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Sanguisughe

Rimedio contro le sanguisughe e incontri in quota, montagna e aereo
Sanguisughe
Sanguisughe

Tutti sanno che in Nepal o in Sikkim in periodo monsonico se si cammina su terreno umido con foglie o marciume vegetale è facile prendersi le sanguisughe.

Non il primo della fila, ma tutti gli altri sì. Questo perché quegli animaletti si mettono all’erta captando le vibrazioni dei passi: chi conduce la fila di solito fa in tempo a sfuggire, chi segue no.

Non portano malattie e si staccano quando sono sazie, ma non sono piacevoli.

Se proprio le si vuole eliminare c’è un metodo infallibile: fare un tampone con un pezzetto di stoffa inumidito inserendo del sale all’interno. Per le sanguisughe il cloruro di sodio è ustionante e si staccano immediatamente.

Pur sapendo tutto ciò, ignoriamo allegramente la precauzione e all’alba prendiamo il sentiero tra la vegetazione che conduce sulla collina del monastero di Sangh-Gak Choling, vicino Pelling, nel Sikkim.

Giunti al tempio, leggiamo il cartello con la scritta “Si chiede di rispettare questo luogo non uccidendo alcun essere vivente”. Delicatamente con le dita riusciamo ad eliminare i fastidiosi insetti da cui siamo ormai infestati, facendo attenzione a non far loro male e a che non si spezzino lasciando metà corpo attaccata al nostro, cosa che potrebbe causare infezioni.

Da quassù la vista sul Khanchendzonga (8.560 metri) lancia il cuore nell’immensità.

L’edificio templare risale al 1642 e gli affreschi all’interno sono curati nei dettagli e di una bellezza emozionante. I colori sono ancora quelli naturali e le tonalità calde e morbide.

Il rapimento di quelle immagini viene interrotto da un suono cupo di tamburo proveniente dall’alto. Imboccata una scala giungo al Gongkhang, la cappella riservata ai riti esoterici. Questa è dedicata a Mahakala, manifestazione terrifica di Avalokitesvara, bodhisattva della Compassione.

All’interno, nella semioscurità, scorgo un monaco accovacciato che esegue il rituale ritmando il proprio canto sordo con cembalo e tamburo. Solo alcuni monaci selezionati possono effettuare tale rito. Il monaco va progressivamente in trance, lasciando solo il suo corpo in quel luogo. Una bimba porta all’anziano una tazza di tè senza pronunciare una parola, ma lui è ormai molto lontano, non può vederla e continua il suo percorso tra antiche invocazioni.

Con la mente ripercorro un altro episodio avvenutomi non lontano da qui.

Mi imbarco sul volo che da Kathmandu va a Delhi con noncuranza, come ho fatto tante volte. Percorro il corridoio in cerca del mio posto e mi siedo. Alla mia sinistra, vicino al finestrino, un uomo è intento a recitare preghiere tibetane e tiene gli occhi chiusi.

Aspetto che termini e poi, facendo appello alle poche frasi in tibetano da me conosciute, gli rivolgo un saluto. È così che, senza accorgercene, ci incontriamo o forse ci ritroviamo. Abbiamo una vaga sensazione di conoscerci già.

L’uomo mi narra la propria storia. È un ex monaco a cui è capitato di innamorarsi di una ragazza e per questo ha ripreso lo stato laicale. Ora è di ritorno da un pellegrinaggio a Boudhanath, luogo sacro per il Buddhismo, famoso per il suo grande stupa del XV secolo.

Ne approfitto per porgli svariate domande di carattere religioso. Il tempo passa veloce senza quasi che me ne accorga e così, d’un tratto, mi rendo conto che stiamo per atterrare. “Mi dispiace che stiamo arrivando, avrei avuto molte altre cose da chiederti”, gli dico. La risposta è: “Ma noi ci incontreremo ancora”.

Lì per lì penso che sia solo una frase gentile. Nel tempo, tuttavia, lo ho poi incontrato più volte, sotto le sembianze di altre persone che mi hanno aiutato a capire.