Profili criminologici del minore delinquente
Profili criminologici del minore delinquente
La nozione criminologica di “adolescenza”
In epoca odierna, le neuroscienze si propongono quale unica chiave di interpretazione della delinquenza giovanile. Anzi, a parere di molti Dottrinari, tale tracotanza onnipresente della medicina finisce per svilire e svalutare il libero e prudente apprezzamento del Magistrato minorile. L'onniscienza assolutizzante della psichiatria riduce la devianza adolescenziale ad un malfunzionamento ormonale del cervello. Per tal via, l'infra-18enne infrattore viene presentato alla stregua di un malato infermo o semi-infermo di mente bisognoso di cure mediche e non di quella risocializzazione pedagogica statuita nel comma 3 Art. 27 Cost. . Purtroppo, nel trattamento penitenziario minorile, la psicoterapia finisce per sostituire l'analisi giuridica e lo psichiatra/CTU reca la sottile eppur concreta pretesa di imporre al giudice la propria interpretazione sanitaria, senza lasciare spazio alcuno alle categorie del Diritto Penale. Le neuroscienze “psicanalizzano” il reato sino al punto di affermare uno stato patologico perenne in capo all'adolescente che delinque. P.e., la summenzionata fiducia estremista nei confronti della psichiatria è rinvenibile negli anglofoni Larsen & Luna (2018)[1], a parere dei quali “l'adolescenza è una fase di grandi cambiamenti a livello cerebrale, poiché hanno luogo molti processi importanti, che tendono a facilitare lo sviluppo dei circuiti neurali vitali. Tali processi includono la riduzione della materia grigia corticali, cambiamenti nei modelli intrinseci di connettività, mielinizzazione di circuiti critici ed alterazioni dell'attività metabolica dei livelli ormonali, della densità dei recettori e dei livelli dei neurotrasmettitori.
Alcuni di questi cambiamenti si verificano prima dei 18 anni, altri si concludono solo dopo un lungo periodo di tempo”. A parere di chi scrive, Larsen & Luna (ibidem)[2] sono anch'essi vittime culturali di quel determinismo lombrosiano per il quale l'uomo delinquente altro non sarebbe che uno psicopatico in preda ad un'irrefrenabile eterolesività. Per la psicopatologia forense degli ultimi cento anni, non avrebbe alcun senso parlare di rieducazione del minorenne deviante, il quale sarebbe sempre e comunque bisognoso di cure psichiatriche anziché di percorsi risocializzativi. Questa è pure la ratio neo-retribuzionista della Giuspenalistica statunitense, che tratta il detenuto con quantità industriali di farmaci, senza alcuna apertura verso interventi di matrice pedagogica. Sicché, la medicina prende il posto del Diritto e della Criminologia nella fase dell'osservazione personologica dell'imputato. Il Magistrato, seppur non in forma esplicita, è invitato a recepire le perizie psichiatriche come se fossero la fonte di una verità assoluta, perfetta e non modificabile. La delinquenza, anche quella minorile, viene confusa con una forma di malattia mentale che toglie al ragazzo qualunque capacità di autodeterminarsi liberamente. Al giudice minorile, le neuroscienze tolgono o, perlomeno, pretendono di togliere quella fase processuale della “contestualizzazione” costituente il cardine di una norma basilare quale l'Art. 133 CP.
La psichiatria degli Anni Duemila propone di “patologizzare” ogni profilo oggettivo e soggettivo del reato, fino al punto di spersonalizzare l'infra-18enne, la cui condotta antisociale ed antigiuridica si ridurrebbe ad un insieme di difetti organici del cervello. Pertanto, viene meno la nozione umanizzante di “persona” e ciò, di conseguenza, rende inutilizzabile il comma 3 Art. 27 Cost. . Malaugurevolmente, l'esegesi apoditticamente neuroscientifica della “maturità” del reo è presente pure in Herting & Sowell (2017)[3], secondo cui la capacità d'intendere e di volere sarebbe riducibile “al processo di maturazione delle fibre nervose, consistente nella copertura di queste con la guaina mielinica prodotta dagli oligodendrociti, cellule gliali specializzate nel fornire sostegno e nutrimento alle cellule nervose del sistema nervoso centrale. Il processo di mielinizzazione è fondamentale per il buon funzionamento delle cellule nervose, ma non è completo già alla nascita per tutte le aree cerebrali. Le aree associative del lobo frontale vanno infatti incontro a mielinizzazione completa soltanto in corrispondenza con la fine dell'adolescenza”. Ecco, di nuovo, in Herting & Sowell (ibidem)[4] il mito fuorviante e pericoloso di una medicina onnipotente ed onnipresente, a parere della quale il libero arbitrio dell'infrattore in età minorile sarebbe annichilito o, ognimmodo, grandemente scemato a causa di tare ereditarie che, in maniera automatica, spingono l'adolescente verso l'antigiuridicità penalmente rilevante. In buona sostanza, delinque il cervello e non l'individuo nella sua integrità personale. Per conseguenza, non avrebbe alcun senso rieducare il minore, perennemente e cronicamente affetto da patologie psichiche invalidanti.
