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L'imputabilità dell'infrattore minorenne nel Diritto Penale italiano

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L'imputabilità dell'infrattore minorenne nel Diritto Penale italiano

 

L'imputabilità

Ex Art. 97 CP, a prescindere dal concreto grado di maturità, “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni”. Come evidenziato da Bettiol (1986)[1], l'Art. 97 CP configura una regola “assoluta”, ovverosia “siamo di fronte ad una presunzione juris et de jure, in quanto il giudice, quando abbia constatato la minore età dell'imputato, non può sostituire alla volontà del Legislatore un proprio convincimento positivo in merito alla presenza dell'imputabilità”. Dunque, la norma qui in parola gode di precettività anche nei confronti dei non infrequenti casi di maturità precoce. In ogni caso, il limite degli anni quattordici è quasi unanimemente condiviso da tutta la Dottrina penalistica europea. In effetti, Bettiol (ibidem)[2] specifica che “senza dubbio, può capitare che, in certi casi, la presunzione di non imputabilità prevista dall'Art. 97 CP risulti gravosa perché in contrasto con la realtà naturalistica, ma, giuridicamente, non vi è nulla da fare: tanto più elevato è il limite di età al quale si vuole riferire l'incapacità, tanto più è gravosa la presunzione”.

P.e., l'esperienza quotidiana insegna che l'infra-14enne rom possiede già un elevato grado di maturazione caratteriale; ciononostante, l'Art. 97 CP è e rimane inderogabile. Oppure ancora, si ponga mente alla fattispecie della precocità psicofisica di certune adolescenti infra-14enni di sesso femminile; anche in tale evenienza, tuttavia, la soglia dei 14 anni risulta insindacabile da parte del Magistrato. Del pari, in Giurisprudenza, Cass., 29 novembre 1983 sostiene che “la presunzione di non colpevolezza dell'Art. 97 Cp è insuperabile nei confronti di chi non abbia ancora 14 anni, quindi non possono essere adottate nei suoi confronti misure penali che implichino un addebito di responsabilità; se, per ipotesi, ciò accadesse e venisse pronunciata una condanna a carico di un infra-14enne, la Sentenza dovrebbe considerarsi inesistente, e tale inesistenza, secondo la Giurisprudenza prevalente, può essere rilevata anche dal giudice dell'esecuzione”.

Tuttavia, l'infra-14enne prosciolto ex Art. 97 CP, se riconosciuto socialmente pericoloso, può essere sottoposto ad una misura di sicurezza. Infatti, ex comma 1 Art. 224 CP, “qualora il fatto commesso da un minore degli anni quattordici sia previsto dalla legge come delitto, ed egli sia pericoloso, il giudice, tenuto specialmente conto della gravità del fatto e delle condizioni morali della famiglia in cui il minore è vissuto, ordina che questi sia ricoverato nel riformatorio giudiziario o posto in libertà vigilata”. Tuttavia, la predetta “pericolosità sociale” dell'infra-14enne va accertata nel concreto, e non semplicemente presunta in maniera indiretta. Tale è il parere di Consulta 1/1971 (richiamata da Consulta nn. 139/1982 e 249/1983), ovverosia “il giudice dell'esecuzione deve sempre valutare in concreto la persistenza della pericolosità sociale al momento dell'applicazione di una misura a contenuto psichiatrico, anche oltre il primo accertamento giudiziario”. Del pari, in Dottrina, Palomba (1989)[3] ha rimarcato che l'accertamento della pericolosità antisociale ed antigiuridica del minorenne va accuratamente acclarata a seconda dello specifico caso in esame, in tanto in quanto non deve sussistere un pericolo meramente ed implicitamente presunto. Donde, l'importanza basilare della perizia psico-patologico-forense di un CTU. Siffatta è pure la ratio dell'Art. 31 L. 663/1986. Anzi, nel nuovo Diritto Penale Minorile, il comma 2 Art. 37 DPR 448/1988 ha ribadito la centralità dell'Art. 203 CP (“agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell'Articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti previsti dalla legge come reati. La qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell'Art. 133 CP”).

Fondamentale è pure l'Art. 98 CP, ai sensi del quale, nel comma 1, “è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d'intendere e di volere; ma la pena è diminuita”. Di nuovo, il comma 1 Art. 98 CP invita il Magistrato a “contestualizzare” la singola fattispecie criminosa e a rifuggire da generalizzazioni e presunzioni, giacché, nella fascia d'età tra i 14 ed i 17 anni, il grado di “maturità” varia assai da soggetto a soggetto. A tal proposito, nella seconda metà del Novecento, Russo Parrino (1953)[4] ha affermato che “alla base di questa scelta [ex comma 1 Art. 98 CP] vi è la consapevolezza che, tra i 14 ed i 18 anni, vi può essere la capacità d'intendere e di volere necessaria per essere considerati penalmente responsabili delle proprie azioni, come vi può non essere – indipendentemente da patologie giuridicamente rilevanti – dato che si tratta di una fascia d'età in cui i soggetti raggiungono la maturità richiesta ai fini penali in momenti diversi, a causa delle multiformi varietà ambientali in cui si svolge tale processo di maturazione”.

Dal canto suo, in epoca più recente, Pazè (1982)[5] ha ribadito la necessità di concretizzare il comma 1 Art. 98 CP nella specifica fattispecie giudicanda, “perché la legge ha stabilito uno stato di incertezza [ex comma 1 Art. 98 CP] che il giudice deve risolvere caso per caso, senza propendere per una soluzione anziché per l'altra”. Questa necessità di valutare il minorenne ultra-13enne “contestualizzando” è ribadita pure dalla Suprema Corte, come dimostrano i Precedenti di legittimità contenuti in  Cass., 11 gennaio 1988, Cass., 14 novembre 1984 e Cass., 15 gennaio 1982. In effetti, a differenza di quanto accade per l'Art. 97 CP, il successivo comma 1 Art. 98 CP impone la valutazione della “capacità d'intendere e di volere” di ciascun singolo infrattore minorenne dai 14 ai 17 anni d'età. Come sempre, la Corte di Cassazione esorta il Magistrato a non prescindere da quei “condizionamenti” oggettivi e soggettivi di cui ai commi 1 e 2 Art. 133 CP. La Suprema Corte, d'altra parte, ha sempre rifuggito qualunque automatismo normativo che riduca il giudice ad un mero calcolatore elettronico privo di una debita funzione contestualizzatoria. La valutazione della gravità del reato non è una formula matematica; donde il carattere essenziale dei parametri ex Art. 133 CP.

