Sistema penitenziario italiano tra crisi sistemica e comparazione giuridica: un’analisi critica alla luce dei modelli europei e statunitensi

Sistema penitenziario italiano tra crisi sistemica e comparazione giuridica: un’analisi critica alla luce dei modelli europei e statunitensi
Il sistema penitenziario italiano si configura oggi come uno dei paradossi più inquietanti all’interno dello Stato costituzionale di diritto. Da un lato, l’ordinamento, fondato sulla legge 26 luglio 1975, n. 354 — nota come Ordinamento Penitenziario — si pone formalmente in armonia con i principi sanciti dalla Costituzione e con i parametri convenzionali europei, affermando con chiarezza la finalità rieducativa della pena ex art. 27, comma 3, Cost., e delineando un modello detentivo teoricamente rispettoso della dignità umana. Dall’altro lato, tuttavia, la realtà carceraria italiana restituisce il quadro di un sistema afflitto da criticità croniche, divenute strutturali e ormai non più giustificabili né sotto il profilo dell’eccezionalità né in termini di gestione emergenziale. Il sovraffollamento endemico degli istituti, le condizioni materiali frequentemente degradanti, la carenza delle misure alternative alla detenzione, la patologica estensione della custodia cautelare e la mancanza di efficaci percorsi trattamentali rappresentano non anomalie episodiche, bensì indicatori di un fallimento sistemico che interroga la tenuta complessiva del quadro normativo e la sua rispondenza al dettato costituzionale. In tal senso, il dato più significativo è rappresentato dal tasso di affollamento, che nel 2025 supera il 120% a livello nazionale, con punte particolarmente critiche in regioni quali Lombardia, Campania e Sicilia. Il numero dei detenuti si mantiene stabilmente superiore a 61.000 unità, a fronte di una capienza regolamentare inferiore a 51.000 posti, generando così una realtà carceraria che opera in palese violazione del principio di umanità della pena. Nonostante la normativa vigente preveda ampiamente le misure alternative alla detenzione — rafforzate dalle innovazioni introdotte dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (cd. riforma Cartabia) — il loro impiego rimane marginale e residuale, in evidente dissonanza rispetto alle sollecitazioni interpretative provenienti dalla Corte costituzionale e dalla Corte di Cassazione. Tale stato di cose è riconducibile sia a carenze strutturali nell’ambito dei servizi sociali, sia a un persistente atteggiamento di diffidenza della magistratura di sorveglianza e giudicante, spesso ancorata a una visione ancora sostanzialmente retributiva della sanzione penale. A questa dinamica si aggiunge un ricorso massiccio e sistematico alla custodia cautelare in carcere, che coinvolge oltre il 30% della popolazione detenuta, configurando una prassi lesiva del principio di eccezionalità sancito non solo dall’art. 13 Cost., ma altresì dall’art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’Italia continua, pertanto, a registrare un uso anticipatorio della pena, camuffato da esigenze cautelari, in palese violazione del principio di presunzione di innocenza, ormai consolidato dalla giurisprudenza europea e rafforzato dalla direttiva 2016/343/UE. In questo scenario interno, il confronto comparato con altri ordinamenti fornisce spunti imprescindibili di riflessione. In Germania, il tasso di detenzione si attesta stabilmente intorno a 75 detenuti ogni 100.000 abitanti, grazie a un sistema normativo che privilegia sanzioni pecuniarie, pene sostitutive e misure di probation, pienamente integrate in un impianto penale fondato sull’effettiva residualità della pena detentiva. La custodia cautelare è applicata con rigorosa parsimonia, mentre l’intero diritto penitenziario è funzionale al reinserimento sociale del condannato. In Francia, nonostante l’incremento della popolazione carceraria, si registra una tendenza istituzionale verso la deflazione penitenziaria, supportata da pronunce autorevoli del Conseil d’État e della Cour de Cassation, che hanno riaffermato l’inderogabilità del principio di dignità umana nella definizione delle condizioni detentive, sollecitando interventi legislativi tempestivi. Il confronto con i modelli europei e statunitensi mette in luce divergenze strutturali che trascendono la mera prassi amministrativa o organizzativa e affondano le radici nelle rispettive fonti normative e nei sistemi di garanzia sottesi. Sul versante europeo, il riferimento imprescindibile sono le Regole penitenziarie europee (European Prison Rules), adottate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nella Raccomandazione R(2006)2, aggiornate nel 2020. Esse delineano un