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“Come cani ricacciati ogni volta al canile”: il carcere ai tempi di Mani Pulite nella lettera-testamento di Gabriele Cagliari

La presentazione di una nuova rubrica e l'ultima lettera di Gabriele Cagliari
Gabriele Cagliari
Gabriele Cagliari

“Come cani ricacciati ogni volta al canile”: il carcere ai tempi di Mani Pulite nella lettera-testamento di Gabriele Cagliari

 

Trent’anni fa l’inchiesta Mani Pulite scosse nelle fondamenta la società italiana e i suoi equilibri di potere. Nulla fu più come prima e molti suoi effetti sono ancora tra noi.

Filodiritto intende partecipare al dibattito sul significato della stagione giudiziaria e sociale che ne derivò.

Lo fa, anzitutto, con il varo della nuova rubrica “Mani Pulite, ieri e oggi”, affidata alla curatela di Vincenzo Giglio, Riccardo Radi e Antonio Zama, destinata ad accogliere riflessioni giuridiche e di costume ma al tempo stessa attenta alle conseguenze che l’esercizio del potere punitivo statuale provocò agli inizi degli anni Novanta e provoca ancora adesso nei destini degli individui che lo subiscono.

Seguiranno a breve ulteriori iniziative tra le quali si segnalano la pubblicazione imminente di un saggio su Mani Pulite e un ciclo di dirette su Filodiritto Live per l’approfondimento con ospiti autorevoli  di temi specifici di grande interesse.

Proprio per sottolineare la specifica attenzione di cui si è detto alla condizione degli esseri umani chiamati a rispondere di accuse in sede penale, la rubrica esordisce con la pubblicazione della lettera che Gabriele Cagliari, presidente dell’ENI, incarcerato il 9 marzo 1993 in esecuzione di un’ordinanza del GIP di Milano, scrisse ai suoi familiari prima di togliersi la vita il 20 luglio di quello stesso anno all’interno del carcere di San Vittore.

La lettera fu ampiamente diffusa dalla stampa ed è tuttora facilmente accessibile.

Tra le fonti per il suo reperimento si indica in particolare il sito Gabrielecagliari.it curato dal figlio, architetto Stefano Cagliari, cui si deve anche la pubblicazione del libro “Storia di mio padre”, edito da Longanesi nel 2018 nella collana Nuovo Cammeo, a cura di Costanza Rizzacasa d’Orsogna e con la prefazione di Gherardo Colombo.

Nonostante la notorietà della lettera, Filodiritto ha ritenuto comunque doveroso consultare preventivamente Stefano Cagliari, ne ha ottenuto l’assenso alla pubblicazione e lo ringrazia per questo.

Le parole che Gabriele Cagliari indirizzò ai suoi cari per prepararli al suo gesto finale e spiegarne il senso hanno un valore che va ben oltre il forte impatto emotivo che sono in grado di suscitare in ogni lettore.

Sono la testimonianza lucida della condizione estrema in cui versa un individuo che, trovandosi esposto a gravi accuse penali, sente che il suo destino è già segnato irrimediabilmente, che ciò che ha da dire non interessa ad alcuno, che qualunque sua difesa sarebbe ignorata.

Esprimono il dramma di chi pensa di essere sottoposto ad un potere sciolto da ogni regola e capace di annientare chiunque desideri e si convince che l’unica resistenza possibile sia togliersi la vita per sottrarla all’arbitrio di chi può e vuole disporne a suo piacimento.

Si è detto fin troppo ed è il momento di fare spazio ad un documento dal quale non si può prescindere ove si voglia comprendere Mani Pulite nella sua complessità.
 

Mani Pulite: la lettera testamento di Gabriele Cagliari

«Miei carissimi Bruna, Stefano, Silvano, Francesco, Chiti; sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore.
Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna.
La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica.
La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto. Ci trattano, veramente, come non persone, come cani ricacciati ogni volta al canile. Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto. Tutto quanto mi viene contestato non corre alcun pericolo di essere rifatto, né le prove relative a questi fatti possono essere inquinate in quanto non ho più alcun potere di fare né di decidere, né ho alcun documento che possa essere alterato.

