Religiosità e carcere

“…tra fede,  conversione e ricerca …”
religiosità in carcere
religiosità in carcere

Religiosità e carcere

“…tra fede,  conversione e ricerca …”

 

L’art. 26 della legge 354/1975 sull'ordinamento penitenziario riconosce ai detenuti e agli internati la libertà di professare la propria fede, di istruirsi nella propria religione, di praticarne il culto.

Il decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 123 ha modificato l'art 9 dell'ordinamento penitenziario, prevedendo che ai detenuti che ne fanno richiesta sia garantita, ove possibile, un'alimentazione rispettosa del loro credo religioso.

Negli istituti penitenziari, l’assistenza religiosa è assicurata per tutti i culti, per il culto cattolico è prevista la presenza di un Cappellano in ogni istituto.

Per i culti diversi dalla religione cattolica, i ministri possono accedere negli istituti penitenziari secondo due diverse modalità:

  • se si tratta di confessioni religiose che hanno stipulato un’intesa con lo Stato Italiano, i ministri possono entrare negli istituti “senza particolare autorizzazione” e secondo quanto previsto dalle leggi che hanno recepito le singole intese, ai sensi dell’art. 58 del Regolamento di esecuzione della legge 354/75. Attualmente, le Confessioni che hanno stipulato un’intesa con lo Stato Italiano sono: Tavola valdese, Assemblee di Dio in Italia, Chiesa evangelica luterana, Unione delle comunità ebraiche, Chiesa cristiana avventista, Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia, Chiesa apostolica, Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni, Unione buddhista italiana, Istituto buddista italiano “Soka Gakkai”;
  • per i ministri di culto di confessioni che non hanno stipulato alcuna intesa con lo Stato è invece necessario un nulla osta rilasciato ad personam dall’Ufficio culti del Ministero dell’interno.

Se nell’ultimo decennio di carceri si è iniziato a parlare a proposito di Sovraffollamento e trattamento inumano e degradante, sono ancora molte, però, le questioni d’emergenza ignorate o spesso non condivise e tra queste c’è il diritto all’assistenza religiosa. Il 30 marzo 2016, in merito ad un ciclo di corsi organizzati a Milano sul tema delle religioni in carcere , è intervenuto l’allora segretario provinciale della Lega Nord di Milano, affermando: «Sarebbe bene che queste persone scontino la pena nel proprio paese di origine […] I corsi dovrebbero essere fatti non agli agenti, ma agli stessi stranieri, insegnando loro quali siano i valori fondanti della nostra società, che devono essere rispettati per potere vivere onestamente in questo Paese

Cos’è il diritto all’assistenza religiosa lo ha spiegato Massimo Rosati, professore di Sociologia generale dell’Università di Roma Tor Vergata, in un saggio del 7 gennaio 2013, Religioni in carcere. 

Sul  tema delle religioni in carcere, il professore, ha spiegato così il significato: «Di cosa parliamo? Della possibilità di pregare secondo le regole del proprio culto, che non sempre rimettono la preghiera al solo foro interiore della coscienza, ma chiedono tempi e spazi precisi, difficili da armonizzare con tempi e spazi della vita del carcere; della possibilità di celebrare liturgie specifiche; della possibilità di seguire norme alimentari specifiche; della possibilità di vedere trattato il proprio corpo – in carcere si sa, tutto impatta sul corpo – secondo norme particolari (dalle cure igieniche a quelle mediche); della possibilità di avere assistenza spirituale e/o relative all’applicazione di norme religiose in un contesto così difficile mediante il rapporto con un ministro di culto della propria tradizione o con un rappresentante della propria comunità; della possibilità di avere accesso ai testi sacri o ad altri simboli religiosi considerati sacri; della possibilità stessa di venire informati in modo completo ed esauriente circa le condizioni del diritto al culto dietro le sbarre. »

