Riforma dell’Ordinamento Penitenziario

Riforma dell’Ordinamento Penitenziario
Dall’alba dei diritti dei detenuti ad un crepuscolo di involuzione securitaria
Sono passati 50 anni dal momento in cui venne attuata la grande riforma penitenziaria con la Legge 354 del 26 luglio 1975 recante le “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”. Uno dei propositi principali della Legge penitenziaria era quello di colmare un’enorme lacuna esistente sotto il profilo giuridico rispetto all’esecuzione penale; all’epoca, infatti, era ancora vigente il regolamento fascista del 1931, contenente una serie di disposizioni tramite le quali ci si limitava a regolare la condotta delle persone private della libertà negli istituti di pena.
Il 1975 è certamente un anno di grandi svolte nella società italiana, apre una stagione di legislazione attuativa dei principi costituzionali che rappresenta una prospettiva di grande respiro per l’Italia e gli italiani nel decennio degli anni ’70 vedono la luce: lo statuto dei lavoratori (1970), la legge sul Divorzio (1970), la riforma del diritto di famiglia (1975), la riforma dell’Ordinamento Penitenziario (1975), la riforma del Servizio Sanitario che introdusse la triade prevenzione-cura riabilitazione per garantire la salute (1978), la legge sull’interruzione regolata della gravidanza (1978) .
Con la legge 354 del 1975 si affronta in modo organico e Costituzionalmente ispirato il tema dell’esecuzione penale in una prospettiva di risocializzazione in cui la persona viene scissa dal reato, il detenuto finalmente acquisisce una specifica soggettività giuridica, in quanto viene identificato e definito come un soggetto titolare di diritti ed aspettative. Di pari passo viene anche istituita la Magistratura di Sorveglianza come organo giurisdizionale con funzioni di controllo e di tutela dei diritti delle persone detenute.
È opinione condivisa che questa riforma abbia dato adempimento agli obblighi costituzionali derivanti dall’articolo 27, realizzando a livello di normazione primaria tanto il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità quanto la finalità tendenzialmente rieducativa delle pene.
La profonda innovazione introdotta dall’ordinamento penitenziario si è concretizzata in contenuti di particolare rilievo, che ricordiamo per grandi linee e inevitabili omissioni:
l’individualizzazione del trattamento secondo le caratteristiche di ciascun condannato; la concezione dell’esecuzione di una pena come occasione di recupero sociale;
la trasformazione del detenuto da oggetto passivo a soggetto titolare di diritti;
l’apertura dell’istituzione carceraria verso la società esterna;
l’individuazione di nuove figure professionali specializzate;
l’introduzione di permessi per uscite temporanee;
la possibilità di sostituire, in tutto o in parte, la detenzione intramuraria con misure alternative;
l’ampliamento della giurisdizionalizzazione della fase esecutiva.
Alla luce della delicata fase che oggi sta attraversando il sistema penitenziario in Italia, è doveroso e quanto mai urgente riflettere sull’impatto prodotto dalla riforma penitenziaria ..
In che stato versano i diritti delle persone detenute in Italia oggi? In che modo si è declinato nella prassi penitenziaria lo spirito riformatore della Legge del 1975? La tensione costante tra disciplina e rieducazione, tra premio e castigo, su cui si articola l’ordinamento penitenziario del ‘75, in che rapporto si pone con i diritti delle persone detenute oggi?
Il carcere è sempre e comunque lo specchio della nostra società; un’istituzione totale in grado di replicare, con maggiore intensità, le dinamiche che riguardano in primo luogo la società “libera”. Utilizzando un’espressione propria della sociologia del diritto italiano, possiamo infatti affermare che l’universo penitenziario ha da sempre rappresentato un “osservatorio privilegiato” della società tutta.
