Un eremita

eremita
eremita

Sono tempi, questi, in cui non si va molto in giro.

A volte si può avere l’impressione di star vivendo come reclusi, come eremiti.

Eppure, ci sono popoli che ancora oggi esprimono una tradizione di eremitaggio e da essa cercano di trarre insegnamento. Mi riferisco, ad esempio, ai tibetani.

Nella regione himalayanica è diffuso il buddhismo vajrayana, che è parte della tradizione mahayana. Secondo questa, il percorso per il raggiungimento dell’illuminazione (cioè di uno stato di buddhità, verso cui tutti gli esseri viventi tendono con un cammino più o meno lungo che può durare svariate vite) non è individuale, ma deve coinvolgere la comunità.

Gli eremiti, pertanto, lo sono a tempo determinato (di solito 3 anni, 3 mesi e 3 giorni), dopo di che devono offrire agli altri il frutto della conoscenza mistica acquisita mediante la prolungata esperienza di meditazione.

Mi è capitato di conoscerne uno, Nawang Tashi. Il suo ricordo è ancora nitido in me, ma rileggo con piacere le pagine del mio diario dell’epoca:

“Non sempre è facile raggiungere la valle dello Zanskar. Partendo da Leh, d’inverno si deve camminare per una settimana percorrendo con attenzione il fiume ghiacciato; d’estate esiste una strada, ma sono possibili gli smottamenti e le frane causati dal monsone. La valle, così isolata, ha mantenuto nel tempo la sua identità.

Il piccolo rifugio nel quale mi trovo è basso e scuro, ma è rischiarato da quell’uomo, la cui presenza trasmette pace. Lo ha costruito lui stesso con le sue mani, pietra su pietra. Lì nella penombra la sua voce risuona serena mentre narra la sua vita tornando indietro nel tempo. Da bambino era stato allievo di un monaco che gli aveva insegnato a scolpire in legno le matrici per stampare i sacri mantra. Era diventato progressivamente sempre più abile in quell’attività, ma aveva poi dovuto abbandonarla perché, ormai adulto, era stato nominato abate del monastero di Bardan, un magnifico tempio aggrappato ad una roccia che domina il fiume Zanskar.

Arrivato all’età di 70 anni Nawang Tashi aveva sentito il bisogno di tornare ad un contatto di meditazione con la realtà dell’Universo. L’abbandono dell’importante carica religiosa e delle incombenze che ne derivavano gli era sembrato l’unico mezzo per poter continuare la sua ricerca. Era diventato un eremita ed aveva ricominciato ad incidere il legno. Adesso, a 79 anni, spiega che sta cercando un bambino a cui trasmettere tale abilità, che presuppone incidere i segni al contrario come in un negativo onde poterli utilizzare per stampare.

Nella sua speranza il bambino dovrebbe avere circa 10-11 anni. Non è facile trovarlo.

Molte famiglie sarebbero orgogliose di offrirgli il proprio figlio, ma a quella età in Zanskar un bambino comincia ad essere produttivo, ad aiutare nel campo o nei lavori di casa, inizia a dare un apporto economico alla famiglia e questa non può permettersi il lusso di perderlo. Per tale motivo lui raccoglie soldi da donatori, per compensare economicamente una famiglia per la perdita che questa subirebbe cedendo il proprio figlio. Offre le opere che scolpisce ai pochi che vanno a trovarlo.

Osservo, ammirandolo, uno di tali legni e la mia bocca pronuncia, quasi senza volere, la più errata delle domande: “Quanto costa questo?”. Tali oggetti, infatti, non hanno un prezzo, sono frutto della fede. Si può dare quello che si ritiene giusto o di cui si dispone, ma non stabilirne un prezzo.

L’anno successivo torno in quei luoghi sperduti e chiedo notizie dell’eremita. L’inverno, però, è stato freddissimo, con temperature che sono arrivate a meno 40° e Nawang Tashi non ce l’ha fatta a sopravvivere. Non ha trovato il bambino agognato e nella valle il suo sogno e la sua capacità sono andati perduti. La catena ha perso un anello prezioso e si era spezzata.

A me resta il ricordo del suo viso mite e, nella mia casa, una matrice per stampare mantra.