D'altra parte, anche nei lavori Preparatori del 1930 all'Art. 98 CP, si legge che “il sistema prescelto dal nuovo Codice non stabilisce alcuna presunzione, ma esige solamente che il minorenne [ultra-13enne] abbia raggiunto una maturità tale da poterglisi riconoscere la capacità di intendere e di volere […]. [A differenza di quanto disposto nell'Art. 97 CP] non vi è presunzione né di capacità né di incapacità; ma spetta al giudice convincersi della capacità o della incapacità dei singoli soggetti. Il Magistrato, quindi, non è costretto a condannare se l'incapacità non è provata [...] ma egli può liberamente ritenere, in base al proprio convincimento, non capace l'individuo, anche se non sia stata fornita la prova dell'incapacità”. Analogo è pure il parere di Cass., 28 febbraio 1962, nel senso che “se si esclude [nel comma 1 Art. 98 CP] ogni presunzione, la conseguenza più immediata è che dovrà necessariamente intervenire, di volta in volta, l'accertamento in concreto della capacità d'intendere e di volere.

La Giurisprudenza, in linea con quanto appena detto, ha sempre espresso tale principio, affermando che l'Art. 98 CP, nella sua formulazione, non stabilisce [a differenza dell'Art. 97 CP, ndr] alcuna presunzione né di capacità né di incapacità, spettando al giudice di accertare, in concreto, se sussista nel minore […] il grado di sviluppo psichico ed etico che è il necessario presupposto dell'imputabilità”. Ecco di nuovo, in Cass., 28 febbraio 1962, la ratio giurisprudenziale della “contestualizzazione” della maturità dell'infra-18enne maggiore degli anni 13. Similmente, sempre nella Giurisprudenza di legittimità, Cass., 4 marzo 1966 ribadisce che “[nell'Art. 98 CP] la capacità d'intendere e di volere non si presume, ma deve essere […] accertata caso per caso, attraverso l'esame del soggetto”. Dunque, anche Cass., 4 marzo 1966 riconosce, nel comma 1 Art. 98 CP,  la priorità empirica delle valutazioni psico-patologico-forensi. L'analisi criminologica dell'ultra-13enne diviene insostituibile e necessaria.

Anzi, nella Legislazione italiana, anche prima del Codice Rocco, la ratio legislativa è sempre stata simile a quella attualmente espressa nell'Art. 98 CP; dunque, in buona sostanza, il Magistrato è sempre tenuto ad accertare il grado concreto di “maturità” del minorenne ultra-13enne. Tant'è che la Giurisprudenza della Cassazione reputa nulla una Sentenza di merito in cui il giudice non abbia adeguatamente provveduto ad analizzare il carattere ed il livello della capacità d'intendere e di volere del/della ragazzo/a infrattore. In effetti, nei Lavori Preparatori del 1930 all'Art. 98 CP, il Legislatore specifica che “il progetto [del Codice Rocco] mantiene la distinzione fondamentale sull'imputabilità dei minori, tra il periodo nel quale il minore dev'essere considerato assolutamente incapace [ex Art. 97 CP] […] ed il periodo nel quale l'imputabilità è subordinata alla prova che il minore abbia la capacità d'intendere e di volere [ex Art. 98 CP]”.

In ogni caso, tanto il Legislatore quanto la Suprema Corte, nel caso dell'Art. 98 CP, costantemente richiedono che sia provato il grado di sviluppo in ciascuna singola fattispecie concreta, in tanto in quanto ogni minorenne ultra-13enne reca un proprio personale livello di “capacità d'intendere e di volere”. All'opposto, ex Art. 97 CP, l'infra-14enne è presuntivamente immaturo, dunque assolutamente non imputabile. Del pari, in Dottrina, con afferenza all'Art. 98 CP, Barcellona (1973)[6] asserisce che “un'indagine [psico-patologico-forense] dev'essere pur sempre effettuata”, poiché ciascun minore dai 14 ai 17 anni d'età reca una propria configurazione mentale e caratteriale. Non possono sussistere giudizi standardizzati durante l'età dell'adolescenza, mentre, con attinenza all'età infantile, si presume la totale assenza di maturità psichica, il che apre le porte alla non punibilità, fatte salve le misure di sicurezza in caso di pericolosità sociale. Ciò, in Dottrina, è ribadito da Barsotti & Calcagno & Losana & Vercellone (1975)[7], i quali ripetono la necessità di una perizia psichiatrica per la fattispecie dei rei con un'età compresa tra i 14 ed i 17 anni d'età; pena, la non validità precettiva della Sentenza.

 

La ratio della “maturità”

Nell'Art. 98 CP, i lemmi “capacità d'intendere e di volere” sono sintetizzabili nella ratio della “maturità”, raggiunta, o meno, dal minorenne ultra-13enne. Tuttavia, è utile precisare che la nozione di “maturità” è, eminentemente, una costruzione interpretativa della Dottrina e della Giurisprudenza, mentre il Legislatore ha preferito, negli Anni Trenta del Novecento, i concetti di “intenzione” e di “volizione”. In secondo luogo, da notare è pure che il Codice Rocco, nel caso dell'infrattore dai 14 ai 17 anni d'età, ha utilizzato, come per il maggiorenne, il parametro della “capacità d'intendere e di volere”, mentre il precedente Codice Zanardelli impiegava la ratio del “discernimento”, qualificata da Rocco, nei Lavori Preparatori, come “un elemento impreciso, incerto e vago, al punto di fornire argomento a molte discussioni, per fissarne il contenuto e l'estensione”. Siffatta opinione è condivisa pure da Ponti & Gallina Fiorentini (1983)[8], a parere dei quali “la capacità d'intendere e di volere è una formula più chiara, meno nebulosa e maggiormente ancorata a parametri più oggettivi e più scientifici, in quanto non legata ad apprezzamenti etico-intuitivi, ma alla fenomenologia psichica”. Ciononostante, la nuova chiarezza ermeneutica ha avuto vita breve, in tanto in quanto, come asserito sempre da Ponti & Gallina Fiorentini (ibidem)[9], “nonostante le buone intenzioni, la Giurisprudenza e la Dottrina, individuando, nel concetto di maturità il contenuto della capacità d'intendere e di volere, hanno, di fatto, riportato la situazione nella stessa indeterminatezza, rivelandosi tale termine [ossia quello di maturità, ndr] altrettanto vago ed impreciso quanto il discernimento [del Codice Zanardelli]”.