Si dice che il carcere rifletta per molti aspetti il mondo là fuori, ed è vero (come è vero che in carcere si sperimentano tecniche di controllo e pratiche esportabili nel mondo là fuori): e infatti il modo in cui viene gestito il pluralismo religioso nei sistemi penitenziari inglese o francese non è lo stesso, ad esempio, e riflette le diverse culture della laicità. Lo stesso dicasi per l’Italia. Uno sguardo comparativo non guasta, e mostra che le soluzioni e scelte operabili sono molteplici, dal cappellanato multi-religioso alla costruzione di sale multi-fede, ma tutto presuppone in primis una robusta cultura del pluralismo religioso, una alfabetizzazione e formazione dei diversi attori che al momento, in Italia, è del tutto carente.

Di religioni in carcere, fin qui, si parla per lo più, quando pure ciò accade, in termini di rischi di ‘radicalizzazione’ di specifiche confessioni (leggi Islam) dietro le sbarre, e di forme di controllo e gestione di questi rischi. Quello che non è ancora nel nostro quadro è che forse una compiuta implementazione del diritto al culto, in un contesto pluralista, può essere una risposta (una, certo, non l’unica) democratica ed efficace agli stessi rischi di radicalizzazione.

L’istituzione penitenziaria viene vista come vessatrice, vero volto di una società ingiusta. L’ideologia jihadista consentirebbe allora un’opposizione strutturata, teoricamente salda. L’adesione al jihad permetterebbe inoltre il capovolgimento “magico” dei ruoli: da giudicati si diventa giudici, da condannati giustizieri, oltre che eroi e martiri. Le dinamiche in gioco sono molteplici e complesse. Qui ci basti sottolineare come la promozione dei diritti possa essere un modo per contrastare il fenomeno della radicalizzazione, e come ciò non venga fatto a sufficienza.

Il problema della radicalizzazione dietro le sbarre non è chiaramente estraneo ai pensieri dell’amministrazione penitenziaria, come mostra il modo in cui raccoglie e presenta i dati: i numeri sulle fedi di appartenenza dichiarate si affiancano e intrecciano a quelli sui detenuti provenienti da paesi di tradizione musulmana, sotto il paragrafo dedicato alla radicalizzazione.

Il monitoraggio del fenomeno avviene con diversi strumenti concettuali. Il DAP ha definito tre categorie di detenuti a rischio e altrettanti livelli di allerta. La prima categoria comprende chi è in carcere per reati connessi al terrorismo di matrice islamica, senza distinzioni tra condannati, sospettati e imputati; la seconda i detenuti per reati comuni che “condividono un’ideologia estremista e risultano carismatici”; la terza i detenuti comuni giudicati “facilmente influenzabili”, i “followers”. Queste tre categorie rientrano in ordine sparso in tre livelli di allerta. Il terzo e meno alto è riservato ai “followers”, il secondo a coloro i quali durante la detenzione hanno mostrato “atteggiamenti che fanno presupporre la loro vicinanza all’ideologia jihadista” e il primo, detto “alto”, a due tipi di detenuti: i condannati, sospettati e imputati per reati connessi al terrorismo islamico e i detenuti comuni che hanno “posto in essere atteggiamenti che rilevano forme di proselitismo, radicalizzazione e/o reclutamento”, dunque meritevoli di un’attenzione particolare.

I detenuti per terrorismo islamico sono soggetti a un regime detentivo speciale e restrittivo, l’alta sicurezza (AS). Si tratta di un regime basato su circolari dell’amministrazione penitenziaria e non su leggi, e pertanto soggetto a forte discrezionalità. In uno dei sotto-circuiti che lo compongono, l’AS2, si trovano i (oggi in aumento numerico)  detenuti per reati commessi con finalità di terrorismo di matrice islamica.

In ragione  di ciò si aprono temi quali: necessità di formazione del personale penitenziario – monitoraggio – inevitabile compressione dei diritti – necessità di attivare strumenti di mediazione.

