Il contrasto alla corruzione tra privati nello “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”
Abstract
La corruzione privata, comportando distorsioni in campo concorrenziale, provoca ripercussioni nel contesto del Mercato Unico Europeo, producendo danni economici attraverso una non corretta aggiudicazione ed incorretta esecuzione dei contratti. Da ciò deriva l’attenzione prestata dal legislatore sovranazionale alla materia, che, in una prospettiva di armonizzazione, ha imposto una tipizzazione del fenomeno criminoso non scevra da criticità tra cui, in prima analisi la difficile relazione con il criterio di ultima ratio proprio del diritto penale.
Indice:
1. La prospettiva internazionale del fenomeno della corruzione tra privati: la questione del bene giuridico protetto;
2. Il contrasto alla corruzione privata nello spazio europeo;
2.1 Armonizzazione e Mercato Unico;
2.2 Sanzione amministrativa e sanzione penale: il problema del “ne bis in idem”;
3. Conclusioni
1. La prospettiva internazionale del fenomeno della corruzione tra privati: la questione del bene giuridico protetto
Certo è che “misurare” la corruzione - intesa come abuso di ruoli e mezzi con il fine di ottenere vantaggi indebiti e particolari - è compito assai difficile considerato che l’affidabilità degli indicatori risulta meramente tendenziale, nella misura in cui – almeno generalmente – si sostanzia in una prassi sistemica, un meccanismo costituito da un incatenarsi di fatti criminali difficili da “smascherare” perché fondati sul pactum sceleris.
Difatti, come ha evidenziato la dottrina anglosassone, se presupposto del fatto di corruzione è che l’agente svolga, nel seno di una pratica sociale organizzata un role responsability rilevante, connesso a specifici doveri di provvedere al “benessere” altrui, essenziale risulta l’accordo corruttivo, che appunto fonda la relazione con il soggetto esterno – principale - con il quale il corrotto fissa, come controprestazione ad un’attività - comunque collegata con la propria funzione-, una remunerazione indebita.
Se questo è il nucleo essenziale, molto più sfumati sono i margini delle condotte criminali contenute nelle norme di diritto penale sostanziale nei testi legislativi sovranazionali che, quali dictamen, vengono trasfusi negli ordinamenti interni. A tal riguardo, altamente problematico e dibattuto è il catalogo dei beni giuridici che la norma incriminatrice di una condotta di corruzione privata può proporsi di proteggere, nonché dei caratteri strutturali delle fattispecie, questione questa che si lega all’osservanza del paradigma che vede il diritto penale quale extrema ratio dell’ordinamento.
Sommariamente può individuarsi una suddivisione tra ipotesi delittuose volte alla tutela di interessi esterni alla persona fisica o giuridica privata, nella quale o per incarico della quale l’agente opera, e quelle che valorizzano primariamente interessi interni.
Nel primo caso il nucleo offensivo dell’incriminazione consiste nella lesione o posta in pericolo del bene collettivo “leale concorrenza” o di quello individuale “patrimonio altrui” senza che risulti comunque rilevante, per l’integrazione del delitto, il pregiudizio patrimoniale per la persona fisica o giuridica per la quale o nella quale il corrotto opera.
Nel secondo modello, pur se si orienta l’offesa a profili unicamente interni e di natura individuale, permane la possibilità di scelta relativamente alla classe di interessi da proteggere: da un lato la lesione della relazione di lealtà che intercorre nella gestione di interessi altrui; dall’altro il patrimonio di colui che ha delegato ad un altro soggetto la gestione dello stesso. Nel caso della prima elezione permangono aspetti concernenti la concezione istituzionale dell’impresa, il cui carattere assoluto - e dunque indisponibile - dell’offesa, mal si accosterebbe con la previsione di perseguibilità a querela.
Partendo dalla prospettiva del principio di offensività, la dottrina ha assunto posizioni di contrasto circa l’intervento penale in materia ponendo in dubbio la stessa utilità fattiva della previsione.
Se si considera difatti il modello patrimonialistico, il tipo avrebbe natura di “delitto ostacolo” e la tutela del bene giuridico non giustificherebbe una siffatta anticipazione della protezione. Se al contrario si guarda al modello di protezione della concorrenza, in cui la stessa è proposito, ovvero la condizione di efficienza del mercato in chiave macroeconomica, il tipo dovrebbe assumere le vesti di delitto di pericolo astratto in quanto appare difficile, se non impossibile, che una singola azione corruttiva, ancorché sistemica, possa costituire pericolo effettivo per la struttura competitiva del mercato. Infine, seppure sembri che il plus che caratterizza la corruzione risieda nell’«immoralismo che caratterizza il fatto[1]», le stesse considerazioni possono essere applicate anche al modello lealistico: anche qualora il fine fosse di castigare la violazione di un dovere di fiducia, si tratterebbe di un intento moralizzatore del mercato, non altro che una pericolosa deriva etica del diritto penale economico.