Provvidenzialmente, ma talvolta anche confusamente, la Giurisprudenza, specialmente quella di legittimità, ha circostanziato i lemmi “individuo maturo”. A tal proposito, in Dottrina, Ponti & Gallina Fiorentini (ibidem)[10] offrono una sintesi catalogica abbastanza apprezzabile, ovverosia la “maturità” viene giurisprudenzialmente intesa come “armonico sviluppo della personalità, sviluppo intellettivo adeguato all'età, capacità di valutare adeguatamente i motivi degli stimoli a delinquere, comprensione del valore morale della propria condotta, capacità di soppesare le conseguenze dannose del proprio operato per sé e per gli altri, forza del carattere, comprensione dell'importanza di certi valori, dominio acquisito su se stessi, attitudine a distinguere il bene dal male, l'onesto dal disonesto, il lecito dall'illecito, unità funzionale delle unità psichiche, loro normale sviluppo rispetto all'età, capacità di elaborare i comportamenti umani a livello della coscienza, capacità di percepire criticamente il contenuto etico di un atto e di correlarlo al contesto dei rapporti e degli interessi socialmente protetti, capacità di volere i propri atti come risultato di una scelta consapevole, attitudine a far entrare nel proprio patrimonio di cognizioni e di esperienze il concetto della violazione, assimilazione delle regole morali e sociali in base ad un'autentica convinzione e non per un processo di imitazione formale”. Il lungo elenco or ora riportato contiene le principali definizioni della Giurisprudenza in merito al lemma “maturità”, dagli Anni Trenta del Novecento a tutt'oggi.

Assai interessanti sono pure le qualificazioni del lemma “maturità” nella Giurisprudenza di merito, ove, di solito, la scientificità tecnica prende il posto della vuota retorica. P.e., Tribunale per i minorenni di Torino, 24 febbraio 1978 asserisce che “vanno assolti, perché non imputabili, i minori [ultra-13enni] non ancora 18-enni affetti da carenze della struttura e della dinamica della personalità (con difficoltà di autocontrollo, ritardo mentale, aggressività collegata a sindrome abbandonica precoce e lunga istituzionalizzazione)”. Degna di menzione è, inoltre, Tribunale per i minorenni di Firenze, 4 giugno 1975, in cui la “non maturità” viene fatta coincidere con “un'estrema instabilità psicoaffettiva, una crisi del senso d'identità personale, un'estrema ambivalenza delle manifestazioni comportamentali ed un'estrema fragilità e labilità dell'Io”. Merita una citazione, del pari, Tribunale per i minorenni di Roma, 31 ottobre 1974, ove si postula che “l'Art. 98 CP esige che, al momento del fatto, non sia stata scissa l'unità funzionale delle facoltà psichiche del soggetto e che tali facoltà siano state integre nel dinamismo dell'azione”.

Anzi, Tribunale per i minorenni di Roma, 31 ottobre 1974, a proposito del grado di maturità culturale dell'infra-18enne, stabilisce che “l'intelligenza [tecnico-culturale] non basta, essendo l'intelligenza soltanto uno dei mezzi per il raggiungimento della capacità di intendere. L'intelligenza è la facoltà per cui si comprendono le conseguenze meccaniche dei propri atti, ovvero il rapporto causa-effetto nella sua materialità. Invece, la capacità d'intendere significa anche la possibilità di elaborare i comportamenti umani a livello della coscienza, ossia a quel livello che consente di percepire criticamente il contenuto etico di un atto e di correlare questo atto al contesto dei rapporti e degli interessi socialmente protetti”. Ora, come si può notare, gli asserti summenzionati di Tribunale per i minorenni di Roma, 31 ottobre 1974 risultano particolarmente importanti nel contesto dell'odierno approccio pedagogico, che ipostatizza la sola formazione tecnico-nozionale del minore, escludendo quasi completamente la ratio della fortificazione valoriale e coscienziale. Infatti, Tribunale per i minorenni di Roma, 22 marzo 1973 evidenzia che “non basta che il minore conosca astrattamente il carattere illegale dell'atto posto in essere ed il suo contenuto immorale od antisociale, ma occorre che egli abbia assimilato le regole morali e sociali della comunità, in base ad un'autentica convinzione e non [solo] per un processo di imitazione formale”. Di nuovo, Tribunale per i minorenni di Roma, 22 marzo 1973 insiste sulla differenziazione tra valorialità ed abilità tecnica; il quoziente intellettivo è importante ancorché non decisivo nel contesto dell'Art. 98 CP. D'altra parte, la ratio della “capacità d'intendere e di volere” ex comma 1 Art. 98 CP è una nozione multifattoriale. P.e., nel minorenne maggiore degli anni 13, spesso esiste pure la “immaturità emotiva”. Oppure, vero è che sono molto diffusi i disturbi del carattere. Oppure ancora, consta che una famiglia dissociata reca ad una maturità disturbata.

 

Il concetto di “maturità” nella Dottrina criminologica italiana

La precarietà abitativa, una famiglia criminogena ed una scolarizzazione fallimentare possono favorire, nell'ultra-13enne, una negativa carriera criminosa, pur se va, comunque, rigettato ogni determinismo rigido e formalista. A tal proposito, Pazè (ibidem)[11] sostiene che “un ragazzo vissuto in condizioni assai carenti rispetto a quelle ritenute normali, che non ha avuto validi modelli educativi e che ha ricevuto solo stimoli negativi, che non ha finito le scuole, per lo più dovrà essere ritenuto non imputabile, perché non è cresciuto come i suoi compagni più fortunati, ha una personalità più fragile e non sa resistere ad impulsi forti”. Chi redige non mette in dubbio la veridicità prevalente degli asserti di Pazè (ibidem)[12]; tuttavia, sussiste pur sempre il rischio di sconfinare nella categoricità assoluta ed assolutizzante  di Lombroso e dei suoi seguaci.

