi tale onta e tale rovina. Mandami la tua pistola. Grazie e addio”. Non ricevendo risposta alcuna, nella notte Benito Mussolini si procurò delle ferite ai polsi con una lametta, in quello che apparirà un tentativo di suicidio, significativo di un chiaro quadro psicologico. Il Maresciallo Antichi, avvertito dal carabiniere di guardia, fu il primo a intervenire. Illustrò così i fatti in un rapporto: “… nelle prime ore del mattino, il carabiniere di sentinella alla porta di Mussolini, mi fece chiamare urgentemente. Mi recai in fretta da Lui perché Mussolini aveva tentato di tagliarsi i polsi con una lametta […] non senza far avvertire della cosa il Ten. Faiola. Trovai Mussolini con le mani insanguinate e con una ferita ad ambo i polsi. Provvidi immediatamente a stringergli i polsi con una benda onde fermare l’emorragia. Le lesioni non erano gravi (scalfitture) e si poté evitare il peggio. Successivamente Mussolini si pentì dell’atto e pregò di non dar peso alla cosa”.
A Campo Imperatore continuava la totale assenza di ordini. Cosa fare di Mussolini? E se fossero stati attuati tentativi per liberarlo, come bisognava comportarsi? In una sua lunga lettera al duce, scritta dopo i fatti, l’Ispettore Gueli riferì che “…alle 13,30 [del 12 settembre – ndr] mi chiama telefonicamente il Questore dell’Aquila e mi legge il seguente telegramma da Roma: “Raccomandare Ispettore Generale Gueli massima prudenza punto capo polizia Senise”. La medesima circostanza è testimoniata dal Tenente Faiola in un suo promemoria del 1944: “…Gueli fu chiamato al telefono dal capo di gabinetto del Questore dell’Aquila. Potei, per suo invito, seguire la conversazione e ascoltare la lettura di un telegramma a firma Senise che ricostruisco a memoria come segue: Avvertite ispettore generale Gueli di agire con molta prudenza”.
Cosa significava “agire con molta prudenza”?
Il Capo della Polizia chiarì questa frase nelle sue memorie: “Se Mussolini fosse stato soppresso, era prevedibile lo scatenarsi della terribile ira teutonica…Camuffando, come al solito, la vendetta per giustizia, i tedeschi avrebbero prima massacrato guardie e carabinieri sul posto del dovere e si sarebbero poi abbandonati a distruzioni e saccheggi, propri della loro istintiva ferocia. E forse la morte di Mussolini avrebbe impedito la resurrezione di un governo fascista? […] Se invece Mussolini fosse stato consegnato vivo, i tedeschi lo avrebbero indubbiamente rimesso al potere con la forza delle armi. Ma quale distruzione morale per lui! Quale castigo pel suo folle orgoglio diventare schiavo di un alleato contro cui aveva covato sempre odio e rancore… […] L’Italia avrebbe ricevuto danno minore se Mussolini non fosse stato soppresso”. Secondo quanto il Tenente Faiola scrisse il 4 giugno 1945, Gueli gli avrebbe detto il 12 settembre che “agire con molto prudenza” significava “per convenzione concordata precedentemente con il capo della polizia, che gli ordini erano stati cambiati e che Mussolini doveva essere consegnato”.
Bisognava dunque evitare qualsiasi spargimento di sangue. Anche il Maresciallo Antichi confermò questa versione: “…due giorni prima della liberazione di Mussolini, e cioè il 10 settembre 1943, era giunto alla base del Gran Sasso il Prefetto dell’Aquila Comm. Rodolfo Biancorosso, il quale ci informò che gli ordini che avevamo dovevansi considerare aboliti e che nel caso giungessero i tedeschi per liberare Mussolini, dovevamo usare prudenza”.