Occorrerebbe approfondire proprio il rapporto che intercorre tra la società contemporanea – in continua evoluzione sotto molteplici punti di vista – e un modello carcerario che invece di guardare avanti, sembra essere sempre più nostalgico dei tempi passati, quelli in cui nel contesto carcerario il paradigma disciplinare era l’unico possibile.
Nel corso dei successivi cinquant’anni, tuttavia, le linee culturali e ideali della riforma del 1975 non hanno conosciuto un percorso evolutivo continuo, lineare e armonioso, poiché l’ordinamento penitenziario ha subìto profonde trasformazioni che, talora, ne hanno significativamente modificato alcune caratteristiche originarie.
Già la legge 10 ottobre 1986, n. 663, “Gozzini”, evidenziava questa duplicità di approccio: da un lato, apportava ulteriori sviluppi nel processo di ampliamento delle misure di reinserimento sociale, con l’introduzione dei permessi premio (art. 30-ter O.P.) e della liberazione anticipata nella sua formulazione attuale (art. 54 O.P.); dall’altro, però, introduceva misure di segno opposto, quale il regime di sorveglianza particolare (art. 14-bis O.P.), finalizzato a fronteggiare problematiche di controllo intramurario, forse sottovalutate dalla riforma del 1975.
Negli anni successivi, questo procedere ambivalente del legislatore si è consolidato,
generando filoni di modifiche orientati verso obiettivi spesso divergenti, quando non in aperta contraddizione tra loro. Analoga dinamica ha caratterizzato i settori normativi strettamente connessi all’ordinamento penitenziario: il diritto penale sostanziale, il diritto processuale penale e la disciplina dell’organizzazione amministrativa dell’esecuzione penale.
L’analisi delle modifiche apportate alla legge del 1975 consente di individuare almeno tre principali direttrici evolutive.
La prima concerne l’ampliamento e la diversificazione delle misure restrittive non carcerarie (misure alternative, pene sostitutive, misure di comunità). Questo articolato sistema di forme esecutive extramurarie è stato ripetutamente incrementato, spesso sotto la pressione emergenziale del sovraffollamento penitenziario. Tale evoluzione, pur rappresentando un’alternativa preferibile ai tradizionali provvedimenti di clemenza generale, da ormai un ventennio non più praticati, ha comportato una parziale distorsione delle finalità originarie. Le misure “alternative”,
infatti, sono progressivamente evolute da strumenti di individualizzazione dell’esecuzione, calibrati sulle specifiche caratteristiche personali del condannato, a componenti di ripetuti pacchetti “svuota-carceri”. La loro ripetuta rimodulazione, quindi, ha avuto il principale e assorbente scopo di ridurre la popolazione detenuta, con esiti talora dubbi rispetto all’efficacia rieducativa. L’esperienza anche di altri ordinamenti dimostra come le misure non carcerarie rappresentino strumenti moderni e diffusamente utilizzati, consentendo di evitare la detenzione.
La seconda direttrice si caratterizza per riforme orientate alla tutela della sicurezza pubblica.
I due pilastri di questo orientamento sono rappresentati dagli articoli 4-bis e 41-bis
dell’ordinamento penitenziario, che hanno introdotto regimi differenziati per specifiche categorie di detenuti. Mentre il primo preclude o limita l’accesso alle misure alternative ai detenuti per determinati reati, il secondo stabilisce rigorose regole di vita intramuraria allo scopo di impedire ai vertici della criminalità organizzata di mantenere collegamenti operativi con l’esterno.