Neppure potrei fuggire senza passaporto, senza carta di identità e comunque assiduamente controllato come costoro usano fare. Per di più ho sessantasette anni e la legge richiede che sussistano oggettive circostanze di eccezionale gravità e pericolosità per trattenermi in condizioni tanto degradanti. Ma, come sapete, i motivi di questo infierire sono ben altri e ci vengono anche ripetutamente detti dagli stessi magistrati, se pure con il divieto assoluto di essere messi a verbale, come invece si dovrebbe regolarmente fare.

L’obiettivo di questi magistrati, quelli della Provincia di Milano in modo particolare, è quello di costringere ciascuno di noi a rompere, definitivamente e irrevocabilmente, con quello che loro chiamano il nostro “ambiente”. Ciascuno di noi, già compromesso nella propria dignità agli occhi dell’opinione pubblica per il solo fatto di essere inquisito o, peggio, essere stato arrestato, deve adottare un atteggiamento di “collaborazione” che consiste in tradimenti e delazioni che lo rendano infido, inattendibile, inaffidabile: che diventi cioè quello che loro stessi chiamano un “infame”. 

Secondo questi magistrati, ad ognuno di noi deve dunque essere precluso ogni futuro, quindi la vita, la famiglia, gli amici, i colleghi, le conoscenze locali e internazionali, gli interessi sui quali loro e i loro complici intendono mettere le mani. Già molti sostengono, infatti, che agli inquisiti come me dovrà essere interdetta ogni possibilità di lavoro non solo nell’amministrazione pubblica o para-pubblica, ma anche nelle amministrazioni delle aziende private, come si fa a volte per i falliti. Si vuole insomma creare una massa di morti civili, disperati e perseguitati, proprio come sta facendo l’altro complice infame della magistratura che è il sistema carcerario.

La convinzione che mi sono fatto è che i magistrati considerano il carcere nient’altro che uno strumento di lavoro, di tortura, psicologica, dove le pratiche possono venire a maturazione o ammuffire, indifferentemente, anche se si tratta della pelle della gente. Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza testa né anima. Qui dentro ciascuno è abbandonato a se stesso, nell’ignoranza coltivata e imposta dei propri diritti, custodito nell’inattività e nell’ignavia; la gente impigrisce, istupidisce, si degrada e si dispera diventando inevitabilmente un ulteriore moltiplicatore di malavita.

Come dicevo, siamo cani in un canile dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la sua propria esercitazione e dimostrazione che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima, o alcune ore prima. Anche tra loro c’è la stessa competizione o sopraffazione che vige nel mercato, con la differenza che, in questo caso, il gioco è fatto sulla pelle della gente. Non è dunque possibile accettare il loro giudizio, qualunque esso sia.

Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità.
Io non ci voglio essere. Hanno distrutto la dignità dell’intera categoria degli avvocati penalisti, ormai incapaci di dibattere e di reagire alle continue violazioni del nostro fondamentale diritto di essere inquisiti, e giudicati poi, in accordo con le leggi della Repubblica. Non sono soltanto gli avvocati, i sacerdoti laici della società, a perdere questa guerra; ma è l’intera nazione che ne soffrirà le conseguenze per molto tempo a venire.

Già oggi i processi, e non solo a Milano, sono farse tragiche, allucinanti, con pene smisurate, comminate da giudici che a malapena conoscono il caso, sonnecchiando o addirittura dormendo durante le udienze per poi decidere in cinque minuti di camera di consiglio. Non parliamo poi dei tribunali della libertà, asserviti anche loro ai pubblici ministeri, né dei tribunali di sorveglianza che infieriscono sui detenuti condannati con il cinismo dei peggiori burocrati e ne calpestano continuamente i diritti.

L’accelerazione dei processi, invocata e favorita dal ministro Conso, non è altro che la sostanziale istituzionalizzazione dei tribunali speciali del regime di polizia prossimo venturo. Quei pochi di noi caduti nelle mani di questa “giustizia” rischiano di essere i capri espiatori della tragedia nazionale generata da questa rivoluzione.

Io sono convinto di dover rifiutare questo ruolo. È una decisione che prendo in tutta lucidità e coscienza, con la certezza di fare una cosa giusta. Le responsabilità per colpe che posso avere commesso sono esclusivamente mie e, mie, sono le conseguenze.

