Le radici etnico-culturali della delittuosità

Bianco e nero
Ph. Paolo Panzacchi / Bianco e nero

Le radici etnico-culturali della delittuosità

 

Introduzione

La multiculturalità delle società contemporanee ha stravolto l'idea di un Diritto Penale collettivamente condiviso dalla maggior parte dei consociati. P.e., in epoca odierna, la ratio illuministica della “égalité” ha subito dei correttivi non indifferenti, in tanto in quanto esistono minoranze etniche non integrate che tendono a spostare l'ago della bilancia verso le tradizioni giuridiche del gruppo di provenienza. A tal proposito, Tarello (1976)[1] ha precisato che “[di solito] tutti i soggetti dell'Ordinamento hanno gli stessi diritti, gli stessi obblighi, le stesse libertà, le stesse prerogative e […] la stessa posizione nei confronti della legge penale. Si tratta, in altri termini, del principio di irrilevanza delle caratteristiche individuali di fronte alla generalità ed astrattezza della legge in generale, e della legge penale in particolare, principio che subisce rare attenuazioni, che possono riguardare, ad esempio, la determinazione della pena in concreto, ma che non investono l'applicazione della norma penale in quanto tale. In termini ancora diversi, si tratta della declinazione soggettiva del principio di uguaglianza, che vale nel Diritto Penale non meno che nelle altre aree dell'Ordinamento”. In buona sostanza, Tarello (ibidem)[2] manifesta un radicale sfavor nei confronti della predominanza delle usanze locali sul Diritto Penale ordinamentalmente costituito. P.e., il genitore di tradizione islamica non può essere legittimato a far infibulare la figlia in tanto in quanto ciò è legale e, anzi, normale nel Paese d'origine. Oppure, il matrimonio forzato costituisce un'usanza che è e rimane delittuosa nei sistemi penali occidentali. Oppure ancora, l'imposizione del velo alla moglie non giustifica eccezioni al Diritto Penale delle nazioni europee e nordamericane. Nella Giuspenalistica, dunque, la ratio dell'eguaglianza reca una priorità tassativa, non derogabile nel nome di tradizioni socio-religiose non autoctone.

Sotto il profilo storico-giuridico, la regola della rigida eguaglianza, nel Diritto Penale, è nata con la rivoluzione francese, la quale ha annichilito quel sistema feudale che prevedeva l'esistenza di “Stati nello Stato” differenziati a seconda del ruolo sociale ricoperto. Tale ferrea égalité penalistica è stata confermata pure nei primi Codici dell'Ottocento, fondati, a loro volta, sulle Costituzioni liberal-democratiche. Come prevedibile, tuttavia, siffatto egualitarismo non ha di certo avuto vita facile, come dimostra la discriminazione degli afroamericani ed il genocidio in danno degli Ebrei. D'altronde, anche Facchi (2007)[3] ricorda che “nell'Italia unita, i diritti elettorali erano attribuiti per censo ed il voto alle donne venne concesso solo nel 1946”.

E' altrettanto fondamentale rimarcare che un Diritto Penale cogente erga omnes è nato con lo Stato-nazione tassativamente egualitario e non contemplante privilegi per minoranze o sotto-gruppi distinti. In effetti, Twining (2000)[4] mette in evidenza che “convenzionalmente, si fa risalire l'origine degli Stati nazionali alla pace di Westfalia; siamo, dunque, nel 1648, ma è soprattutto nella seconda metà dell'Ottocento, con l'unificazione italiana e quella del Reich tedesco, che il quadro degli Stati-nazione viene a delinearsi con maggiore chiarezza”. Questo legame tra Stato-nazione ed eguaglianza totale nella/della Giuspenalistica è messo in rilievo pure da Ferrajoli (2007)[5], ovverosia “il Diritto [soprattutto quello penale, ndr] si configura [solo] sulla misura dello Stato-nazione: i confini territoriali dello Stato sono anche i confini della sovranità e dell'Ordinamento giuridico. Sono, infatti, nazionali le costituzioni, i codici, le leggi e le regole di cittadinanza. Entro i suoi confini, lo Stato-nazione produce ed attua il Diritto e realizza i principi di eguaglianza e di unità del soggetto di Diritto, in generale ed anche nell'ambito del Diritto Penale”.