Viceversa, il Diritto Penale nega una sussistenza ineludibile e deterministica dell'infermità o della semi-infermità di mente. Il Magistrato minorile è tenuto a contestualizzare e non ad accettare a-criticamente le valutazioni del CTU. Meno apodittico è l'italiofono Maggiolini (2019)[5], secondo il quale “dal momento che la corteccia prefrontale raggiunge la sua maturazione tra i 18 ed i 20 anni, i giovani, prima di questa età, non solo hanno minore capacità di controllare le emozioni, ma anche la valutazione delle loro azioni non è in una fase di piena maturità. Ne consegue una maggiore irruenza ed una inadeguata possibilità di controllo dell'impulsività, assieme ad un accentuato amore per il rischio […] . E' importante chiedersi se gli adolescenti di oggi raggiungono la maturità necessaria per rendersi conto del disvalore delle proprie azioni anche prima del compimento del 14.mo anno d'età, soglia fissata dal Legislatore penale italiano per l'imputabilità minorile”.
Come si può notare, Maggiolini (ibidem)[6] si manifesta meno supino nei confronti delle neuroscienze e lascia spazio ad un'analisi che sia anche giuridica e criminologica, senza ipostatizzare le sole interpretazioni mediche. In effetti, il medesimo Maggiolini (ibidem)[7] osserva che “alla metà dell'Ottocento, l'esordio puberale era tra i 15 ed i 16 anni, mentre attualmente, per la maggior parte delle ragazze, si situa a ridosso dell'ingresso nelle scuole medie (12 anni circa). Lo sviluppo dei maschi ha lo stesso andamento, con un ritardo di 1-2 anni”. Del pari, pure Twenge (2018)[8] offre un approccio non solo medico alla categoria della “maturità” dell'ultra-13enne; ovverosia, egli mette in evidenza che “l'anticipazione della pubertà, tuttavia, non comporta necessariamente una parallela anticipazione della maturazione e dei comportamenti adulti. L'attuale generazione di adolescenti, i cc.dd. nativi digitali, è caratterizzata da una tendenza al ritiro sociale più che all'esternalizzazione dei comportamenti impulsivi ed aggressivi. I giovani d'oggi sono meno ribelli, più infelici e tendono a ritardare le tappe di ingresso nel mondo adulto, invece di anticiparle. V'è, quindi, negli adolescenti di oggi, un rallentamento e non un'accelerazione dello sviluppo, nonostante l'anticipo della pubertà”.
A parere di chi commenta, gli asserti di Twenge (ibidem)[9] risultano assi preziosi ed apprezzabili in tanto in quanto il testé menzionato Dottrinario ha il coraggio anti-lombrosiano ed anti-scientista di affrancare il Diritto Penale minorile dall'egemonia spavalda ed assolutizzante delle neuroscienze. Dunque, la devianza antinormativa degli infra-18enni viene finalmente percepita nel contesto della propria genesi multifattoriale. Il grado di capacità d'intendere e/o di volere dell'adolescente ha diverse con-cause e non è limitato al solo buon funzionamento delle secrezioni cerebrali. La “maturità” dipende, per esempio, pure dall'apporto (dis)educativo delle agenzie di controllo, come la scuola, la famiglia od il gruppo religioso o etnico di provenienza. Decisivo risulta pure il ruolo dell'eventuale precarietà abitativa.