In ogni caso, anche Vercellone (1980)[13] evidenzia che “noi diciamo […] che è normale il diciottenne sano, ben alimentato, la cui salute, anche psichica, è stata tutelata (Art. 32 Cost.); che è stato adeguatamente mantenuto, educato ed istruito dai genitori o, in mancanza, da organi statuali appositamente predisposti (Art. 30 Cost.); che si è giovato dei supporti che, di solito, riceve un bambino, in una casa decente, tra persona normali (Art. 36 Cost.); che ha avuto un sufficiente bagaglio di informazioni, ossia quel bagaglio che normalmente è fornito dalla scuola dell'obbligo (Art. 34 Cost.). [Viceversa, ndr] il ragazzo che non ha avuto questo minimo di supporto ambientale, che si esige dal comune sentire della nostra civiltà, non può essere considerato normale, in un Ordinamento giuridico che fa perno sull'Art. 3 Cost. […]. E', infatti, difficile ritenere congruo al principio di eguaglianza considerare normale colui che non ha avuto ciò che doveva avere allo stesso modo di chi tutto ciò ha avuto in quantità soddisfacente; è davvero difficile ritenere conforme alla seconda parte dell'Art. 3 Cost. mandare in prigione colui che quegli ostacoli non ha superato perché niente è stato fatto per lui, onde consentirgli di raggiungere il pieno sviluppo della sua persona. Il giudice, dunque, nel valutare la maturità ex Art. 98 CP dovrà, essenzialmente, tener conto di quanto la normale evoluzione sia stata favorita dalla sussistenza di quel supporto ambientale, ritenendo immaturi e, quindi, non punibili i giovani imputati […] che tale supporto non hanno ricevuto in modo normale”.

Il lodevole merito di Vercellone (ibidem)[14] consta nell'aver saputo coniugare, nel contesto dell'Art. 98 CP, la ratio dell'immaturità psicoevolutiva con quella della giustizia sociale. Secondo il testé menzionato Dottrinario, la criminogenesi discende, prevalentemente, da un mancato accesso ad opportunità pedagogiche garantite, almeno in linea teorica, dalla Carta fondamentale. Interessanti sono pure Cuomo & La Greca & Viggiani (1982)[15], a parere dei quali “[nell'Art. 98 CP] necessitano valutazioni individuali ed individualizzate e, naturalmente, occorre tutta una serie di parametri che possono avere un peso da una parte ed assumere un peso tutto diverso da un'altra. Si può vedere come ogni parametro può influire o meno rispetto a tutti gli altri.

Però, tutti questi parametri che la Giurisprudenza usa, quali l'educazione, la famiglia, la scuola, le categorie psicologiche non vanno presi assolutamente come degli elementi a sé stanti, univoci e, quindi, [non bisogna] fare un ragionamento, come veniva fatto negli Anni Sessanta o Settanta del Novecento, per cui la mancanza di un parametro escludeva già tutti gli altri, ma vanno letti in modo integrato e, soprattutto, legato a tutta una serie di parametri culturali di aggancio”. Come si può notare, Cuomo & La Greca & Viggiani (ibidem)[16] invitano l'Operatore a rifuggire da qualificazioni apodittiche, specialmente perché deve sempre dominare una sana e necessaria contestualizzazione, che non assolutizzi il singolo dettaglio o la singola disfunzionalità, in tanto in quanto ciascun minorenne costituisce un caso concreto unico e non generalizzabile.

Un caso a sé rappresentano, nelle dinamiche dell'Art. 98 CP, i rom di età compresa tra i 14 ed i 17 anni. Secondo Niccheri (2011)[17] “i ragazzini nomadi sono spesso immaturi. Dobbiamo pensare, ad esempio, alla difficoltà di comunicazione del linguaggio; la maturità è data dalle capacità di apprendimento, dagli stimoli positivi che si hanno, dalla scolarizzazione e da tante altre cose. Magari, su un piano pratico, sanno rubare, ossia sanno, per così dire, lavorare rapidamente, però la maturità è anche capire che quel gesto ha una connotazione [morale] non positiva. Ma chi gliel'ha insegnato ? I loro modelli sono sbagliati”. In buona sostanza, Niccheri (ibidem)[18] sfata il mito del minorenne rom precocemente maturo, giacché il percorso evolutivo presenta molti aspetti etico-culturali che non vengono per nulla veicolati nelle comunità zingare. All'opposto, Di Bartolo (2002)[19] sostiene che la sessualizzazione precoce apra la strada ad una maggiore maturità, ovvero “il rom, a quattordici anni, si sposa e ha figli. A me questi fatti, in realtà, non sembrerebbero prove di maturità, ma semplicemente abitudini culturali. Tuttavia, è anche vero che, dal punto di vista psicologico, il fatto che un ragazzino venga messo nelle condizioni di dover avere la responsabilità di una famiglia, di mantenerla, sicuramente gli spiana la strada verso la maturità precoce. Invece, l'italiano è una persona immatura, perché non ha avuto modo di confrontarsi con la realtà esterna, ed è stato tenuto in una situazione privilegiata. Ne deduco, allora, che venga concessa più facilmente la non imputabilità ad un ragazzo italiano, piuttosto che ad un ragazzo rom […]. Al rom non è mai applicato l'Art. 98 CP, perché non abbiamo elementi per poter dire se è maturo o no, dato che la sua storia, normalmente, non è seguita dai servizi sociali. In effetti, controllando presso la cancelleria del Tribunale per i minorenni di Firenze, ho potuto constatare che, sul totale delle sentenze di proscioglimento emesse per incapacità d'intendere e di volere [ex Art. 98 CP], ben l'83,56% di esse riguarda minori italiani, contro il 16,43% di pronunce ex Art. 98 CP emesse nei confronti di minori stranieri, in prevalenza rom”.

Dunque, Di Bartolo (ibidem)[20] rimarca che le responsabilità coniugali e genitoriali aiutano il giovane rom a sviluppare un grado più intenso e precoce di maturità. Infatti, a prescindere dalla sessualizzazione in sé e per sé, il matrimonio reca alla necessità di mantenere una famiglia e, per conseguenza, spezza definitivamente i legami con l'età dell'infanzia.