Ferrajoli (ibidem)[6] intende precisare che soltanto una piena sovranità interna dello Stato produce eguaglianza avanti al sistema penalistico. Viceversa, negli Stati tribali o feudali, rimane un ampio spazio per i delitti culturalmente motivati e, soprattutto,, attenuati o scriminati sotto il profilo sanzionatorio. Ciononostante, la sovranità statale e l'uniformazione territoriale del Diritto non sempre si sono abbinate ad una democrazia pacifica e rispettosa dei diritti umani. Infatti, Stella (2006)[7] rileva che “la storia si incarica di dare dure smentite alla concettualistica giuridica. La formazione della più grande democrazia del mondo si fonda, oltre che sulla schiavitù, sullo sterminio sistematico delle tribù indiane, sino alla creazione di riserve per i superstiti; la storia del Novecento è piena di discriminazioni e di pulizia etniche. Non di rado, dunque, la creazione dello Stato-nazione unitario ed omogeneo è passata attraverso l'oppressione e la violenza. Tutto ciò non ha comunque impedito alla cultura giuridica di coltivare il mito dello Stato-nazione, insieme a quello dell'eguaglianza dei suoi cittadini”. Dunque, va abbandonata l'idea di una unificazione indolore del Diritto Penale. Generare una stabile sovranità su di un determinato territorio reca sovente alla conculcazione dei diritti dell'uomo, anche se ciò, nel lungo periodo, scompare e lascia il posto a valori autenticamente democratici.

Tuttavia, per onestà culturale, non si può negare che, dopo gli Anni Quaranta del Novecento, è entrata in crisi la ratio dello Stato sovrano che propone/impone un Diritto Penale uniforme ed unitario. In primo luogo, come osservato da Portinaro (2007)[8], in epoca contemporanea, gli Stati si sono auto-limitati cedendo una parte del loro potere sovrano ad Istituzioni sovranazionali; più nel dettaglio, a parere del predetto Autore, “[esiste] un'espansione della dimensione sovranazionale delle Organizzazioni politiche ed economiche, che, in larga misura, intacca l'autonomia ed anche la sovranità degli Stati-nazione. Basti pensare alla lunga e pure problematica formazione dell'Unione Europea, o al ruolo svolto da Organizzazioni come le Nazioni Unite o il WTO”. Si noti, ognimmodo, che Portinaro (ibidem)[9]parla di un'autolimitazione non coattiva della propria sovranità attuata da parte degli Stati stessi. Dopodiché, inevitabilmente, una minore sovranità interna tange pure le fonti del Diritto interno. In altre parole, come messo in risalto da Cassese (2003)[10], “nell'ambito specifico della giustizia penale, la pur difficile esperienza delle corti penali internazionali mostra come, anche in questo settore, possano essere superati i limiti tradizionalmente segnati dalla territorialità dello Stato”.

Anche secondo Damaška (2006)[11], accettare la cogenza di una corte internazionale comporta inevitabilmente una deminutio volontaria della sovranità giurisdizionale interna dell'Ordinamento; sicché il Diritto Penale viene ad avere fonti di produzione non statal-nazionali, non autoctone e non completamente indipendenti. Anzi, secondo Friedman (2002)[12] gli Stati contemporanei manifestano sempre meno sovranità “[a causa dell'] ormai noto fenomeno della globalizzazione economica, culturale ed anche giuridica”, il che apre la via all'ambigua figura dei reati culturalmente motivati”. Del pari, secondo Sen (2002)[13] la globalizzazione ha notevolmente intaccato l'autonomia nomogenetica di un ambito estremamente decisivo quale quello della Giuspenalistica. P.e., Irti (2006)[14] parla dell'esistenza di un Diritto Penale globale definito “geodiritto”, ovverosia un Diritto Penale proposto e, sempre più spesso, imposto dalle corti internazionali meta-geograficamente riconosciute dalla comunità sovranazionale. Addirittura, Ferrarese (2006)[15] utilizza i lemmi “Diritto [Penale] sconfinato”, in tanto in quanto “la dimensione globale dei fenomeni economici e commerciali provoca profonde trasformazioni nel mondo giuridico”.

Ecco, di nuovo, l'internazionalizzazione centripeta delle fonti di produzione del Diritto Penale, anche se, con cauta moderazione, Ferrarese (2000)[16] specifica pure che, in ogni caso, “il Diritto nazionale non sparisce, e non è prevedibile che perda la sua funzione, ma è altrettanto evidente che il Diritto transnazionale o sovra-nazionale è destinato ad occupare uno spazio sempre maggiore”. Il pensiero di chi redige corre alla CEDU in materia di diritti dei detenuti e delle minoranze attive. Oppure ancora, si ponga mente alla liberticida normativa dell'UE in tema di agricoltura e tutela dell'ambiente. Gli Anni Duemila, pertanto, stanno assistendo alla progressiva disgregazione auto-limitante di quel principio di sovranità che costituiva uno dei capisaldi delle teorie novecentesche di Kelsen.