Provvidenzialmente, Fusar Poli (2019)[10] propone una visione “non psichiatrizzante” della devianza minorile e, con un'oggettività non estremista, asserisce che “con riferimento al comportamento […] deviante, alcuni Studi dimostrano che numerosi disturbi psichiatrici emergono, salvo alcune eccezioni, dai 14 anni in poi. In linea generale, tuttavia, l'età media di insorgenza di alcune patologie psichiatriche oggi si sta abbassando rispetto al passato”. Come si nota, Fusar Poli (ibidem)[11] analizza il disagio comportamentale degli adolescenti anche dal punto di vista psicologico, ma senza idolatrare le neuroscienze come se fossero l'unica via interpretativa percorribile.
Anche a parere di chi commenta, un conto è parlare di sofferenze psicologiche dell'infrattore minorenne; un altro conto è ridurre l'intera delinquenza giovanile ad un presunto malfunzionamento del cervello. Una fiducia incondizionata ed assolutizzante nei confronti della ricerca neuroscientifica conduce ad un abuso della nozioni di infermità e di semi-infermità mentale ex Artt. 88 ed 89 CP. P.e., il ragazzo di etnia rom raramente soffre di turbe mentali invalidanti e, anzi, dimostra quasi sempre una perfetta lucidità quando delinque. In epoca contemporanea, inoltre, sono assai diffusi, nella fase dell'adolescenza, disturbi del carattere che nulla hanno a che fare con il concetto penalistico di “vizio di mente”. Viceversa, ipostatizzare sempre e comunque l'analisi psichiatrica del reo comporta un triste ritorno al determinismo criminologico di Lombroso e Ferri. Da notare, sempre in Fusar Poli (ibidem)[12] è l'osservazione secondo cui capita all'Operatore di verificare, già verso gli 11 anni d'età, l'insorgenza di forti “disturbi d'ansia” uniti ad una “incapacità di controllare gli impulsi”, ma ciò non sminuisce la pertinenza tecnico-applicativa degli Artt. 97 e 98 CP. Ovverosia, l'infra-14enne ansioso ed eterolesivo non deve entrare nei circuiti rieducativi della Giuspenalistica e, specularmente, almeno entro certi limiti, l'ansia e l'aggressività sono caratteristiche ordinarie riscontrabili in qualunque soggetto normale di età compresa tra i 14 ed i 17 anni. La crescita post-puberale implica problemi psicologici che, tuttavia, non sfociano nell'ambito della patologia o, peggio, dell'invalidità.
Del pari, anche l'italiofono Cerasa (2019)[13] invita a coniugare medicina, pedagogia e Criminologia, in tanto in quanto, come evidenziato da tale Autore, “le attuali capacità diagnostiche sono nettamente migliorate negli ultimi vent'anni, grazie alla grande innovazione che ha interessato numerosi campi della medicina. [Ma], in secondo luogo, posto che svariate forme di disagio mentale sono fortemente influenzate da fattori esterni come la pressione sociale e lo stress ambientale, si ritiene molto probabile che anche i cambiamenti [comportamentali], nella loro insorgenza, siano connessi ai cambiamenti sociali che hanno caratterizzato le società occidentali nell'ultimo ventennio”. Giustamente, Cerasa (ibidem)[14] non assolutizza l'apporto della medicina nell'analisi della “maturità” del delinquente infra-18enne. Pertanto, il summenzionato Dottrinario, anche alla luce dell'Art. 133 CP, esorta il Magistrato minorile a contestualizzare il reato alla luce dell'eventuale criminogenesi provocata da famiglie tossiche, gruppi dei pari devianti e metodi scolastici fallimentari ed inadeguati. Cerasa (ibidem)[15] ha il merito di non aver disgiunto la psichiatria dalla Criminologia forense, la quale mette sempre al centro l'eventuale dis-educatività delle agenzie di controllo. Il minorenne deviante è figlio di un “ambiente” malsano e la sua spinta antisociale ed antigiuridica non è solamente il frutto di un cervello malato o distonico. La capacità d'intendere e di volere del reo infra-18enne va sempre contestualizzata all'interno della Heimat familiare, scolastica, sociale ed abitativa che ha agevolato l'atto illecito. La psicologia è uno degli approcci ermeneutici esperibili, ma non si tratta di un metodo d'analisi infallibile o assolutamente certo.