Ognimmodo, ai fini dell'applicabilità, o meno, dell'Art. 98 CP, rimane indispensabile quella “analisi socioambientale” che costituisce la ratio dell'Art. 9 DPR 448/88, ai sensi del quale il giudice deve “acquisire elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali ed ambientali del minorenne”. Di nuovo, pertanto, pure l'Art. 9 DPR 448/88 insiste sul criterio della “contestualizzazione” di ciascuna singola fattispecie processuale giudicanda. Parimenti, in Dottrina, Niccheri (ibidem)[21] afferma che “mentre la valutazione circa l'adulto è una valutazione diretta, centrata prevalentemente sull'adulto [uti singulus], quando si fa una valutazione di un bambino bisogna sempre tener conto dell'ambiente sociofamiliare in cui è cresciuto, perché esso ha una notevole importanza. Ad esempio, quando i ragazzini entrano a far parte di un gruppo, questo influisce, in modo significativo, anche sui loro livelli di maturità, perché imparano stili di vita, abitudini, usi che non sono stimoli di crescita, ma, anzi, li fissano a certi livelli e non li portano ad andare oltre. Il contesto sociale ha una grandissima importanza sullo sviluppo della maturità di un adolescente, perché tale sviluppo dipende dagli stimoli, che possono essere positivi o negativi, dallo stile di vita delle persone che stanno intorno all'adolescente […]. Questo, naturalmente, riguarda i ragazzi che non hanno disturbi psicopatologici, ossia non riguardano gli insufficienti mentali, ma i ragazzi che si presume siano esenti da qualsiasi malattia psichiatrica nel senso più ampio. L'osservazione del contesto socio-culturale-ambientale ha una grandissima importanza”.

Quindi, come si vede, Niccheri (ibidem)[22] ribadisce la ratio, presente soprattutto in Giurisprudenza, della “contestualizzazione”. Le eventuali condotte borderline del minore ultra-13enne discendono sempre e comunque da uno specifico contesto, dal quale il Magistrato non può prescindere nell'applicazione del comma 1 Art. 98 CP. Viceversa, nell'infrattore adulto, si prescinde dall'analisi personologica e sociologica della criminogenesi, pur se è innegabile che anche il maggiorenne sia comunque sottoposto a condizionamenti familiari, ambientali ed etnici.

 

Il parere della Criminologia italiofona

La contestualizzazione socioambientale è imprescindibile e basilare. La “maturità” del minore ultra-13enne varia a seconda degli stimoli ricevuti dalle agenzie di controllo, in tanto in quanto il libero arbitrio del giovane infrattore non è totalmente predeterminato, ma sicuramente esso è grandemente influenzato. Niccheri (ibidem)[23], su questo punto, giustamente dichiara che “non si può disgiungere l'osservazione del minore da quella del suo contesto sociale. In fondo, per ognuno di noi, persino per gli animali, c'è l'apprendimento di certe regole, di certe abitudini, di certi usi, di certi stili di vita, e così anche per il minore c'è l'apprendimento. Ma l'apprendimento dove si svolge ? Nel luogo dove uno nasce, cresce e si forma. E la nostra maturità è data dall'aver appreso tante cose, dall'averle elaborate e fatte nostre, per poi agire in conseguenza, per riuscire, in qualche maniera, anche se a livelli diversi, a mettere in moto quelle che poi, nell'adulto, chiamiamo capacità critiche e capacità volitive, ovvero imparare a confrontarsi. Quindi, anche nel bambino, ci deve essere una capacità di valutazione, anche se sarà nel suo mondo piccolo”.

Come si può notare, Niccheri (ibidem)[24] ribadisce la basilarità della ratio della “contestualizzazione” delle infrazioni antigiuridiche del minore semi-imputabile. Del pari, nella Giurisprudenza di legittimità, ricorre sempre la regola aurea di analizzare gli influssi socioambientali che hanno recato l'adolescente a delinquere. Ciascuno è frutto del proprio ambito sociale, familiare e scolastico di provenienza. A ciò si aggiunge, nell'ultra-13enne minore degli anni 18, il mai indifferente influsso del gruppo dei pari.

Inoltre, molto dipende dai condizionamenti indotti da una società industriale che non garantisce più la tranquillità dei piccoli borghi rurali pre-novecenteschi. A tal proposito, Fazzo (1984)[25] mette in risalto che “il boom economico e l'esplodere della società del consumo hanno generato una massiccia immigrazione verso le aree industriali, che, culturalmente, ha significato sradicamento e colonizzazione; l'alienazione di massa da un sistema produttivo che non si controlla e non si sente come proprio; la creazione indotta di sempre nuovi bisogni per soddisfare le esigenze di crescita della produzione; il proliferare onnipresente dei mezzi di comunicazione di massa, invasori incontrollati di ogni momento della vita sociale ed individuale; l'indebolimento e la ridiscussione dell'autorità parentale, trovandosi la famiglia in difficoltà nel preparare il giovane ad un mondo sempre più complesso; la grande velocità delle comunicazioni, che comporta una tendenza alla relativizzazione dei valori ed all'evoluzione dei fenomeni culturali in tempi prima impensabili”. Nuovamente, Fazzo (ibidem)[26] rimarca che l'ultra-13enne reca una provenienza sociologica influente e ben determinata; per conseguenza, le radici sociali condizionano pure la criminogenesi.

I summenzionati “condizionamenti” sociogenetici hanno addirittura spinto taluni Dottrinari verso le incertezze perenni del relativismo. P.e., Gulotta & Roli (1996)[27] reputano che “qualunque sia l'approccio prescelto, di tipo biologico, psicologico o socioambientale, il concetto di maturità resta ancora poco chiaro, e se molti giudici ritengono pacifica l'accezione del termine, probabilmente è perché non hanno avuto modo di rendersi conto che quello di cui parlano è per ognuno una cosa diversa. La maturità psicologica è una metafora ed al fine di poterla misurare viene deificata; ma non si può misurare una nuvola, o, meglio, ognuno la misura come vuole”. Gulotta & Roli (ibidem)[28], non senza eccessive esagerazioni, hanno inteso evidenziare la polisemia ontologica del lemma “maturità”. Questo concetto varia a seconda dei contesti socioambientali e a seconda delle varie epoche storiche. P.e., l'essere maturo di un/una ragazzo/a degli Anni Cinquanta del Novecento è una realtà completamente diversa se confrontata con la nozione di maturità degli Anni Duemila. Specialmente, è cambiata la pedagogia familiare; inoltre, la scuola ha mutato radicalmente la propria offerta formativa; anche i mass-media hanno un ruolo prima sconosciuto.