Similmente, secondo Robertson (1998)[17], lo Stato-nazione, autonomo nella genesi del Diritto Penale è entrato in crisi anche a causa della “glocalizzazione […] [che è] una specie di contrappasso in virtù del quale l'affermarsi sempre più diffuso e penetrante di una cultura globalizzata fa emergere tendenze e tradizioni localistiche legate ad elementi di carattere etnico, religioso, linguistico e culturale in genere”. Nuovamente, il germanofono Robertson (ibidem)[18] mette in guardia da una Giuspenalistica talmente globalizzata ed anti-sovranista da concedere un'ampia tolleranza ai reati culturalmente motivati, dunque attenuabili o scriminabili. Tale problematica è analizzata pure da De Maglie (2007)[19], la quale evidenzia che “[la tendenza a recepire norme penali esterne] è sempre esistita, così come sono sempre esistite – all'interno dei vari Stati-nazione – minoranze etniche, linguistiche o religiose.

L'esempio più evidente è costituito dagli Stati Uniti, che sono da sempre un insieme di minoranze. Tuttavia, è la cultura della globalizzazione che fa emergere – quasi per contro-reazione dialettica – una cultura della diversità e della variazione, ed una maggiore consapevolezza delle proprie radici etniche e culturali. Alla omogeneizzazione più o meno forzata, che deriva dalla globalizzazione, si contrappone la valorizzazione dell'autonomia e della peculiarità delle minoranze”. Parimenti, Cotesta (2009)[20] sottolinea anch'egli che, per quanto possa sembrare paradossale, la globalizzazione fa emergere sempre di più la problematica dei reati culturalmente motivati. Dunque, nel Diritto Penale della globalizzazione, le minoranze etnico-religiose iniziano a reclamare la possibilità di applicare regole penali o, ognimmodo, culturali dei propri Paesi d'origine. Nel bene o nel male, globalizzare significa accettare le diversità giuridico-sociologiche sino al punto di legittimare fonti di produzione del Diritto estranee alle tradizioni dell'Ordinamento ospitante. P.e., le minoranze islamiche in Europa tendono a “normalizzare” l'imposizione dello chador o del burka. Analogo è il ragionamento globalista con afferenza alle mutilazioni genitali sulle bambine. Oppure ancora, si ponga mente alla istituzionalizzazione allargata di talune feste religiose che esulano completamente dalle tradizioni delle maggioranze etniche occidentali. La questione, tuttavia, diviene spinosa allorquando tali novità minoritarie intaccano la piena ed autonoma sovranità del Legislatore in materia penale, come dimostra il dilemma della accettazione/non accettazione della poligamia.

P.e., le tradizioni delle minoranze non riconosciute hanno recato agli eventi bellici della Bosnia-Herzegovina. Simile è pure la violenza di taluni gruppi terroristici che portano avanti una radicale e netta contestazione della sovranità giuridica delle maggioranze. Analoga è la situazione dei “ghetti” afroamericani ed ispanici negli USA. In maniera assai simile, le continue rivolte nelle banlieues parigine manifestano la volontà delle minoranze maghrebine di creare un Ordinemento nell'Ordinamento, un sotto-Diritto Penale, una Legislazione nella Legislazione. In effetti, è tipico dell'Islam manifestare simpatie nei confronti di tutte quelle che sono comunemente definite come “infrazioni (anti-)giuridiche religiosamente motivate”. Il fine ultimo delle minoranze etniche violente è quello di negare la sovranità di uno Stato-nazione al fine di creare una realtà normativa completamente alternativa o, quantomeno, parallela e tollerata dalla maggioranze etniche

Quasi tutte le crisi della sovranità piena del Diritto Penale sono connesse ai fenomeni migratori, che provocano sacche di residenti disagiati refrattari all'integrazione. A tal proposito, Osterhammel & Petersson (2005)[21] hanno asserito che “un fattore determinante [per la creazione di un Diritto Penale alternativo, ndr] è costituito dalle immigrazioni. Storicamente, la presenza di gruppi etnici, linguistici ed anche nazionali all'interno di società complesse è stata il risultato di migrazioni. Basti pensare all'emigrazione italiana verso gli USA e verso l'Argentina alla fine dell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento, all'emigrazione programmata dei lavoratori turchi verso la Germania, nonché alla formazione delle Chinatown nelle grandi città americane, per rendersi conto della quantità e della varietà di questi fenomeni. Attualmente, un problema di grandi dimensioni è costituito dalle migrazioni, che dalle aree povere del mondo portano milioni di persone verso i Paesi ricchi. Malgrado muri e fucili, come sul confine messicano degli USA, questi spostamenti sono inevitabili: la fame, la guerra, la mancanza di lavoro costituiscono spinte poderose per molti disperati che si illudono di trovare pace e benessere nei cc.dd. Paesi avanzati”.