2. Il contrasto alla corruzione privata nello spazio europeo
Basandosi sul presupposto per cui la corruzione privata può essere definita, in termini generali, come qualsiasi comportamento scorretto che si compie nell’attività contrattuale, risulta patente l’attenzione prestata alla materia nell’ambito dell’Unione Europea.
A principiare dall’approvazione dell’Atto Unico Europeo (1986), il cammino di cooperazione in materia penale e di polizia nell’Unione vide la protezione del Mercato Unico – e dunque della libera concorrenza – essere obiettivo primario. Più tardi, in applicazione dei poteri concessi in ragione del disposto dell’art. 29 TUE (attualmente art. 67 TFUE), l’Unione, con il fine di tutelare lo “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, ha condotto per un nucleo di delitti -tra cui la corruzione – un processo di armonizzazione normativa, nonostante permanga viva la critica relativa al “deficit democratico”, che rende ancora “sospesa” la legittimità di una lex europea legittimamente punitiva.
2.1 Armonizzazione e Mercato Unico
Come evidenziato dalla Scuola di Francoforte, punto di rottura è stata, in tempi recenti, la crisi finanziaria globale, fatto questo che ha aperto nuovi scenari di criminalizzazione ed ha ampliato il bacino d’azione del diritto penale economico. Davanti allo sconvolgimento dello status quo ante finanziario, collettivo ed individuale, la richiesta di maggiore sicurezza si è tradotta in domanda di maggiore intervento penale, a cui l’Unione Europea non si è sottratta.
Non sono dunque mancate, nelle scorse decadi, nell’ambito dell’ex “terzo pilastro”, significative azioni di armonizzazione ed impulso verso la criminalizzazione di alcuni settori localizzati del diritto penale economico, tra cui si inoculano certamente le iniziative volte all’estensione della disciplina della corruzione nelle relazioni tra privati, contenute nell’Azione Comune del 1998 e nella Decisione Quadro del 2003.
L’Azione Comune 1998/742/GAI, definisce la corruzione privata nella forma attiva e passiva agli articoli 2 e 3. Per quanto alla seconda, nonostante si adotti il termine generico «persona», si tratta di un reato proprio, in quanto il corrotto dovrà necessariamente essere soggetto che eserciti funzioni direttive o lavorative per l’impresa del settore privato (rinvio ad interpretazione autentica contenuta all’art. 1); nella forma attiva «chiunque» potrà rivolgere invece l’offerta o la promessa al soggetto qualificato.
Gli altri elementi dei due tipi sono pressoché identici, perché incatenati: la condotta consiste nell’atto dell’agente che, direttamente o per mezzo di terzi, solleciti o riceva benefici ingiustificati. La formula «direttamente o per mezzo di terzi» risulta volta a far fronte alla corruzione legata al crimine organizzato, specie nel caso di costituzione ad hoc di “imprese fantasma”. Ancora, relativamente all’azione,
il reperimento o la promessa di vantaggi deve essere contropartita della realizzazione o dell’astensione dalla realizzazione di un atto, contravvenendo i propri doveri,
ossia qualsivoglia comportamento sleale costituente violazione di un obbligo di legge, norme o regolamenti della categoria che si applichi al settore commerciale di riferimento. Tale remissione alla normativa interna agli ordinamenti nazionali – ed addirittura alle fonti secondarie – rende le disposizioni “tipi aperti”, irrispettosi del canone dovuto di tassatività. Non è sufficiente, dunque, la mera richiesta o accettazione del beneficio, ma necessario è che il soggetto attui contrariamente ai suoi doveri, con il fine di proteggere addizionalmente gli interessi imprenditoriali. L’oggetto materiale risulta integrato da “benefici indebiti”. Infine, circa l’animus, la condotta deve essere “intenzionale”, e di conseguenza si pretende un dolo duplice, che includa non solo la volontà nella domanda, ricezione o promessa del beneficio illegittimo, ma anche la determinazione di farlo in cambio della realizzazione o astensione dalla realizzazione di un atto in violazione dei propri doveri. Non venendo peraltro fissata l’intensità di tale intenzione è possibile ricomprendevi la categoria del dolo eventuale.
Si prevedono poi i casi di responsabilità della persona giuridica, quando (come disposto anche nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla medesima materia) possa essere considerata colpevole di atti di corruzione compiuti in suo beneficio ad opera di attori che, agendo individualmente o collettivamente, come membri di un organo della stessa, rivestano ruoli direttivi con poteri di rappresentanza, decisione o controllo. Peraltro si segnala che la responsabilità per delitto della persona giuridica, non esclude quella della persona fisica.