D'altronde, l'intera Dottrina penalistica, unitamente alla Giurisprudenza, sostiene che il Magistrato è tenuto ad una costante, incessante e perenne “contestualizzazione” del delitto o della contravvenzione, come dimostra l'Art. 133 CP, ma anche la ratio stessa di “circostanza” aggravante o, all'opposto, attenuante. E' assurdo pensare ad un giudice che applichi il Diritto Minorile sulla sola base degli asserti contenuti nella perizia psichiatrica allestita dal medico/CTU. La Criminologia degli Anni Duemila necessita di una valutazione complessiva della personalità dell'ultra-13enne, ma la medicina, essa soltanto, non è in grado di compiere un'osservazione personologica autenticamente ed utilmente organica nonché umanizzante. Affidarsi esclusivamente alla psicopatologia significa togliere dignità al reo abbassandolo al livello di un animale malato da neutralizzare.
A tal proposito, magistralmente Legrenzi & Umiltà (2009)[16] affermano che “il cervello non spiega chi siamo […] il comportamento delle persone non dipende in via esclusiva dal loro livello di maturazione cerebrale. Ciò che, a livello comportamentale, fa la differenza tra gli individui è, in gran parte, l'ambiente o il contesto di vita, che permette al singolo giovane di crescere più o meno velocemente. Insomma, la cerebralizzazione dell'essere umano non può, da sola, risolvere l'annoso dilemma sull'età dell'imputabilità”. Come si può notare, Legrenzi & Umiltà (ibidem)[17] rimarcano che l'analisi medica e le neuroscienze non possono costituire una chiave di lettura universale e priva di lacune. Il Diritto Penale Minorile deve mantenere una propria autonomia che gli consenta di non dover interpretare gli Artt. 97 e 98 CP dal punto di vista riduttivo della psichiatria. Quindi, il “grado di capacità d'intendere e di volere” ex comma 1 Art. 98 CP è e deve rimanere, anzitutto e soprattutto, una categoria giuridica non monopolizzabile da parte delle neuroscienze, le quali debbono agevolare il ruolo del Magistrato senza sostituirlo in sede peritale. Anzi, nei casi di reati bagatellari, il giudice minorile ha il diritto di decidere la sanzione criminale maggiormente idonea e ragionevole senza l'ausilio di alcuna perizia psichiatrica. Similmente, Zuo & He & Betzel & Colcombe & Sporns & Milham (2017)[18], pur manifestando una discreta fiducia nei confronti delle neuroscienze, sostengono che i concetti di “maturità” e di “imputabilità” non sono riferibili quasi mai ad un soggetto minore degli anni 14.
Parimenti, Berlucchi & Camaldo & Cerasa & Lucchelli & Maggiolini & Martelli & Rudelli & Saottini & Scivoletto & Strata & Tantalo (2019)[19] precisano che “non sappiamo -neuro-biologicamente parlando- se le generazioni d'oggi si sviluppino più velocemente rispetto a quelle del secolo scorso […] perché, anche se fossimo in grado di affermare, in maniera scientificamente fondata, che si è effettivamente verificata un'accelerazione nel neuro-sviluppo negli ultimi anni (grazie, ad esempio, ad un'alimentazione più equilibrata, ad una migliore vaccinazione ed a condizioni ambientali più favorevoli), con ciò non avremmo comunque risolto il problema della definizione dell'età imputabile”.
La criminogenesi “di gruppo” durante l'adolescenza
Le neuroscienze e, più latamente, la psichiatria non tengono sufficientemente conto del ruolo del gruppo dei coetanei durante la fase dell'adolescenza. D'altra parte, è evidente che, spesso, le patologie ambientali sono maggiormente decisive rispetto alle meno frequenti invalidità mentali. Infatti, la “tossicità” sociologica di un'agenzia di controllo può influenzare negativamente l'intera vita dell'infra-18enne. Secondo Zani & Pombeni (1997)[20], “dal punto di vista scientifico si è appurato che l'ingresso anticipato nella pubertà non ha aumentato la maturità degli adolescenti, mentre si è allungato il periodo in cui questi sono esposti alle possibili conseguenze derivanti dall'immaturità cerebrale […] . Lo sviluppo dell'identità nell'adolescente rappresenta un processo complesso, caratterizzato da diversi fattori, nel quale un ruolo fondamentale hanno i diversi gruppi primari in cui il soggetto è inserito. Così, se la famiglia, con il suo appoggio, favorisce la crescita psicologica del ragazzo, non bisogna trascurare un'altra area tradizionalmente associata all'adolescenza, ovvero la possibilità di instaurare relazioni significative con i coetanei”. Ecco, dunque, che Zani & Pombeni (ibidem)[21], con lodevole precisione scientifica, evidenziano che l'ultra-13enne può patire la criminogenesi derivante da un gruppo amicale deviante, come dimostra il frequente consumo collettivo di stupefacenti e/o bevande alcoliche.