In ambito penitenziario l’appartenenza confessionale assume un rilievo significativo sotto molteplici profili, dai quali emergono in modo evidente le interazioni esistenti fra diritto, religioni e culture. Il fattore religioso, oltre a poter essere un elemento connesso – direttamente o indirettamente – all’azione criminale, può fornire un positivo sostegno alle dinamiche di attuazione delle finalità costituzionali cui deve tendere la  pena (art. 27, comma 3, Cost.), potendo la religione apportare un efficace contributo alla rieducazione del reo.

Il secolare rapporto tra detenzione e religione, alimentato anche dalla dimensione emendativa che ha contraddistinto l’applicazione delle pene nei diritti confessionali, rende «innegabile il ruolo che la religione può avere nel cammino riabilitativo dei condannati, sia come percorso di fede personale, sia attraverso l’intervento di associazioni di volontariato di matrice religiosa».

Ciò può avvenire non solo tra le mura carcerarie, attraverso l’intervento dei ministri di culto che svolgono il servizio di assistenza spirituale, ma anche in tutti quei casi in cui è possibile il ricorso all’applicazione di misure alternative alla pena detentiva, tra le quali, ad esempio, l’affidamento a servizi sociali oppure a comunità non carcerarie.

Proprio a tale riguardo, si registra un contributo positivo delle confessioni religiose e dei relativi enti convenzionati che operano nell’ambito dell’assistenza sociale o del volontariato per la realizzazione di una «giustizia “riparativache insegna al colpevole ad essere responsabile ed a dialogare con chi ha subito il torto e con la comunità »

La piena tutela dei diritti fondamentali del detenuto impone necessariamente di superare anche in questo delicato ambito ad alto impatto sociale la c.d. «cultura dello scarto», nella consapevolezza che «le carceri hanno bisogno di essere sempre più umanizzate».

In questa prospettiva, la dimensione centrale che la religione assume nella vita dell’uomo, in ragione del forte condizionamento che essa produce sul suo agire, si riflette in modo significativo anche sull’adempimento del dovere costituzionale di predisporre un trattamento penitenziario conforme ad umanità e tendente alla rieducazione del condannato (art. 27, comma 3, Cost.).

All’interno delle mura carcerarie l’esercizio della libertà religiosa, infatti, non può essere del tutto escluso, ma solo ragionevolmente compresso a motivo di superiori esigenze di sicurezza connesse alla stessa condizione detentiva.

Del resto, proprio all’interno degli istituti penitenziari si registra una significativa osservanza della pratica religiosa, spesso superiore rispetto a quanto avviene nella società esterna, rappresentando la stessa anche un forte elemento di socializzazione.

La religione è stata annoverata tra gli elementi di cui ci si avvale principalmente per il trattamento intramurario, unitamente all’istruzione, alla formazione professionale, al lavoro, alla partecipazione ai progetti di pubblica utilità, nonché alle attività culturali, ricreative e sportive, a norma dell’art. 15, comma 1, dell’ordinamento penitenziario.

Il diritto di libertà religiosa è, dunque, riconosciuto e protetto anche dall’ordinamento penitenziario, essendo estranea al vigente quadro costituzionale l’idea che la restrizione della libertà personale possa comportare il disconoscimento delle posizioni giuridiche soggettive primarie attraverso un generalizzato assoggettamento all’organizzazione penitenziaria.

Quest’ultima, infatti, deve necessariamente basarsi sul primato della persona umana e dei suoi diritti fondamentali.

