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Il Verismo di Salvatore Di Giacomo

Assunta Spina: Una storia di amore e tradimento
Salvatore Di Giacomo
Salvatore Di Giacomo

Il Verismo di Salvatore Di Giacomo

Assunta Spina: Una storia di amore e tradimento

            Il Verismo è in Di Giacomo appena il motivo iniziale, un’indicazione che può servire per una parte della sua produzione, ossia per le novelle e per i componimenti teatrali, tra cui “ ‘O mese mariano e Assunta Spina”, in cui ricorrono gli ambienti plebei e della “mala vita”, gli ospedali, gli ospizi, gli stessi elementi che si ritrovano in molti romanzi dell’epoca.

In un secondo momento il poeta inizia a trattare temi meno polemici, tra cui le donne e le fanciulle di Napoli, i vicoli, i balconi, le piazzette gli idilli popolari e le canzoni di Piedigrotta.

Ma quanto più semplici sono gli argomenti cantati dal poeta tanto più essi sono assunti con una partecipazione totale, con una tale trepidazione e commozione che la parola stessa verismo, nonostante la materia, ripugna alle labbra del critico.

Di Giacomo ha il dono di far vibrare con un’ intensità e un fascino che sembra quello delle Origini, le immagini più umili, come se egli avesse il cuore negli occhi, e tutto ciò che  vede si trasferisse in un incanto armonioso.

Come fu ben detto, il suo canto è modulato su alcune note, assaporate sino alla loro estrema vibrazione; una poesia fatta di nulla, che nasce dagli accordi di un pianoforte notturno, da un alito di vento, dal profumo di un’erba, dallo stridere di un insetto; ora soavemente malinconica, ora invece gioiosa, esultante, fresca, come da secoli non era più dato avvertire.

Si è avvicinata la sua arte, per alcuni aspetti melodici, a quella del Metastasio; ma ciò ha servito soltanto a far meglio avvertire la distanza, quell’entusiasmo umano che deriva dalle quartine del nostro poeta, quell’atmosfera nuova in cui sembrano diffondersi le sue parole, e perdurare in noi indefinite dopo la lettura. Il dialetto è uno dei segreti di questo poeta, quell’atmosfera nuova in cui sembrano diffondersi le sue parole, e perdurare in noi indefinite dopo la lettura. Il dialetto è uno dei segreti di questo poeta; accolto con una medesimezza che gli ha concesso di non scontrarsi con il pesante macigno della tradizione letteraria, di non dover fare i conti con un millennio di letteratura.

Appare giusto ricordare che il Basile, nel seicento, immetteva tutta la sua cultura barocca nella trascrizione in napoletano delle novelle; Di Giacomo solo l’eco della tradizione musicale del settecento. Per tale motivo si può parlare, per le sue ariette, di una poesia “nazionale-popolare”.

La cultura verista italiana si volge essenzialmente agli aspetti e ai problemi del sud. In quest’ambito è possibile collocare Salvatore Di Giacomo, la cui Vita e poesia sono essenzialmente legate ad una interpretazione accorata della vita napoletana contemplata nei suoi drammi, nelle sue miserie e insieme negli incanti musicali dei suoi abbandoni sentimentali.

 Salvatore Di Giacomo nasce nel 1860 a Napoli. Abbandonati gli studi di medicina, inizia una collaborazione letteraria al Corriere del Mattino, dove sono pubblicate le prime novelle. Collabora con il Corriere di Napoli e con i migliori quotidiani e riviste letterarie della città.

Profonde notevole impegno anche presso la Biblioteca Nazionale e diviene amico di Benedetto Croce. Si occupa prevalentemente delle storie napoletane, in particolar modo dal punto di vista del costume.

 Scrive una “Storia del Teatro San Carlino” e un volume sulla “poesia dialettale napoletana” in cui raccoglie i documenti e le testimonianze della poesia popolare: egli stesso afferma che la vera poesia non è frutto di improvvisazione ma di studio assiduo e di consapevole meditazione.

Notevole è la sua raccolta di poesie, canzoni e ariette che, come afferma Pazzaglia, rinnovano i consueti temi, con grazia e leggerezza e una freschezza elementare e limpida di sentimento, senza intrusioni intellettualistiche. Si ricordino ancora le novelle “ Senza Vederlo”, che diventerà il dramma teatrale “ o mese Mariano” e “Assunta Spina”, e il dramma “ O Voto”. La sua adesione al verismo si manifesta nella sua migliore tradizione di liriche e di drammi che sono scritti in dialetto, non tanto per sfruttare elementi di folklore, ma per esaltare maggiormente il dramma che si nasconde dietro le figure caratteristiche della Napoli del suo tempo, città “disgraziata” come egli stesso la definisce. Il suo legame con la città è appassionato e drammatico, il suo impegno è quello di descrivere, con cupo e amaro verismo, vicoli sudici, dormitori pubblici, ospedali, prigioni, bassi affollati in cui si svolgono vicende di violenza e di vizio con gente dominata da sentimenti violenti e primordiali, come amore, odio, gelosia e vendetta.

Di Giacomo, perduto in questa atroce città, è riuscito a descriverla perché ha creduto intensamente di essere chiamato a testimoniare su una gente che è stata sempre in dissonanza con la storia.
 

Assunta Spina

Assunta Spina è un dramma dell’autore napoletano Salvatore Di Giacomo.  È tratto dalla novella del 1888 e rappresentato per la prima volta nel 1909.  Eduardo De Filippo e Anna Magnani lo portarono sulla scena nel 1948. È stato anche definito il dramma della passione e della gelosia, in quanto sono rappresentate passioni semplici ed elementari. Come scrive Tommaso Giglio “ vi è tutta una umanità disgraziata, che agisce nel male senza potersi ribellare, come se un destino irrimediabile ve la spingesse”. Non è soltanto l’amore il protagonista di questa storia, ma vi sono anche la povertà e l’emancipazione femminile.