Stimolante è la qualificazione che Cabras (2002)[29] dà del lemma “maturità”, ovverosia “si presume [nel contesto dell'Art. 98 CP] che la capacità di prevedere le conseguenze del proprio agire e anche la capacità di determinare volontariamente il proprio comportamento non esista nel bambino piccolo e che non venga acquisita a scatto, da una totale incapacità nei due sensi ad una completa acquisizione di dette capacità. Si presume che il minore, con il progredire dell'età, sia sempre più capace di previsione delle conseguenze dei propri atti. Questo, d'altra parte, è logico, perché la previsionalità, in senso lato, è un qualcosa che ha a che vedere con l'accumulo dell'esperienza, oltre che con la maturazione del sistema nervoso, anche se, probabilmente, la maturazione del sistema nervoso è abbastanza precoce, più di quanto non lo sia, invece, il cumulo di esperienze che vengono in qualche modo fatte dal minore. Egli impara, a sue spese, ciò che è giusto, ciò che non è giusto, fa propria una serie di norme di comportamento che gli vengono inculcate, in termini culturali, prima dalla famiglia, poi dalla scuola e, comunque, dalla società, e che vengono, pian piano, fatte proprie e costituiscono un corpus di esperienze che permettono di valutare anticipatamente quella che è la conseguenza del proprio agire”. Cabras (ibidem)[30] presenta la “maturità” alla stregua di un percorso pedagogico, volontario o meno che sia, tale da plasmare il carattere del minorenne. L'esperienza conduce verso una fortificazione della personalità, nell'ambito della quale ogni errore si trasforma in una fonte di insegnamento pratico. Simile è il parere di Pazzagli (2002)[31], secondo cui “[nell'ottica dell'Art. 98 CP, ndr] la maturità è un concetto difficile. L'adolescenza è un processo in cui c'è tutta una serie di cambiamenti ed è un'età difficile, perché, nell'adolescenza, a differenza di quanto avviene nell'adulto, non c'è proporzione tra gravità dei sintomi a patologia: si può avere un adolescente sregolato e ribelle, e un adolescente buono e patologico. Bisogna valutare se c'è un arresto del processo o una sua prosecuzione. Freud lo diceva molto bene: spesso gli adolescenti hanno semplicemente bisogno di un tempo e di un luogo per evolvere; però, talvolta, non ce la fanno e, allora, c'è quello che si chiama breakdown adolescenziale. Qui la valutazione implica l'essere esperti dell'adolescenza e delle sue dinamiche e, quindi, il poter valutare se un certo comportamento si innesta su un processo evolutivo o su un processo già fallito. Oggi si sa anche che molta psicopatologia comincia nell'infanzia, e che, quindi, è possibile una prevenzione perché molta parte della psicopatologia è legata agli eventi”.

Pazzagli (ibidem)[32] tende a “medicalizzare” il concetto di capacità/incapacità d'intendere e di volere ex comma 1 Art. 98 CP. Ciononostante, a parere di chi scrive, un consimile approccio neuroscientifico rischia di ipostatizzare la psicopatologia a discapito di una visione sociogenetica della devianza. A parere di chi commenta, è profondamente erroneo assolutizzare le sole interpretazioni psicologiche del grado di maturità post-infantile. La Medicina deve proporre categorie ermeneutiche auto-limitate, e non onnipotenti ed onnipresenti.

Dal canto suo, Cabras (ibidem)[33] propone anch'egli una visione eminentemente medica dell'Art. 98 CP, ma egli specifica anche che “se siamo di fronte ad una patologia infantile conclamata, evidentemente il problema non si pone: il ragazzo con aspetti autistici, oppure con disturbi che poi daranno luogo, in un secondo momento, a veri e propri disturbi della personalità, da adulto avrà sicuramente una maturità minore. Ma questo è l'aspetto più facile del problema, perché se si riesce a determinare la presenza di una patologia, quale che sia, questa sicuramente interferirà, in modo maggiore o minore, naturalmente in relazione al tipo di patologia, sul raggiungimento di questa maturità. Ci sono, però, patologie più sfumate, ad esempio delle patologie fobiche: ci sono dei bambini che hanno dei disturbi fobici molto precocemente, che poi mantengono, più o meno, per tutta la vita. Ora, il disturbo fobico può sì modificare lo stile di vita di una persona, la quale sarà più terrebonda, eviterà certe situazioni, ma sicuramente non dovrebbe incidere più di tanto sulla capacità di prevedere il proprio comportamento, nel caso di un comportamento antigiuridico. Altri casi, invece, come quelle forme di disturbo dell'attenzione con iperattività – tipiche dei bambini, ma che possono dar luogo a psicosi o ad un disturbo antisociale da adulti – sono delle patologie che modificano altamente le capacità di giudizio e di valutazione del comportamento, producendo, come effetto, una maturità ben diversa”.

Cabras (ibidem)[34] erra nell'ipostatizzare la lettura psicopatologica dell'Art. 98 CP, ma egli ha ragione nell'individuare quelle “patologie sfumate” che sfuggono persino alle periodiche catalogazioni del DSM. P.e., oggi è conclamato, nella Giurisprudenza della Cassazione, che sussistono, talvolta, dei “disturbi del carattere” e degli “stati emozionali” suscettibili di scemare grandemente la capacità d'intendere e di volere del reo. Dunque, pure nel contesto dell'Art. 98 CP, il lemma “psicopatologia” va reinterpretato in un senso più esteso, in tanto in quanto sussistono stati patologici surrettizi che cagionano una più o meno profonda invalidità nel minorenne antisociale. Esistono malattie psichiche non tradizionalmente riconosciute, eppur incidenti sulla ratio della “maturità” penalmente intesa. Pertanto, va abbandonata la divinizzazione del DSM, giacché esso non è né onnicomprensivo né universalmente condivisibile alla stregua di un testo sacro.

 

Dottrina e Giurisprudenza in tema di imputabilità del minorenne

Il principale dilemma della Dottrina consta nel capire dove si ferma l'immaturità dell'adolescente violento e dove inizia la patologia mentale. Vero è, infatti, che non tutti gli infrattori minorenni sono immaturi, ma è altrettanto assodato che taluni ultra-13enni sconfinano, con le loro condotte, nel campo diagnostico della psicopatologia. Secondo Cabras (ibidem)[35], “esistono minori che, ad un esame psicopatologico attento, non rivelano alcuna patologia. Siccome, però, certe violenze sono dissonanti rispetto a quello che è il continuum della vita di questi ragazzi, viene da pensare che esistono degli individui che, per motivi non definibili, forse addirittura genetici – non sicuramente relazionali o sociali, perché non bastano i dati a nostra disposizione per poter fare un'affermazione del genere – non riescono ad elaborare un codice morale. Se una persona non riesce ad elaborare un codice morale, agisce secondo il principio dell'interesse, del piacere, senza tener conto delle conseguenze del proprio agire, finché è ragazzino; dopo, anche se il codice morale non lo elabora, esso gli viene in qualche modo imposto da una sorta di condizionamento sociale; uno impara a sue spese che certe cose non si fanno, non perché non è bene farle, ma perché, se le fai, poi incorri nei rigori della legge […]. Ora, sicuramente la mancata elaborazione di un codice morale costituisce un deficit di sviluppo, perché, nello sviluppo armonioso, ci dev'essere anche questo aspetto. Se questo aspetto viene meno e non viene elaborato, certamente c'è un'immaturità settoriale; magari sono persone che, nelle loro attività, come al computer, riescono a fare miracoli, persone bravissime in qualunque cosa, tranne che nel riuscire a distinguere ciò che è bene da ciò che è male, il che, comunque, è un concetto relativo, ma che diventa stabile in un certo contesto sociale, in una certa cultura”.