catalogo dettagliato di standard minimi in tema di trattamento detentivo, condizioni materiali, rapporti con l’esterno, tutela della salute mentale, accesso alla giustizia e formazione del personale penitenziario, fondandosi su una solida base giuridica costituita dagli artt. 3, 5 e 8 CEDU, nonché sulla giurisprudenza evolutiva della Corte di Strasburgo che ha definito interpretazioni sostanziali dei concetti di “pena inumana” e “trattamento degradante”, come evidenziato in sentenze emblematiche quali Torreggiani, Mamedova e Ananyev c. Russia. Sul piano statunitense, il quadro normativo è dominato dal Prison Litigation Reform Act (PLRA) del 1996, un corpus legislativo federale che, lungi dal garantire diritti sostanziali ai detenuti, ha imposto numerosi ostacoli procedurali alla proposizione di azioni civili concernenti il trattamento carcerario, riducendo significativamente l’accesso al contenzioso e limitando il controllo giurisdizionale sulle condizioni detentive. Tale assetto, combinato con il Sentencing Reform Act del 1984 — che ha abolito la libertà condizionale nel sistema federale e introdotto pene minime obbligatorie — e con normative statali come le “Three Strikes Laws”, ha cristallizzato un modello incentrato sulla neutralizzazione sociale e sull’incapacitazione, del tutto estraneo al principio rieducativo. La giurisprudenza della U.S. Supreme Court, pur riconoscendo teoricamente la tutela contro trattamenti crudeli e inusuali ai sensi dell’Eighth Amendment, si è dimostrata largamente deferente nei confronti dell’amministrazione penitenziaria, riducendo drasticamente l’effettività delle tutele, come dimostrano i casi Farmer v. Brennan (1994) e Brown v. Plata (2011). Al contrario, nell’ordinamento italiano il principio rieducativo, scolpito in Costituzione, si declina in norme specifiche della legge penitenziaria e del codice di procedura penale, come gli artt. 47 e seguenti dell’Ordinamento penitenziario in materia di misure alternative e l’art. 275 c.p.p. che regola i criteri di applicazione della custodia cautelare. Tuttavia, la distanza tra il dettato normativo e la realtà applicativa permane abissale. In questa frattura si annida la contraddizione più profonda del sistema penitenziario italiano: disporre di una delle legislazioni più avanzate sotto il profilo dei principi, ma trovarsi fra le più arretrate nell’attuazione pratica. Proprio il confronto internazionale, se condotto senza retorica, evidenzia che la questione italiana non è l’assenza di diritto, bensì l’eccesso di inefficacia applicativa. Da ciò discende con chiarezza la necessità di un intervento riformatore organico, capace di superare la logica degli interventi settoriali e di affrontare la questione penitenziaria come nodo prioritario della politica del diritto. La revisione normativa deve articolarsi su direttrici imprescindibili: la depenalizzazione dei reati minori e la valorizzazione delle pene non detentive; l’introduzione di criteri più rigorosi per l’applicazione della custodia cautelare; il rafforzamento dei percorsi trattamentali e delle misure alternative; soprattutto, un investimento strutturale massiccio nell’infrastruttura materiale e nel capitale umano del sistema penitenziario. Non si tratta di una mera questione di legalità amministrativa, ma della tenuta stessa dell’ordinamento costituzionale. Il carcere non può più essere il contenitore residuale di tutte le inefficienze del sistema penale né il luogo in cui si consumi, silenziosamente, la sospensione quotidiana dei diritti fondamentali. Il trattamento penitenziario deve riconquistare centralità e coerenza con l’articolo 27 della Costituzione, ponendo al centro la persona detenuta non come mero soggetto passivo della sanzione, ma quale destinatario di un progetto di reinserimento sociale reale, misurabile e non aleatorio. In definitiva, il diritto penitenziario italiano necessita oggi non di una mera manutenzione normativa, bensì di una profonda rifondazione culturale che imponga al legislatore, alla magistratura e all’amministrazione penitenziaria di assumersi pienamente la responsabilità politica e giuridica di garantire una pena conforme alla Costituzione, alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e ai principi minimi delle Nazioni Unite sul trattamento dei detenuti. In gioco non è soltanto la condizione dei reclusi, ma la credibilità stessa dello Stato democratico di diritto. Un ordinamento che tollera il degrado delle proprie carceri accetta la marginalità come regola, la disumanità come possibile esito e la pena come mera vendetta. Una prospettiva, questa, incompatibile con la civiltà giuridica europea e non più accettabile.