Girolamo Trinchetti o il cuore della terra
Girolamo Trinchetti o il cuore della terra
Aperta la porta, un misto tra chimico e medicinale penetrava le narici, nessun odore come quello della naftalina poteva irritarti il naso a quel modo; un dolciastro pungente che ti catapultava la memoria in vecchi armadi, bauli, tessuti conservati a lungo con una cura maniacale, ma senza buongusto.
L’arredo ricordava una di quelle vecchie immagini fissate dalle polaroid, perfino le piante parevano ferme agli anni Settanta, le foglie lucide denunciavano l’utilizzo di un prodotto che mescolava le sue note alle altre, collaborando a fissare ogni cosa lì dov’era, come fosse una pozione magica: il tappeto con le sfere arancioni e marroni intersecate tra loro, le stampe di Kandinskij, i volumi della Treccani, il Pc della Olivetti, lo scrittoio e pure il signor Trinchetti.
Girolamo passava la maggior parte del tempo in quell’acquario e le carte che maneggiava erano tantissime, tutte impilate perfettamente secondo un ordine a lui congeniale. La porzione centrale della sua testa era ben pelata e lucida, abbracciata da due ali di capelli curati e regolati alla misura di due centimetri e mezzo. Gli occhiali fondi rendevano i suoi occhi minuscoli al punto che non si sarebbe potuto dire se fossero marroni o addirittura verdi, la montatura infatti attirava l’attenzione e sviava dall’indagine sul colore dell’iride.
Quel giorno aveva indossato la cravatta di pelle sottile, un regalo della laurea di circa 40 anni prima e si accingeva a esaminare le tasse e i pagamenti dei suoi clienti. Per tutti quegli anni aveva calcolato minuziosamente costi, ricavi e tutto ciò che concerneva la vita economica dei suoi clienti che esaltavano la sua precisione e dedizione al lavoro istigandolo a perseverare in quei calcoli laboriosi fino a tarda serata. Non aveva spazio per altro, fino a cinque anni prima si era preso cura della madre e ora che lei non c’era più, si portava talvolta il lavoro a casa per sentirsi meno solo. Viveva in attesa di una sorta di ricompensa divina o almeno sociale, per la sua abnegazione e il lavoro solerte, al punto che, di tanto in tanto, si trovava a fantasticare ad occhi aperti una premiazione ufficiale davanti ai suoi concittadini che lo avrebbero elogiato per cotanta moralità e spirito di servizio.
La sera era davvero difficile però perché la stanchezza si faceva sentire e con essa la vaghezza di qualcosa. Aveva accumulato circa 633 mila euro e soffriva all’idea di non raggiungere un patrimonio di 700 mila tondi, visto che quell’anno, a settembre, sarebbe andato in pensione. Odiava i numeri imprecisi, voleva arrotondare a tutti i costi. Con quei soldi avrebbe goduto di una pensione meravigliosa.
Aveva concentrato l’attenzione di quegli ultimi mesi di lavoro sui 67 mila euro mancanti e proprio a quella mancanza aveva attribuito il senso di spaesamento che luna dopo luna lo assaliva.
Quel giorno aveva acceso il pc per controllare le e-mail di routine e la sua attenzione era stata fagocitata dall’accoglimento della domanda di pensionamento e dal documento che perfezionava le informazioni economiche sul suo futuro da settembre in poi.
Si trovò inerte sulla sedia, bastonato. Nemmeno una marcia trionfale tra gli uffici, lo avrebbe tirato su di morale e quel senso di disagio si impossessò di lui.
“È per quei maledetti 67 mila!” disse tra sé cercando di rimettersi in sesto e si diede a lavorare con una dovizia e una precisione tale da trovarsi di colpo a fine giornata.
In procinto di tornare a casa, quel fastidio non passava; si fermò fuori dall’edificio e alzò gli occhi: quante persone indaffarate e no, quanti ragazzi vestiti in modo inverosimile, quante luci avvincenti e quanti suoni variopinti! E lui? Lui era sperduto, completamente sperduto.
Non c’era nemmeno sua madre.
Accelerò il passo e si chiuse in casa come un fuggitivo, cercava il suo centro, ma nemmeno i numeri gli venivano incontro. Pensò dunque di chiamare qualcuno, ma gli venivano in mente nomi di contabili scuri e privi di qualunque empatia. Preso dallo sconforto, cominciò a parlare ad alta voce, ma gli mancavano le parole per raccontarsi, uscivano da quella bocca delle mezze frasi strozzate, parole in aria che cadevano a terra e bucavano il pavimento.
Udì chiaramente il cuore battergli forte, un panico indecifrabile lo avvolse, era un terremoto quello che ora gli faceva scuotere tutti gli arti, una diga che aveva rotto gli argini, potente e devastante, aveva paura.
Come un pazzo si mise a leggere i titoli dei libri che aveva in salotto, cercava parole per sé, aveva bisogno di decifrare, di discernere lo tsunami dentro, ma c’erano solo manuali e codici, raccolte documentarie. Tirò fuori tutto con una rabbia inaudita, finché gli capitò tra le mani un vecchio manuale delle superiori, era quello che stava cercando. Con le dita sottili e abituate al carteggio si trovò a sfogliare tutte quelle pagine con una velocità straordinaria, mentre la memoria lo riportava a quando suo padre lo aveva sorpreso a scrivere poesie: “Queste, caro mio, sono carta straccia! I soldi queste non te li danno! E tu, ai soldi devi pensare!”
Trovò infine quel che cercava. C’era un segnalibro fatto con un filo da cucito di sua madre che raccomandava quella pagina. Si mise a gambe incrociate sul tappeto e lesse ad alta voce:
“Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.»
Un senso di impotenza e di resa lo stava accompagnando verso un’impetuosa liberazione e sentì nelle vene tutta la speranza del cuore della terra.
Fiorenza Cirillo