Esiste certamente il pericolo che molti altri possano attribuirmi colpe non mie quando non potrò più difendermi.
Affidatevi alla mia coscienza, in questo momento di verità totale, per difendere e conservare sul mio nome la dignità che gli spetta.

Sento di essere stato, prima di tutto, un marito e un padre di famiglia, poi un lavoratore impegnato e onesto che ha cercato di portare un po’ più avanti il nostro nome e che, per la sua piccolissima parte, ha contribuito a portare più in alto questo Paese nella considerazione del mondo. Non lasciamo sporcare questa immagine da nessuna “mano pulita”. Questo vi chiedo, nel chiedere il vostro perdono con questo addio, con il quale vi lascio per sempre. Non ho molto altro da dirvi, poiché in questi lunghissimi mesi di lontananza ci siamo parlati con tante lettere, ci siamo tenuti vicini. Salvo che a Bruna, alla quale devo tutto. Vorrei parlarti, Bruna, all’infinito per tutte le ore e i giorni che ho taciuto, preso da problemi inesistenti e che alla fine mi hanno fatto arrivare qui. Ma in questo tragico momento cosa ti posso dire, Bruna, anima della mia anima, che lascio con impagabile debito di assiduità, di incontri sempre rimandati, fino a questi ultimi giorni che avevamo pattuito essere migliaia e migliaia da passare insieme, io e te, in ogni posto e che invece, qui, sto riducendo ad un solo sospiro?
Concludo con una vita vissuta di corsa, in affanno, rimandando veramente cose veramente importanti, la vita vera, per farne altre, lontane come miraggi e, alla fine, inutili. Anche su questo, soprattutto su questo, ho riflettuto a lungo, concludendo che solo così avremo finalmente pace.

Ho la certezza che la tua grande forza d’animo, i nostri figli, il nostro nipotino, ti aiuteranno a vivere con serenità e a ricordarmi, perdonato da voi per questo brusco addio. Non riesco a dirti altro: il pensiero di non vederti più, il rimorso di aver distrutto gli anni più sereni, come dovevano essere i nostri futuri, mi chiude la gola. Penso ai nostri ragazzi, la nostra parte più bella e penso con serenità al loro futuro. Mi sembra che abbiano una strada tracciata davanti a sé. Sarà una strada difficile, in salita, come sono tutte le cose di questo mondo; dure e piene di ostacoli.

Sono certo che ciascuno l’affronterà con impegno e con grande serenità come l’ha già fatto Stefano e come sta facendo anche Silvana. Si dovranno aiutare l’un con l’altro come spero stiano facendo, secondo quanto abbiamo discusso più volte in questi ultimi mesi, scrivendoci lettere affettuose.
Stefano resta con un peso più grave sul cuore per essere improvvisamente rimasto privato della nostra carissima Mariarosa. Al dolcissimo Francesco, piccolino senza mamma, daremo tutto il calore del nostro affetto e voi gli darete anche il mio, quella parte serena che vi lascio per lui.

Le mie sorelle, una più brava dell’altra in una sequenza senza fine, con le loro bravissime figliole, con Giulio e Claudio, sono le altre persone care che lascio con tanta tristezza.
Carissime Giuliana e Lella, a questo punto cruciale della mia vita non ho saputo fare altro, non ho trovato altra soluzione.

Ricordo Sergio e la sua famiglia con tanto affetto, ricordo i miei cugini di Guastalla, i C. [si indica solo l’iniziale del cognome che nel testo originale è riportato per intero, Nda] e i loro figli. Da tutti ho avuto qualcosa di valore, qualcosa di importante, come l'affetto, la simpatia, l’amicizia. A tutti lascio il ricordo di me che vorrei non fosse quello di una scheggia che improvvisamente sparisce senza una ragione, come se fosse impazzita. Non è così, questo è un addio al quale ho pensato e ripensato con lucidità, chiarezza e determinazione.

Non ho alternative. Desidero essere cremato e che Bruna, la mia compagna di ogni momento triste e felice, conservi le ceneri fino alla morte. Dopo di che siano sparse in qualunque mare.
Addio mia dolcissima sposa e compagna, Bruna, addio per sempre. Addio Stefano, Silvano, Giuliana, addio. Addio a tutti. Miei carissimi, vi abbraccio tutti insieme, per l’ultima volta.
Il vostro sposo, papà, nonno, fratello».