A tale riguardo, il decreto del Presidente della Repubblica n. 230 del 2000, «Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà», in ragione della necessità di procedere ad una revisione delle norme di esecuzione della legge n. 354 del 1975, anche alla luce dell’evoluzione delle strutture e delle disponibilità della pubblica amministrazione, nonché delle mutate esigenze trattamentali all’interno di un diverso quadro legislativo di riferimento, riconosce ai detenuti il diritto di:

a) usufruire del servizio di biblioteca, organizzato attraverso una selezione di libri e riviste che sia rappresentativa del pluralismo culturale esistente nella società (art. 21, comma 2);

b) partecipare ai riti della confessione di appartenenza, purché compatibili con l’ordine e la sicurezza dell’istituto e non contrari alla legge (art. 58, comma 1);

c) esporre, nella propria camera individuale o nel proprio spazio di appartenenza nella camera a più posti, immagini e simboli della propria confessione religiosa (art. 58, comma 2);

d) praticare, durante il tempo libero, il culto della propria fede religiosa, purché non si esprima in comportamenti molesti per la comunità (art. 58, comma 3);

e) celebrare i riti del culto cattolico, usufruendo di una o più cappelle, di cui deve essere dotato l’istituto in base alle esigenze del servizio religioso; in tale caso, le pratiche di culto, l’istruzione e l’assistenza spirituale sono assicurate da uno o più cappellani in relazione alle esigenze medesime (art. 58, comma 4);

f) usufruire di idonei locali, messi a disposizione dalla direzione dell’istituto, per l’istruzione religiosa, le pratiche di culto da parte degli appartenenti ad altre confessioni religiose, anche in assenza di ministri di culto (art. 58, comma 5).

Quest’ultima norma prevede che tali pratiche e l’accesso ai locali messi a disposizione dalla direzione possano avvenire anche in assenza dei ministri di culto, assumendo un rilievo significativo per le attività cultuali svolte dai detenuti musulmani.

Le confessioni religiose intervengono costantemente in ambito intramurario per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti, attraverso le attività nelle quali si articola il sistema di assistenza spirituale, nonché mediante ulteriori componenti della c.d. comunità esterna, tra le quali assumono un rilievo significativo i mediatori culturali.

Le norme che disciplinano il servizio di assistenza spirituale, «non si limitano a garantire la libertà religiosa dei singoli, ma pure il diritto delle confessioni religiose di annunciare il proprio messaggio anche in quei luoghi, attraverso il libero accesso dei rispettivi ministri di culto all’interno degli istituti», per poter svolgere una serie di attività cui è connessa anche la rieducazione del reo.

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"Entrai a piedi nella città, passai di fianco alle grandi carceri di San Vittore, diedi una benedizione e pensai: lì vivono migliaia di persone che devo andare a trovare". Con queste parole Carlo Maria Martini ricordava il suo ingresso a Milano il 10 febbraio 1980. Dalle visite in carcere che fece lungo tutto il suo mandato episcopale nasce la riflessione racchiusa nel libro “Un’Altra Storia inizia qui” di Marta Cartabia e Adolfo Ceretti: come e perché fare in modo che la pena sia giustizia ma anche ricomposizione?

"Dio chiede giustizia per ricomporre la relazione" - "Con San Vittore - per lui il cuore di Milano - aveva un appuntamento fisso a Natale" spiega padre Carlo Casalone, presidente della Fondazione - "per fare esperienza vissuta di una concezione della giustizia che non poteva rimanere solo teorica. Tante le amicizie nate, epistolari che gli hanno permesso di rielaborare un accompagnamento.

Lui stesso andava a visitare le persone, nonostante alcune perplessità delle autorità per i rischi. Tra loro diversi terroristi che poi lo hanno seguito nella sua scuola della Parola in Duomo. Il tentativo di distinguere il peccato dal peccatore è stato per lui fondamentale, per ribadire la dignità della persona. Antesignano del valore della giustizia riparativa, in realtà ancorata nella Bibbia: nella Scrittura non è Dio il giudice ma la parte lesa  chiede giustizia non per condannare l'altro ma per ricomporre la relazione".