Ecco, quindi, che Cabras (ibidem)[36] pone un importante nesso tra la maturità e la valorialità del/della ragazzo/a. L'essere maturo non si esaurisce a livello delle competenze tecnico-culturali. L'Autore qui in parola propone un collegamento stretto tra la variabile della maturità e quella dell'assimilazione delle regole etiche; il tutto nonostante la cività occidentale contemporanea ipostatizzi il ruolo del possesso di nozioni tecnico-operative. Del pari, con afferenza al lemma attributivo “normale” e nel contesto dell'Art. 98 CP, Niccheri (ibidem)[37] sostiene che “il concetto di normalità, per la gente comune, è dato da delle emozioni e da delle regole anche molto semplici […]. Esistono delle norme di comportamento che ci accompagnano nella nostra vita quotidiana, dal non mettere i piedi sul tavolo ad altre molto più importanti. [Invece] la normalità, in psichiatria, è una normalità che si contrappone alla patologia”. Dunque, Niccheri (ibidem)[38] distingue tra l'accezione popolare di “normalità” e quella medico-psichiatrica. Il minorenne maggiore degli anni 13 può essere psicopatologicamente normale anche se l'opinione pubblica gli attribuisce presunte devianze mentali; ognimmodo, di nuovo, la “maturità” non deve mai prescindere da un equilibrato sviluppo della “moralità”, intesa come l'insieme delle regole etiche poste a difesa della pacifica convivenza sociale. All'opposto, oggi, le agenzie di controllo assolutizzano il sapere tecnico, che, tuttavia, è insufficiente per lo sviluppo di freni inibitori. In maniera assai simile, Cabras (ibidem)[39] mette in guardia da un'interpretazione a-tecnica e populistica della normalità mentale, ovverosia “non bisogna mai confondere la causa con l'effetto. Se noi partiamo dal concetto che certi tipi di comportamento sono così dissonanti dal comportamento medio da non poter essere messi in atto che da persone non sane, allora si può anche smettere di fare le perizie: si valutano i comportamenti e si dice: questo è un comportamento che sicuramente non ha a che vedere con la salute mentale, quindi chi l'ha commesso è sicuramente incapace d'intendere e di volere. Ma sarebbe un arbitrio. Noi dobbiamo valutare la persona che ha commesso quel delitto, non quel delitto e, di conseguenza, la persona”.

Come si evidenzia, Cabras (ibidem)[40] invita l'Operatore giuridico a diffidare da una qualificazione semplicistica del lemma “normalità”. La psicopatologia forense non è una chiave ermeneutica infallibile, ma sarebbe altrettanto antidemocratico negare all'infrattore la possibilità di sottoporsi ad una perizia psichiatrica rigorosa ed imparziale. Senza dubbio, comunque, la ratio della “sanità mentale” va affrancata da ragionamenti e valutazioni non professionali e qualunquistiche. Analogo è pure il parere di Pazzagli (ibidem)[41], in tanto in quanto, secondo tale Dottrinario, “il concetto di normalità è molto difficile da intendere, perché, in effetti, esistono due norme, diverse l'una dall'altra: c'è una norma ideale dove un uomo normale è un uomo perfettamente sano ed intelligente; e c'è una norma statica, reale, dove si pone la maggioranza delle persone, secondo la quale una persona di intelligenza normale è una persona non particolarmente intelligente”. Pazzagli (ibidem)[42] è utile nel momento in cui sfata il mito dell'esistenza di individui perfetti sotto il profilo mentale. La devianza psicopatologica può anche essere diffusa, sebbene asintomatica.

Utili, ad ogni buon conto, sono le esegesi giurisprudenziali dell'Art. 98 CP. P.e., Cass., sez. pen. I, 19 giugno 1987 precisa che “la categoria dell'immaturità risulta essere imprecisa, [ma] nell'indagine rivolta ad accertare la sussistenza, in concreto, della capacità d'intendere e di volere del minore degli anni 18, ex Art. 98 CP, il giudice è svincolato dall'obbligo di nominare o di disporre speciali indagini tecniche, potendo accertare direttamente la ricorrenza dei requisiti sui quali deve fondarsi il giudizio di imputabilità [o meno] del minore, attraverso la natura del reato, delle modalità del fatto e del comportamento processuale complessivo del minore”. Cass., sez. pen. I, 19 giugno 1987 svincola il Magistrato del merito da una Medicina tracotante ed onnipresente che tende a “psicologizzare” sempre e comunque l'applicazione dell'Art. 98 CP. In effetti, perlomeno nelle fattispecie meno antisociali, la perizia psichiatrica non è essenziale e ben può essere sostituita dal libero e prudente apprezzamento del giudice.

Il non supino asservimento alla Psicologia da parte del Magistrato del merito è confermato pure da Cass., sez. pen. I, 23 marzo 1988, ovverosia “l'età dell'imputato costituisce il primo fattore di indizio di immaturità […]. [Ma] se l'imputato è prossimo al 17.mo anno e, quindi, in tempo ormai lontano dalla non imputabilità ex lege, ed ha commesso reati contro la persona, la cui natura è facilmente percepibile, è sufficiente la mancanza di elementi relativi a tare suscettibili di influenzare sui processi volitivi ed intellettivi per ritenere ed affermare la responsabilità”. La or ora menzionata Sentenza contenuta in Cass., sez. pen. I, 23 marzo 1988 rimarca, nuovamente, il carattere non predominante della perizia psichiatrica, dalla quale il Magistrato del merito può prescindere nei casi maggiormente conclamati ed evidenti.