Il terzo filone riguarda l’evoluzione dei diritti dei detenuti nella quotidianità carceraria. La normativa italiana, già avanzata nel 1975, ha conosciuto ulteriori sviluppi in materia di salute, istruzione, lavoro, mantenimento dei rapporti familiari e permanenza all’aria aperta, anche se talora le successive riforme sono state attuate in maniera inadeguata1
. Non sono mancati, poi, interventi adottati con atti regolatori non normativi che hanno introdotto innovazioni significative come la “detenzione aperta” e la “vigilanza dinamica”
A queste tre direttrici normative si è sovrapposta la copiosa attività dell Corte Costituzionale con numerose pronunce che fino a tutto il 2023, è intervenuta con ben 200 decisioni sul testo della legge del 1975, manifestando un attivismo giurisprudenziale più marcato rispetto ad altre importanti riforme degli anni Settanta. La giurisprudenza costituzionale concernente l’ordinamento penitenziario si è caratterizzata, soprattutto di recente, da un lato, per l’adozione di pronunce dal contenuto sostanzialmente regolamentare, dall’altro, per il discutibile rivolgersi direttamente a singoli organi amministrativi, peraltro neppure apicali, ai quali chiedere collaborazione nell’adozione degli indispensabili atti integrativi della regolamentazione introdotta con le proprie sentenze
Tra le problematiche sempre attuali del sistema carcerario, il sovraffollamento (unito alla cronica inadeguatezza delle strutture (nelle celle non c’è acqua calda, nelle sezioni non ci sono spazi dignitosi destinati alla socializzazione, non ci sono spazi dedicati alla consumazione dei pasti che avviene nella cella spesso sul letto dove si dorme, i servizi igienici inadeguati sono spesso a cielo aperto in un angolo della cella, la sanità è esclusivamente emergenziale non programmata carente e priva di prevenzione per cui in carcere si entra sani e si esce malati con patologie spesso trascurate e dove igiene e malattie virali sono incontrollati e incontrollabili) assume particolare rilievo. Le soluzioni possibili a questo annoso fenomeno si articolano tradizionalmente su due direttrici: la riduzione del numero dei detenuti attraverso interventi deflattivi, da un lato, l’adeguamento della capienza del sistema alle effettive esigenze, dall’altro. Si tratta di scelte che non attengono alla sfera tecnico-giuridica, ma a quella politica e ideologica.
L’esperienza italiana dimostra come queste grandi opzioni di politica criminale, che richiedono attenti bilanciamenti tra istanze di umanizzazione e garanzie di sicurezza collettiva, si siano alternate e non di rado mescolate nelle scelte del Legislatore.
Ma non ci si può limitare a questo: occorre guardare ad un altro orizzonte, che risiede nelle pieghe dell’art. 27 costituzione, ma si fatica ad accettare. Occorre pensare in modo concreto e coordinato ad una diversa e più matura declinazione delle pene.
Occorre semplificare e ridurre le fattispecie reato, pensare che la linea di demarcazione non più essere sempre e solo la punizione detentiva, ma immaginare pene e sanzioni differenti a seconda della tipologia di “rottura” delle regole ed all’inquadramento soggettivo del reo.
Insomma non è più conciliabile l’impianto di un codice penale fascista (del 1930) con l’idea di pena come rieducazione del dettato costituzionale (art. 27 cost. del 1946).
Il sistema penitenziario del futuro deve saper essere sempre più aperto e integrato con il territorio, volto a offrire percorsi individualizzati di reinserimento per i condannati che ne dimostrino la capacità e la volontà, ma contemporaneamente in grado di configurare il carcere quale luogo dove legalità e sicurezza rappresentano valori inderogabili. Solo attraverso questa sintesi sembra possibile realizzare l’obiettivo ultimo di ogni sistema penitenziario democratico: la composizione virtuosa tra rieducazione, credibilità dello Stato nell’esecuzione della pena e sicurezza collettiva.
Oggi assistiamo ad una sostanziale incapacità dovuta al mancato investimento di risorse. In personale, strutture, supporto. E poi una difficoltà di applicazione: spesso è stata vista come una sperimentazione ciò che doveva e deve essere la normalità.
La politica non è più propulsore di un avanzamento sociale, ma cerca solo il consenso elettorale con una accentuata politica sicuritaria usata come tranquillizzante sedativo sociale. Si governa con le paure, e si insegue il consenso in nome del quale si assecondano gli umori della piazza.