E’ da qui che parte la grande stagione di dialogo tra la città di Milano ed il carcere, un dialogo che ha portato ad una coscienza civica che oggi fonda l’azione di Enti quali “casa della Carità”, “Comunità Nuova”, “Opera San Francesco”…e tante altre per arrivare all’impegno diretto del Comune con le attività periferiche nei Municipi che accolgono i detenuti per azioni di lavoro ed opera sociale. I detenuto trovano in questo motivo per un cammino…un cammino fatto di domande a cui piano piano imparano  a dare delle risposte. Molti trova  conforto in una fede sempre più praticata, altri si interrogano, interrogano le proprie azioni in un confronto continuo…talvolta doloroso con la parola, con il vangelo.

Scrive il Papa: «Con questo stile pastorale e spirituale di dialogo il cardinale Martini non ha cercato solo di coinvolgere i membri della comunità ecclesiale. Ha cercato anche attivamente di incontrare chi nella comunità dei credenti immediatamente non si riconosceva. Egli ha spinto lo sguardo oltre i confini consolidati, favorendo una chiesa missionaria “in uscita” e non chiusa su se stessa, facendo emergere il messaggio universale del Vangelo, portatore di luce e di ispirazione per tutte le persone. L’esempio di maggiore risonanza anche internazionale di questo modo nuovo di dialogare con il mondo contemporaneo fu la Cattedra dei non credenti».

L’iniziativa nacque dalla convinzione che tutti, credenti e non credenti, siamo alla ricerca della verità e non possiamo dare nulla per scontato. Ogni credente porta in sé la minaccia della non credenza e ogni non credente porta in sé il germe della fede: il punto d’incontro è la disponibilità a riflettere sulle domande che tutti ci accomunano.

Il cardinale C.M. Martini aveva intuito la fecondità del contributo che le comunità cristiane possono dare alla società civile oggi se compiono questo sforzo di mediazione sul piano etico e antropologico: i principi della fede, lungi dal trasformarsi in motivo di conflitto e di contrapposizione all’interno della convivenza civile, possono e devono risultare vivibili e appetibili anche per gli altri, nel maggior consenso e concordia possibili e motivare in profondità l’impegno per la giustizia e per la solidarietà.

Nelle carceri si vive nella miseria che impone la legge dell’uomo, ma l’uomo e la legge non hanno la forza di far disconoscere la Misericordia di Dio. La speranza e la fede, per chi l’ha, sorreggono l’uomo detenuto. Grida l’uomo, grida il suo silenzio, gridano la fame e la miseria, grida, si sciupa e si dissecca la vita, e grida il tempo e grida l’anima, e in tutti i detenuti  si spezzano i cuori… ma Cristo è in ascolto.

Arriva Cristo, la Sua Misericordia porta con sé i petali della vita e fa del carcere un luogo consacrato. «Dove dimora il dolore il suolo è sacro». Arriva e porta pace alla disperazione degli uomini che sono al varco del confine, nelle urne del pianto. Arriva e libera gli spiriti legati alle catene. Il divino è uno dei reclusi, fatica con ciascuno dei reclusi, per riscattare il passato di ognuno e per ripristinare i giorni  di ciascuno.

In carcere Lo si sente camminare accanto, consola la libertà crocifissa, e a ogni passo si sente  il giogo diventare più sopportabile. Cristo non è nelle giornate dei detenuti solo un pensiero, qui si riesce a dargli del Tu. Allora ci si impone di ricominciare.

La vita è un ricominciare sempre, ogni giorno, ogni istante. La realtà provoca e noi non possiamo non prenderla sul serio e ciò vuol dire accettare la sfida che essa ci pone. La chiave di volta sta nel rapporto con noi stessi, tra noi e ciò che ci sta attorno. Da ciò non dobbiamo rifuggire perché è il culmine e la misura della sfida. Pregheremo più intensamente perché la Misericordia sia sempre presente nei cuori di ciascuno e nella nostra vita di detenuti e accarezzi la nostra sofferenza.