Interessante è pure Cass., sez. pen. I, 10 novembre 1987, a parere della quale “l'esame della maturità mentale del minore va compiuto […] trascurare di considerare i tempi di commissione del fatto commesso e di cui il minore è imputato lungo l'arco evolutivo della personalità del soggetto, e, quindi, con un maggior rigore valutativo, allorché tale fatto si colloca nella fase finale dell'età evolutiva”. Pertanto, anche Cass., sez. pen. I, 10 novembre 1987 non divinizza l'esame del CTU, né, tantomeno, pone una differenza abissale tra i 16/17 anni d'età ed i 18 anni compiuti. Predomina, nelle valutazioni del giudice, una ragionevolezza che non assolutizza ultra vires i limiti anagrafici di cui all'Art. 98 CP. Né, tantomeno, l'esame psichico viene sopravvalutato. Parimenti, in Dottrina, manifestano una posizione non oltranzista, bensì contestualizzante, Bandini & Gatti (1987)[43], secondo cui la capacità ex Art. 98 CP “va commisurata ad ogni specifica condotta ed ala sua valenza delittuosa”.

Dunque, per Bandini & Gatti (ibidem)[44], la ratio dell'età va accostata alla specifica contestualizzazione socioambientale del reato commesso. P.e., in Giurisprudenza, Cass., 9 aprile 1980 reputa che “l'esame [ex Art. 98 CP] della maturità mentale del minore va compiuto con stretto riferimento al tipo di reato commesso […] [Necessitano] qualificazioni fondate su elementi non soltanto biopsichici, ma anche sociopedagogici relativi all'età evolutiva”. Quindi, Cass., 9 aprile 1980 propone (rectius: impone) anche il meticoloso esame del ruolo trascorso delle agenzie di controllo, tra cui, primariamente, la famiglia, la scuola ed il gruppo religioso di appartenenza. Altrettanto lodevolmente, Morello (1982)[45] postula che “il processo di maturazione non progredisce allo stesso modo rispetto a tutti i comportamenti dello stesso individuo nello stesso periodo, potendo progredire rispetto a determinati schemi comportamentali e ritardare rispetto ad altri, determinando l'esistenza di diversi livelli di maturità, nello stesso individuo e nella stessa fase o stadio di sviluppo”. P.e., secondo Morello (ibidem)[46] la formazione culturale può essere eccellente, ma i freni inibitori assenti. Tale è pure il parere di Cass., sez. pen. I, 3 maggio 1979, ovverosia “il minore può risultare prosciolto per immaturità in relazione ad un certo addebito e, allo stesso tempo, essere giudicato imputabile per altri reati, addirittura commessi nella medesima circostanza temporale e contestuale”.

 

 

[1]Bettiol, Diritto penale, parte generale, CEDAM, Padova, 1986

 

[2]Bettiol, op. cit.

 

[3]Palomba, Codice di procedura penale minorile commentato, in Esperienze di giustizia minorile, 1989
 

[4]Russo Parrino, Diritto penale minorile, Caltanissetta, 1953

 

[5]Pazè, L'imputabilità minorile, in Barbarico & Lanza & Vercellone & Pazè & Morello & Vaccaio, Risposte giudiziarie alla criminalità minorile, Unicopli, Milano, 1982
 

[6]Barcellona, L'accertamento della capacità di intendere e di volere nei minori degli anni diciotto, in Temi, 1973

 

[7]Barsotti & Calcagno & Losana & Vercellone, Sull'imputabilità dei minori tra i 14 ed i 18 anni, in Rivista italiana di diritto processuale penale, IV, 1975

 

[8]Ponti & Gallina Fiorentini, Imputabilità e immaturità nel procedimento penale minorile, in Rivista di polizia, 1983

 

[9]Ponti & Gallina Fiorentini, op. cit.

 

[10]Ponti & Gallina Fiorentini, op. cit.
 

[11]Pazè, op. cit.

 

[12]Pazè, op. cit.

 

[13]Vercellone, La imputabilità e punibilità dei minorenni nella legge penale italiana, in Atti del convegno della società di neuropsichiatria infantile, Camerino, 1980

 

[14]Vercellone, op. cit.

 

[15]Cuomo & La Greca & Viggiani, Giudici, psicologi e delinquenza minorile, Giuffrè, Milano, 1982

 

[16]Cuomo & La Greca & Viggiani, op. cit.

 

[17]Niccheri, Minorenne e reato, cenni storici e realtà attuale, L'altro diritto, Pacini, Pisa, 2011

 

[18]Niccheri, op. cit.

 

[19]Di Bartolo, L'imputabilità del minore, L'altro diritto, Pacini, Pisa, 2002

 

[20]Di Bartolo, op. cit.

 

[21]Niccheri, op. cit.

 

[22]Niccheri, op. cit.

 

[23]Niccheri, op. cit.

 

[24]Niccheri, op. cit.

 

[25]Fazzo, L'imputabilità del minore ultraquattordicenne, il De Cataldo Neuburger, Giudicando un minore, Giuffrè, Milano, 1984

 

[26]Fazzo, op. cit.

 

[27]Gulotta & Roli, Dal reato alla personalità, Giuffrè, Milano, 1996

 

[28]Gulotta & Roli, op. cit.

 

[29]Cabras, Maturità ed età, L'altro diritto, Pacini, Pisa, 2002

 

[30]Cabras, op. cit.

 

[31]Pazzagli, L'imputabilità del minore, L'altro diritto, Pacini, Pisa, 2002

 

[32]Pazzagli, op. cit.

 

[33]Cabras, op. cit.

 

[34]Cabras, op. cit.

 

[35]Cabras, op. cit.

 

[36]Cabras, op. cit.

 

[37]Niccheri, op. cit.

 

[38]Niccheri, op. cit.

 

[39]Cabras, op. cit.

 

[40]Cabras, op. cit.

 

[41]Pazzagli, op. cit.

 

[42]Pazzagli, op. cit.
 

[43]Bandini & Gatti, La minore età, in Gulotta, Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, Giuffrè, Milano, 1987

 

[44]Bandini & Gatti, op. cit.

 

[45]Morello, L'imputabilità del minore, in Barbarico & Lanza & Vercellone & Pazè & Morello & Vaccaio, Risposte giudiziarie alla criminalità minorile, Unicopli, Milano, 1982

 

[46]Morello, op. cit.