L’operazione “Quercia” ebbe inizio il 12 settembre, alle 13,00, quando i paracadutisti tedeschi decollano dall’aeroporto di Pratica di mare a bordo di 12 alianti. Verso le 14,30, un’agguerrita colonna guidata da Mors stare per raggiungere la stazione a valle della funivia. Durante l’avvicinamento, l’unica resistenza incontrata fu quella della Guardia forestale Pasqualino Vitocco, raggiunto da una raffica di mitra mentre cercava di avvisare i carabinieri dell’arrivo dei tedeschi, e quella del carabiniere Giovanni Natali il quale, appena scorto il convoglio, ingaggiava con loro un conflitto a fuoco, venendo mortalmente colpito. Nello stesso istante gli alianti già volteggiavano su Campo Imperatore. Vi planarono dopo pochi minuti, nonostante il terreno impervio, disseminato di pietre e rocce. Mussolini, richiamato dal fragore, si affacciò dal balcone della sua stanza. Con lui c’era il Maresciallo Antichi, al quale chiese se i velivoli fossero inglesi. Appresa la nazionalità tedesca, esclamò con delusione: “questo non ci voleva proprio”. Sbarcati dagli alianti, i paracadutisti tedeschi puntano subito verso l’albergo. I nazisti avevano portato con loro, come ostaggio, il generale italiano Soleti, che, spinto in avanti con energia da Skorzeny, si sbracciava, implorando di non sparare.
Quei concitati momenti appaiono chiari nella narrazione del Maresciallo Antichi: “li vedemmo volteggiare contro sole ondeggiando e scendere, sfruttando la corrente […] Mussolini era con me, assorto, pensieroso, guardavamo la scena dalla piccola finestra della sua camera […] Dal vano dello sportello del primo degli alianti scorgo, rapidissimo un paracadutista scendere […] dal primo degli alianti scende un ufficiale italiano. Non si getta a terra come gli altri ma viene avanti verso l’albergo […] dietro di lui è sceso un tedesco, alto, grosso, imponente. […] riconosco i gradi dell’ufficiale in divisa grigio verde; è un generale […] Ora sento anche la voce del generale gridare qualcosa: Non sparate! È a non più di trenta metri dall’albergo […] Sento di nuovo, vicinissima ora, la voce del generale urlare: Non sparate, e un’altra voce subito rispondergli, fargli eco. È la voce di Mussolini che si è affacciato alla finestra: Non spargete sangue, non sparate! grida Mussolini”. Gueli e Faiola ordinano ai soldati di guardia di non aprire il fuoco.”
Dallo sbarco dei paracadutisti alla presa dell’albergo trascorsero appena 10 minuti. L’operazione “Quercia” era conclusa: Mussolini era stato liberato. Dopo circa trenta minuti, un velivolo da ricognizione Fieseler FI 156 Storch (noto come “Cicogna”), pilotato dall’esperto Capitano Heidrich Gerlach, atterrò nel fazzoletto di prato davanti all’albergo. A bordo salirono Mussolini e Skorzeny. Così appesantito, l’aereo riuscì a fatica a decollare. Un’ora e mezza dopo, atterò a Pratica di Mare.
Antichi e il Vicebrigadiere Accetta, pochi istanti prima del decollo da Campo Imperatore, notarono che Mussolini appariva come un “uomo ormai anziano, stanco, dominato dagli eventi” con il volto segnato da “un mesto sorriso…il sorriso di un uomo liberato da mano straniera e consapevole di aver trascinato nel baratro la patria”.
La sera stessa, l’ex duce giunse a Vienna da dove la mattina seguente partì per Monaco di Baviera. Lì, all’aeroporto, lo attendevano un Fuehrer entusiasta, la moglie Rachele e i figli Vittorio, Romano e Anna Maria, oltre a un manipolo di irriducibili gerarchi.
Giovanni Dolfin, capo della segreteria del duce durante la repubblica di Salò, riportò nelle sue memorie “Con Mussolini nella tragedia. 1943 - 1944” quanto da costui riferitogli il 7 novembre 1943: “i Carabinieri, per quanto ostili, hanno sempre mantenuto nei miei confronti un contegno perfettamente corretto”.
Quegli uomini che custodirono Mussolini in quei 50 giorni, dal pomeriggio del 25 luglio alla liberazione sul Gran Sasso, meritano certamente il nostro ricordo. Sono Esempi silenziosi che vengono dalla Memoria storica, insegnandoci come si affrontano sfide difficili con coraggio, riservatezza e determinazione.
Ciro Niglio