Assunta è una ragazza molto bella e giovane, ma povera; soltanto dopo alcuni anni trascorsi da lavandaia, riesce a diventare proprietaria di una stireria. In questo contesto si innesta il tema dell’emancipazione femminile, in quanto Assunta viene presentata come una ragazza indipendente e forte, quasi una donna “moderna”. La sua tenacia e la sua determinazione sono noti così come è nota la sua bellezza. Quest’ultimo elemento induce tutti gli uomini, giovani e non, a correrle dietro nella speranza di ricevere anche solo un suo sguardo dolce.   Tuttavia, il cuore di Assunta appartiene a Salvatore, giovane ragazzo molto povero che decide di salpare per  l’America in cerca di altre fortune. Purtroppo, dopo mesi di viaggio si perdono le notizie della nave e con il passare del tempo aumentano le probabilità di morte del giovane Salvatore. Tale evento spinge Assunta a instaurare una relazione con Michele Boccadifuoco, uomo molto ricco ma più anziano . Michele ha una macelleria ma è estremamente violento e geloso. Nonostante l’amore che prova per Assunta                       ( amore non ricambiato) Michele non riesce a placare la sua ira durante i diversi litigi.

Una sera, spinto dalla gelosia, Michele decide di sfregiare il volto della bella Assunta, nella speranza che tale segno possa allontanare i tanti spasimanti. 

La vicenda diviene di pubblico dominio e Michele viene messo sotto accusa e poi processato. Vani sono i tentativi di Assunta che cerca in tutti i modi di scagionarlo; Michele, pentitosi e nella speranza del perdono di Assunta, decide di confessare e va incontro al carcere.

Viene trasferito nel carcere di Avellino e questo allontana sempre più Michele da Assunta.

Durante alcune visite carcerarie Assunta conosce il cancelliere Federigo Funelli, uomo molto ricco ma estremamente donnaiolo. La sua passione per le donne lo precede e nessuna ragazza riesce a resistergli. Assunta diviene la sua nuova preda e per possederla decide di offrirle ciò che desidera: Michele deve restare nel carcere di Napoli e deve ricevere visita almeno due volte al mese

Così, Assunta si concede al cancelliere. Funelli è molto preso da Assunta ma ha una moglie e dei figli; Assunta è ignara di tale dato e il cancelliere è molto scaltro nel nasconderglielo.

Nonostante la relazione con Michele, Assunta inizia a provare qualcosa di molto più forte per Federigo e in tutti i modi cerca di dimostrarglielo . Ma le cose non vanno come vorrebbe la bella fanciullia , in quanto il cognato del cancelliere, per allontanarlo dalle sue numerose amanti, gli propone alcuni incarichi di prestigio a Roma. Federigo, essendo estremamente ambizioso, accetta e decide di allontanare Assunta senza alcun ripensamento.

L’unico modo per allontanare la donna e non avere scenate di gelosia è quello di far rilasciare Michele in anticipo rispetto alla pena prevista. Così avviene.

Michele esce dal carcere e, pentitosi per le sue azioni violente, si reca da Assunta e le confessa tutto il suo amore.

La donna,  scossa dall’evento,  non può tacere sulla sua relazione, suscitando il forte sentimento della vendetta in Michele.  Così, durante un incontro tra Assunta e Federigo arriva Michele che con uno stiletto pugnala il cancelliere a morte.  ( La tragicità degli eventi porta a riflettere su un dato: lo stiletto usato da Michele era un regalo del Cancelliere. Infatti, lo stesso, immaginando che Assunta avrebbe confessato a Michele di essere innamorata di qualche altro uomo, regala al macellaio uno stiletto spagnolo, sperando nella immediata reazione violenta nei confronti di Assunta e non del suo amante).

Il trambusto, le grida, i rumori chiamano le guardia che subito accorrono. Esse chiedono: “Chi è stato?”. Assunta risponde “sono stata io”. Perché lo fa? Forse perché è consapevole che Michele non ha colpe e ha ucciso in quanto il coltello tra le mani glie l’ha messo la gelosia. Oppure Assunta, essendo consapevole delle sue colpe, si assume la responsabilità per espiare e per punirsi dei suoi peccati?

Ciò che si evidenzia in questo ultimo dialogo è la magnifica arte psicologica della commedia e dei suoi magistrali caratteri. Questo dialogo dà forza e tragicità al dramma nel quale frequenti sono i toni di alta poesia.

Il fulcro di tale dramma risiede nell’eccesso  della passione che è  φαρμακός(pharmakon) il quale cura o uccide chi ne fa uso.

L’eccessiva passione porta inevitabilmente ad un grande piacere fisico e mentale ma nel momento stesso in cui ci deliziamo con il nostro sentimento giunge a noi la perdizione che ci fa soffrire e pentire della passione vissuta.

Il nostro cuore se prima era gonfio di “voluptas” ora è privo di dimensione sgonfiato dal pugnale che la coscienza infligge.

La domanda che ci sorge ora spontanea leggendo questo romanzo è: ma dunque è bene vivere senza passione e istinti e lasciare sé stessi nell’apatia e nella nullità?

Entrambi i casi sono estremi ma prendendo per l’ennesima volta spunto dalla filosofia greca possiamo ricordare che Archiloco, filosofo greco, induceva l’uomo ad agire con “μὴ λίην” (meli en) che letteralmente significa “non troppo”.

Ovvero, non esagerare con il sentimento ma lasciare che sia la razionalità a guidare le passioni.

Il dramma ci insegna che ad un’azione violenta corrisponde una violenta fine.