Oppure ancora, il c.d. “fattore branco” è sovente all'origine del delitto di violenza sessuale di gruppo. Un'altra prova dell'importanza dell'influsso dei coetanei si manifesta pure nella commissione di reati quali il furto, la rapina o il danneggiamento. Senza dubbio e senza dover scomodare la tracotante sapienza delle neuroscienze, la mancanza di un autorevole controllo genitoriale favorisce, nel minorenne, aggregazioni poco trasparenti che inducono a trasgressioni antinormative. Tutto ciò è ben confermato da Gatti (2010)[22], ossia “l'influenza del gruppo si può esercitare in diversi modi: da un lato, se si tratta di coetanei ben socializzati, può rappresentare un importante fattore di protezione, mentre il contatto con coetanei devianti o, addirittura, l'appartenenza ad una vera e propria banda costituisce uno dei più significativi fattori di rischio della delinquenza giovanile”. Pertanto, anche Gatti (ibidem)[23] mette in risalto la natura basilare della “socialità” del minore. Trattasi di un approccio criminologico che, a parere di chi redige, vale ben più delle analisi incerte e fors'anche affrettate della ricerca neuroscientifica. Interpretare le aggregazioni eventualmente o potenzialmente devianti del giovane vale molto di più di un ripetitivo discorso medico sui neuroni e sulle aree cc.dd. “malate” del cervello. Un gruppo di coetanei non idoneo nuoce assai di più di una secrezione ormonale erronea.
Con ragionevolezza e pragmatismo, Brown & Lohr & McClenahan (1986)[24] notano come “alcuni Studi hanno dimostrato che avere amici ben socializzati riduce, negli adolescenti, il coinvolgimento in comportamenti antisociali”. In maniera analoga e senza far ricorso alle stanchevoli formule della psicopatologia, Fergusson & Lynskey (1996)[25] osservano pur'essi che “un gruppo pro-sociale sembra diminuire l'impatto dei fattori di rischio”. Dal canto suo, lo statunitense Elliott (1993)[26] mette in evidenza che “la disapprovazione della delinquenza da parte degli amici riduce la probabilità che in seguito vengano commessi reati violenti in generale”. Specularmente, Warr (2002)[27] asserisce che “il contatto con coetanei devianti ha un notevole effetto criminogeno. Questo effetto cresce durante l'adolescenza ed è maggiore se le interazioni in famiglia sono povere o inadeguate […] il legame con amici devianti è spesso la premessa per una precoce messa in atto di comportamenti antisociali”.
Come si può notare, tutti i summenzionati Autori anglofoni hanno esposto le loro tesi senza dover dipendere supinamente da un approccio psichiatrico, giacché, come volevasi dimostrare, la medicina non è né l'unica né la principale via da seguire al fine di comprendere e prevenire la devianza adolescenziale. Analizzare la criminogenesi nel gruppo dei pari non ha alcunché a che fare con lo studio di presunti malfunzionamenti cerebrali. Né, tantomeno, all'infra-18enne si debbono necessariamente applicare le categorie del vizio totale o parziale di mente ex Artt. 88 ed 89 CP.
La cronaca giornalistica degli Anni Duemila parla, con cadenza pressoché quotidiana, di un allarme, vero o presunto che sia, afferente alla “bande” giovanili dedite al crimine. A tal proposito, Klein & Kerner & Maxson & Weitekamp (2001)[28] precisano che “vi è un'importante relazione tra il comportamento degli adolescenti e le bande giovanili, che possono essere definite come gruppi relativamente stabili, la cui identità di gruppo include, almeno in parte, la delinquenza”; il tutto, a parere di chi scrive, sempre ammesso e non concesso che gli allarmi sociali qui in parola non siano frutto di demagogie giornalistiche o, financo, politiche.
