Non dire gatto

Gatto
Ph. Fiorenza Cirillo / Gatto

Non dire gatto

Lui sapeva che quel giorno sarei passata di là, oh, se lo sapeva!

L’aveva fatto apposta a farsi trovare, quella tarda mattinata di giugno, in mezzo alla strada lungo la quale camminavo abitualmente. Sapeva bene che non avrei potuto ignorarlo, così piccolo e indifeso … come avrei potuto?

Nel mio palmo già si era accoccolato, come se avesse le idee chiare su quel che sarebbe stato. E sì che non lo volevo, io, un gatto. Non l’ho mai voluto. Ho sempre preferito i cani, così simpatici e fedeli, obbedienti e festosi. Ma lui, lui le aveva studiate tutte, quel giorno di giugno, quella calda mattinata di giugno, per far breccia nel mio cuore.

Un cuore avvizzito, senza pietà, un cuore incrostato d’orgoglio.

Si era aggrappato con un filo di forza e nemmeno ce la faceva a cingermi tutto il polso. Troppo corte quelle zampette nere, troppo deboli. Si era affidato a me come ci si affida alla vita quando ci si crede. Mi stava educando “Con tutte le cose che ho da fare, io, con tutti i pensieri che ho, io, con tutta la rabbia che ho, io” pensai.

È suo, signora?” dissi guardando speranzosa una vulnerabile vecchietta che, a passi lenti, si muoveva sul marciapiede lì vicino.

“Oh, no, scherzi, tesoro… io non potrei avere un animaletto ora, in queste condizioni, sono sempre in spedale per le cure, ma, ascoltami cara, quando trovi un cucciolo così è un dono prezioso del Cielo! Credimi!”

“Sii, certo, se fosse così prezioso lo vorrebbe lei!” Pensai, stizzita da quel vaticinio non richiesto. Cercai di trovare altri umani, ma anche il muratore curioso mi disse che no, suo non era.

Feci ancora qualche passo e più camminavo e più si stringeva, certo e fiducioso con il muso nascosto tra il braccio e la mia vita.

Chiamai mia sorella, gattara convinta. Un grido di giubilo insopportabile mi ferì l’orecchio. La faceva facile lei. Per me era tutta un’altra cosa. Cercai velocemente un ente, qualcuno, qualcosa insomma che si prendesse quel maledetto gatto. Niente.

Arrivai a casa, lo mollai a terra in cerca di una ciotola per abbeverarlo. Stava in piedi a stento, l’andatura tremolante, il miagolio flebile e lontano. Aveva il pelo nero, fitto e lungo come i gatti delle streghe, gli occhi scintillanti e buoni. Ci conquistò. D’altronde, l’aveva fatto apposta lui a essere così tenero quella mattina di giugno.

Né io né le mie figlie pensammo ad altro quel giorno, la sera ci trovammo sopraffatte dalla tenerezza e non succedeva da tanto, troppo tempo.

Come la volpe del Piccolo Principe, ci stava addomesticando. Era arrivato da un’altra galassia per farci sollevare il capo oltre il nostro ombelico e farci fare memoria della tenerezza senza la quale tutto è arido e grazie alla quale tutto è perdonato.

Fiorenza Cirillo