Sebbene l’art. 8 della Decisione Quadro 2003/568/GAI,dichiari espressamente la derogazione dell’Azione di cui sopra, il contenuto rimane pressoché identico per cui ci si limiterà a trattare gli elementi differenziatori.
Si chiarisce, in prima istanza, che il vantaggio indebito ottenuto potrà essere anche di scarsa entità o immateriale e che l’attività svolta dal corrotto potrà essere di qualsiasi natura. Inevitabilmente, tale ampliamento della possibile platea di attori e delle attività che possono costituire atti corruttivi, converte le fattispecie – le quali, si ricordi, dovranno essere necessariamente tipizzate negli ordinamenti degli Stati Membri, pena la posta in marcia del procedimento d’infrazione – in delitti che non si confanno al principio di legalità nella sua forma materiale il quale, diversamente, pretende che il legislatore formuli il tipo di modo che si possano previamente conoscere le condotte proibite e – dall’angolo visuale della certezza del diritto – che il libero arbitrio dei cittadini – che si manifesta nell’inosservanza della proibizione – abbia come contrappunto la chiarezza e prevedibilità delle conseguenze punitive.
Si compie poi un passo avanti rispetto al livello di tutela minima sollecitata nella AC, posto che anche se si concede agli Stati Membri di restringere la rilevanza penale del fatto, alle ipotesi “più gravi” di lesione del bene giuridico “mercato”, il limite inferiore di protezione della concorrenza leale si abbassa fino a ricomprendere i mercati interni.
La presenza dell’elemento dell’infrazione dei doveri d’ufficio ci fa affermare che esistano nel dispositivo componenti che coinvolgono la tutela di un altro bene giuridico, il “patrimonio dell’impresa”, tesi peraltro corroborata dall’estensione del campo di applicazione alle attività non lucrative.
Totalmente nuova è la previsione di un tetto minimo di durata della sanzione di privazione della libertà -peraltro l’unica prevista a dispetto del principio di proporzionalità della pena - che i legislatori nazionali devono introdurre e dell’interdizione – temporanea o definitiva – dall’esercizio dell’attività professionale – in funzione della quale si commise il delitto - almeno nel caso in cui sussista il rischio – vago – che si abusi della propria posizione o carica.
Per concludere, l’art. 7 al par.3 implicitamente sottolinea il progresso realizzato dall’Unione nel contesto dell’ex “terzo pilastro”, facendo riferimento allo strumento dell’ordine d’arresto europeo ed imponendo agli Stati che non prevedano la consegna – e non l’estradizione – dei loro cittadini, che legiferino in merito all’aut dedere aut punire.
Appare significativo, infine, che nei «considerando» al testo della DQ in analisi, si affermi che la corruzione privata «costituisca una minaccia allo stato di diritto», estendendo dunque il riferimento, tra i beni giuridici tutelati, anche a quelli spiccatamente pubblicistici, che rimettono al sistema sanzionatorio amministrativo.
2.2 Sanzione amministrativa e sanzione penale: il problema del “ne bis in idem”
Vale la pena appuntare la questione relativa alla possibile lesione del principio del ne bis in idem sostanziale, in considerazione della coesistenza negli ordinamenti europeo e nazionali di sanzioni amministrative e penali poste a protezione del medesimo bene giuridico. Difatti, come osservato, a livello comunitario i delitti di corruzione privata hanno come finalità la tutela della leale concorrenza e, pertanto, operano nel medesimo terreno d’azione del Regolamento (CE) 1/2003, che ha novellato gli artt. 101 e 102 TFUE, esattamente denominati «norme dell’UE in materia di concorrenza». Detto testo introdusse un sistema d’attuazione centrato sull’applicazione diretta della normativa sovranazionale ad opera delle giurisdizioni interne e delle ANC (Autorità Nazionali Competenti) di ciascuno Stato Membro, autorità queste indipendenti dagli esecutivi ed istituite in applicazione del medesimo strumento legislativo cui ci si riferisce.