Con la debita prudenza, da citare sono pure Quinton & Pickles & Maughan & Rutter (1993)[29], secondo i quali “il recente risalto dato dai media ad alcuni casi eclatanti di delinquenza e di azioni criminose, anche particolarmente violente, commesse da gruppi di adolescenti, ha focalizzato l'attenzione su quello che differenzia normali gruppi di ragazzi, quelli che ogni tanto trasgrediscono le regole, da quelli che diventano violenti, che si trasformano in baby gangs, fenomeno che oggi tanto preoccupa la pubblica opinione”. Nuovamente, chi commenta percepisce come presenti e fuorvianti i populismi di una cronaca televisiva xenofoba ed ipertrofica. Entro un'ottica più scientificamente criminologica, Novelletto (2001)[30] precisa, anzitutto, che “diventa centrale riuscire a capire le dinamiche che trasformano il gruppo in una banda, intesa, appunto, come aggregazione patologica, governata da meccanismi di coesione (se non di fusione) che rispondono al bisogno di alleviare le proprie frustrazioni e paure grazie alla condivisione con quelle di altri”. Quindi, anche in Novelletto (ibidem)[31], l'analisi criminologica si affranca dalle categorie puramente mediche della psichiatria. Del pari, anche Maggiolini (ibidem)[32], senza l'utilizzo trito e retrito della psicopatologia forense, osserva che, sotto il profilo della Criminologia e della Giuspenalistica, “il gruppo dei pari rappresenta, per l'adolescente, una zona intermedia che facilita il passaggio dal mondo dell'infanzia a quello adulto, dalla famiglia alla società, sino a diventare un riferimento anche dal punto di vista normativo, tanto che i comportamenti e gli atteggiamenti vengono generalmente uniformati a quelli dei coetanei”.
Nella realtà quotidiana, è impossibile azzerare la criminogenesi dei/nei gruppi minorili; tuttavia, un conto è l'aggregazione dedita a contestazioni non violente, un altro conto sono le vere e proprie associazioni per delinquere con finalità eterolesive. Con afferenza a siffatta tematica, De Leo (1998)[33] precisa che “appare necessario, con riguardo al gruppo come per il singolo, tracciare confini concettuali tra azioni di trasgressione, che assumono una funzione di crescita per i soggetti, e le azioni [specificamente, ndr] delinquenziali. In particolare, è opportuno riflettere sulla distinzione tra i significati espressivi dell'agire deviante e le sue dimensioni più tipicamente strumentali. Queste ultime, prevalenti nella classica banda dedita abitualmente ad atti delinquenziali con la finalità di trarre profitto, appaiono più evidenti nei gruppi di giovani presenti nella realtà italiana”. Pertanto, De Leo (ibidem)[34] reputa che non debbono destare particolari allarmi i gruppi di adolescenti che si rendono responsabili di devianze contestatorie bagatellari ed episodiche. Viceversa, la PG e l'AG debbono reprimere associazioni informali di infra-18enni costituite per delinquere. In tal caso, ma solo in tal caso, gli allarmi dei mass media risultano legittimi, purché non amplificati al fine della raccolta di consensi elettorali.
Seriamente criminologica è pure l'analisi di Howell (1998)[35], secondo cui “lo studio delle bande giovanili comporta, come prima difficoltà, l'individuazione del significato da attribuire ai termini baby gang. Alcuni Criminologi considerano come gang i gruppi di adolescenti che mettono in atto forme meno serie di violazioni della legge; altri le semplici aggregazioni di adolescenti problematici, percepiti dalla società come un problema. Nonostante la varietà delle definizioni, la maggior parte di esse include degli elementi comuni: gruppi auto-formati che hanno interessi condivisi, che controllano uno specifico territorio o commercio [di stupefacenti, ndr], che usano dei simboli particolari di comunicazione e sono collettivamente coinvolti nel crimine […]. La youth gang è tipicamente composta solo da giovani, ma può includere, tra i suoi membri, anche degli adulti”. Quindi, come si vede, Howell (ibidem)[36], nel solco abolizionista di Nils Christie, invita il Magistrato minorile a distinguere tra le bizzarrie di un'antisocialità giovanile innocua e, dall'altro lato, i gruppi di ultra-13enni che delinquono concretamente e pericolosamente, turbando la pace sociale.
La violenza eterolesiva è il limite superato il quale la baby gang inizia a porsi contro l'Ordinamento giuridico; per conseguenza, il Diritto Penale Minorile è tenuto a reprimere associazioni minorili antinormative e non soltanto e bonariamente borderline. La violenza costituisce quel quid pluris che distingue tra la normale contestazione giovanile e la non legittima antigiuridicità. D'altra parte, nelle sue Opere degli Anni Duemila, anche lo scandinavo Christie separava l'eccentricità di ragazzi vivacemente attivi dalla commissione di veri e propri reati che infrangono il “contratto sociale” di groziana memoria. P.e., uno schiamazzo notturno o una bevuta in compagnia non reca la medesima gravità di una lesione personale o di uno stupro. Inoltre, sotto il profilo statistico, rincuora il fatto che il fenomeno delle baby gangs violente sia, almeno per ora, poco diffuso in territorio italiano. P.e., Paternostro (2015)[37] rileva che “le bande giovanili si sono sviluppate soprattutto negli USA […]. Le ricerche [sul tema] utilizzano ipotesi molto articolate, che spesso si differenziano tra loro per impostazione e strumenti d'analisi, talvolta contraddicendosi nei risultati. Tuttavia, la maggior parte di questi Studi riconduce l'esistenza di gangs minorili a tre ordini di spiegazioni: la disorganizzazione sociale, l'esistenza di una sottocultura delle classi inferiori e lo sviluppo di ideali, norme e valori propri della banda criminale”. Anche in Messico, le baby gangs costituiscono una forma aggregativa eziologicamente riconducibile al disagio delle porzioni di residenti più emarginate e prive di ordinari sbocchi culturali e lavorativi.
Dunque, il tessuto sociologico italiano, per il momento, presenta epifenomeni di degrado diversi e meno esasperati. Assai lucida, sempre con attinenza agli USA, appare l'interpretazione di Jankowski (1991)[38], ovverosia, per tale Dottrinario, “le bande rappresentano una risposta alla mancanza di opportunità di crescita sociale tipica dei sobborghi delle città statunitensi. In questo contesto, l'aggregazione in gruppo produce un diverso ordine sociale, alternativo, quasi privato, governato da una struttura di leadership che ha ruoli definiti, ove l'autorità ad essa associata passa attraverso un meccanismo di legittimazione. In rapporto al territorio,la gangs si impone ai residenti, che devono accettarla come parte integrante del quartiere, al quale, quasi in un mutuo scambio, deve fornire servizi, in cambio di sostegno, in termini di protezione dalla polizia e dalle altre gangs”. Nuovamente, Jankowski (ibidem)[39] descrive un modello di disagio collettivo che è assai lontano dall'odierna situazione italiana. Probabilmente, il degrado tipico degli USA è riscontrabile nelle periferie parigine, anch'esse ostaggio di baby gangs di origine nordafricana. Analoga osservazione vale pure per la maggior parte degli Stati sudamericani, in cui stupefacenti e bande giovanili sono un binomio inscindibile.
Senza dubbio, sotto il profilo meta-temporale e meta-geografico, come sottolinea Thrasher (1927)[40], “le bande nascono da specifici bisogni dei giovani sotto-privilegiati, residenti in aree interstiziali delle grandi città. Esse sono di origine spontanea e raccolgono i ragazzi che vivono in strada e sono legati ad uno specifico territorio, i quali maturano lentamente una consapevolezza ed una tradizione comune, la cui difesa induce alla solidarietà ed alla lealtà verso i capi”. Parimenti, D'Eramo (2004)[41] specifica che, negli USA, vi sono, nelle grandi metropoli, “molti giovani organizzati su zone interstiziali delle città, zone della rottura dei valori sociali”. Di nuovo, il malessere morale dell'infra-18enne si trasforma in decisioni antinormative.
Da segnalare è pure Yablonsky (2009)[42], il quale mette in evidenza che “le bande criminali esercitano una violenza brutale fine a se stessa, per dimostrare ai loro membri un dato appariscente nella sua banalità: quello di essere e sentirsi vivi”. Tuttavia, ancora una volta, chi commenta nota che le baby gangs italiane, almeno per il momento, non raggiungono i preoccupanti livelli di aggressività sistematica posti in essere nel contesto statunitense. Perciò, è quantomai necessario dissociarsi dagli allarmismi demagogici di una certa cronaca nera politicizzata e morbosa. P.e., con afferenza agli USA, Klein (1995)[43] puntualizza che “l'appartenenza ad una gang intensifica il comportamento criminale, favorendo la commissione di reati più gravi”, ma, nell'Europa meridionale, si riscontrano livelli di violenza maggiormente lievi, salvo taluni gravi episodi che alimentano la fantasia collettiva e le ansie nazional-popolari.