Limitatamente al tema trattato, le ANC, di congiunto con la Commissione – e ciascuna per il suo livello di competenza – hanno il potere di imporre sanzioni pecuniarie per i casi di abuso di posizione dominante, operazioni di concentrazione ed in generale qualsiasi tipo di comportamento condotto dalle imprese che sia idoneo a generare distorsioni nel mercato influenzando la libera concorrenza e, dunque, tra le altre, anche le azioni corruttive che producano vantaggi indebiti per le imprese in nome e per conto delle quali si compiano. Si rilevi poi che nella maggioranza degli Stati Membri si prevede la possibilità di sanzionare le persone fisiche in caso di violazione della disciplina in materia di concorrenza, e dunque i medesimi agenti della condotta corruttiva passiva analizzata. Avendo la Corte EDU chiarito che le multe antitrust posseggono il carattere di sanzioni penali – e che si debbano dunque rispettare le garanzie ex art. 6 CEDU-
sembra indubitabile la messa in pericolo del diritto al ne bis in idem, in particolare quando la normativa europea lascia spazio all’incertezza giuridica, impiegando termini generici per differenziare i casi di applicazione della sanzione amministrativa piuttosto che penale.
Come in un effetto domino, tale indeterminatezza avrà conseguenze sulla normativa nazionale che traspone il testo comunitario, fatto questo che inevitabilmente complicherà l’applicazione della sanzione quando si tratta di supposti su scala internazionale.
Sulla tematica è intervenuta la Corte di Giustizia dell’Unione per porre fine ad un panorama di tutele differenziate, in particolare guardando al caso di consecutio tra procedimento amministrativo e processo penale, relativo allo stesso fatto ed alla medesima persona. In primo luogo si tenga conto che a livello europeo si è affermato che, nella determinazione dell’identità tra più sanzioni – prima amministrativa e poi penale – relative allo stesso contegno, si deve valutare l’idem factum e non l’idem legale, in quanto indirizzo più favorevole al reo. In particolare la Corte stabilì che il cumulo tra processi - sanzioni penali - e procedimenti -sanzioni amministrative di natura penale - è ammissibile solo se finalizzato a ottenere un interesse generale, se è stabilito da norme chiare e dettagliate, se sussiste coordinamento tra i procedimenti per evitare gravami accessori e qualora si garantisca che il rigore del complesso delle sanzioni, sia limitato a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità del fatto illecito. Infine, in un’altra occasione, la Corte di Lussemburgo affermò che se è vero che le Direttive – nel caso trattato, la 2003/6/GAI sull’abuso di mercato – e – attualmente – le Decisioni Quadro, chiedono agli Stati di prevedere sanzioni che siano effettive, proporzionate e dissuasorie, è necessario rispettare la fermezza della cosa giudicata ed è opportuno applicare ad essa il ne bis in idem, in particolar modo se si tratta di sanzioni amministrative che abbiano un elevato grado di severità e per questo si classifichino quali penali – come nel caso trattato. In ragione di ciò, concluse la Corte, la prosecuzione del procedimento amministrativo volto alla condanna alla sanzione pecuniaria «eccede manifestamente quanto necessario per conseguire l’obiettivo» di protezione del Mercato Unico ed è perciò contrario al principio di proporzionalità.
3. Conclusioni
Effettuando una valutazione globale, può affermarsi che si penalizza la sola corruzione propria attraverso
fattispecie di pericolo astratto per le quali la formulazione dell’elemento soggettivo serve da contrappeso a delitti che si perfezionano indipendentemente dal compimento o omissione dell’atto da parte dell’agente corrotto, né tantomeno è necessario un successivo evento pregiudiziale, in quanto sarà sufficiente la promessa del beneficio indebito
ossia a dire, sostanzialmente la conclusione di un accordo.
In generale sembra che la normativa europea persegua – almeno esplicitamente – la protezione della leale concorrenza che, come evidenziato, già possiede tutela a livello amministrativo ed anche civile. Ciò detto, ricorrere a sanzione penale potrebbe risultare sproporzionato, e per tanto contrario alla logica di “intervento minimo” del diritto penale, eccetto se si limiti la sanzione a una ristretta parte di tali eventi che posseggano un disvalore aggiunto, ossia l’aggressione ad un altro bene giuridico. Dunque, se si volesse cercare detto quid pluris, lo si potrebbe incontrare negli effetti diretti di tali atti che, perlopiù invece, rimangono taciti nei tipi. Sviluppando tale premessa, si potrebbe dire che i beni direttamente colpiti dall’atto corruttivo tra privati siano la fiducia e la lealtà nel consesso lavorativo o anche il patrimonio imprenditoriale, la cui tutela, d’altro canto, già risulta sufficientemente svolta rispettivamente dal diritto del lavoro e dal congiunto dei delitti societari.
A confermare detto assunto c’è il dato empirico della scarsissima applicazione pratica della normativa. Per tale motivo si è parlato in dottrina di “diritto penale simbolico”, che nel presente caso oltretutto scarseggerebbe di efficacia pedagogica, posto che i possibili soggetti attivi risultano assolutamente reticenti al «messaggio esterno[2]».