[1]Larsen & Luna, Adolescence as a neurobiological critical periode for the development og higerorder cognition, in Neuroscience and Biobehavioral Review, 94, 2018
[2]Larsen & Luna, op. cit.
[3]Herting & Sowell, Puberty and structural brain development in humand, in Front Neuroendocrinol, 44, 2017
[4]Herting & Sowell, op. cit.
[5]Maggiolini, L'imputabilità del minorenne, in Diritto penale e uomo, 6 novembre 2019
[6]Maggiolini, op. cit.
[7]Maggiolini, op. cit.
[8]Twenge, Iperconnessi. Perché i ragazzi oggi crescono meno ribelli, più tolleranti, meno felici e del tutto impreparati a diventare adulti, Einaudi, Torino, 2018
[9]Twenge, op. cit.
[10]Fusar Poli, Integrated Mental Health Services for the Developmental Period, 2019
[11]Fusar Poli, op. cit.
[12]Fusar Poli, op. cit.
[13]Cerasa, Lezione presso l'Università “Magna Grecia” di Catanzaro pubblicata su Diritto penale e uomo, 11, 2019
[14]Cerasa, op. cit.
[15]Cerasa, op. cit.
[16]Legrenzi & Umiltà, Neuro-mania, il cervello non spiega chi siamo, Il Mulino, Bologna, 2009
[17]Legrenzi & Umiltà, op. cit.
[18]Zuo & He & Betzel & Colcombe & Sporns & Milham, Human Connectomics across the Life Span, in Trends Cogn. Sci., 21(1), 2017
[19]Berlucchi & Camaldo & Cerasa & Lucchelli & Maggiolini & Martelli & Rudelli & Saottini & Scivoletto & Strata & Tantalo, Abbassare a 12 anni la soglia dell'imputabilità ? Uno scambio di opinioni in tema di imputabilità minorile alla luce della recente proposta di legge, in Diritto penale e uomo, 11, 2019
[20]Zani & Pombeni, L'adolescenza: bisogni soggettivi e risorse sociali, Il ponte vecchio, Cesena, 1997
[21]Zani & Pombeni, op. cit.
[22]Gatti, Delinquenza giovanile, in Psichiatria forense, criminologia ed etica psichiatrica, Feltrinelli, Milano, 2010
[23]Gatti, op. cit.
[24]Brown & Lohr & McClenahan, Early adolescents perceptions of peer pressure, in Journal of Early Adolescence, 1986
[25]Fergusson & Lynskey, Adolescent resiliency to family adversity, in Journal of Child Psychology and Psychiatry, 38, 1996
[26]Elliott, Serious Violent Offenders: Onset, Developmental Course, and Termination, in The American Society of Criminology, Volume 32, 1993
[27]Warr, Companions in Crime: The Social Aspects of Criminal Conduct, in Cambridge University Press, 2002
[28]Klein & Kerner & Maxson & Weitekamp, The Eurogang Paradox: Street Gangs and Youth Groups, Kluwer Academic Publisher, Dordrecht, 2001
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[31]Novelletto, op. cit.
[32]Maggiolini, op. cit.
[33]De Leo, Psicologia della responsabilità, Laterza, Bari, 1998
[34]De Leo, op. cit.
[35]Howell, Youth Gangs: an overview, in Juvenile Justice Bulletin, August 1998
[36]Howell, op. cit.
[37]Paternostro, Bande giovanili. La cultura delle gang, in Gioventù fragile. I nuovi contorni della devianza e della criminalità minorile, Franco Angeli, Milano, 2015
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[39]Jankowski, op. cit.
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[41]D'Eramo, Il maiale e il grattacielo: Chicago, una storia del nostro futuro, Milano, 2004
[42]Yablonsky, The Violent Gang, Paperback, 3 June 2009
[43]Klein, The American Street Gang: Its Nature, Prevalence, and Control (Studies in Crime and Public Policy), Oxford University Press, Oxford/New York, 1995