Ciononostante, il problema inizia allorquando il migrante si insedia stabilmente nel Paese ospitante ed inizia a chiedere una giuridificazione alternativa ed etnicamente motivata. Donde, il pericolo di un Diritto Penale non pienamente egualitario. In buona sostanza, come messo in evidenza da Bauman (2004)[22], la migrazione provoca “vite di scarto [ovvero] milioni di soggetti socialmente disadattati e privi di mezzi per sopravvivere […] [e così] aumenta spesso in modo rilevante il tasso di varietà etnica, religiosa e culturale delle società che, per così dire, accolgono stranieri immigrati”. Tuttavia, è pur vero che l'immigrato relativamente naturalizzato tende a chiedere all'Ordinamento giuridico dominante un sotto-Diritto Penale che non consideri come “reato” ciò che, invece, lo è nella patria adottiva. P.e., Galli (2006)[23] osserva che “la composizione multietnica della società fa saltare le concezioni tradizionali: veri e propri conflitti di cultura emergono tra il sistema ospitante ed i gruppi di minoranza che in esso sono ospitati […]. Il Diritto Penale è dunque chiamato a considerare ed a risolvere questi conflitti di culture”.

 

Aspetti positivi e negativi della società multietnica

Nella Criminologia italiofona e, più latamente, occidentale, si utilizzano sovente le espressioni “società multietnica, società multiculturale, multiculturalismo”. Talvolta si tratta di sinonimi, talaltra questi lemmi recano, a seconda dei vari Autori, delle differenze semantiche. P.e., con sottile precisione, Cesareo (2002)[24] specifica che “la multietnicità è una situazione di compresenza in un determinato spazio fisico o relazionale di differenti gruppi etnici portatori di diversi patrimoni culturali. Il presupposto per la formazione di questi gruppi è il convincimento soggettivo di condividere un'unica comunità di origine […]. L'etnico assume, quindi, un significato autonomo rispetto al culturale, nella misura in cui esso specifica il suo elemento caratterizzante nei rapporti di discendenza. Quest'ultima consente, pertanto, di distinguere il gruppo etnico da quello religioso, linguistico e territoriale”. Come si può notare, Cesareo (ibidem)[25] propone, con afferenza alla ratio dell'etnia, una lettura “per sanguinis communicationem”, anziché solamente culturale.

Secondo Smith (1984)[26], l'”etnia” è tale quando essa possiede “i seguenti sei elementi caratterizzanti:

  1. un nome collettivo, attraverso il quale le etnie esprimono la loro essenza, come se nel nome risiedesse la magia della loro esistenza e la garanzia della loro sopravvivenza
  2. un mito di discendenza comune, in grado di dare una risposta alla domanda: perché noi siamo tutti simili ?
  3. una storia condivisa, che unisce le generazioni future e trasmette loro il messaggio fondamentale che le sequenze storiche sono, per le esperienze successive, forme, canali e modelli attraverso i quali esse possono essere interpretate
  4. una cultura distintiva condivisa, che si esprime attraverso il linguaggio, la religione, l'architettura, il modo di vestire, il cibo, la musica, le arti, il colore ed i caratteri fisici
  5. l'associazione con un territorio specifico, che viene considerato proprio non solo perché non vi si risiede, ma perché vi è un ricordo intenso che lega l'etnia a quel luogo particolare. Un'etnia non ha bisogno di possedere fisicamente il suo territorio; quello che conta è che essa abbia un centro geografico simbolico, un habitat sacro, una patria a cui può ritornare simbolicamente, anche quando i suoi membri sono sparpagliati ed hanno perduto la loro patria da secoli
  6. un senso di solidarietà: perché una comunità sia definita etnia, deve emergere anche un forte senso di appartenenza e di solidarietà attiva, che in tempi di tensione e di pericolo possono andare al di là delle divisioni di classe, di fazione o regionali all'interno della comunità”

Chi scrive preferisce di gran lunga la definizione di Smith a quella di Cesareo, in tanto in quanto un concetto di “etnia” fondato sulla base della “razza fisica” potrebbe aprire le porte ad una visione eugeneticamente pericolosa della minoranza. Viceversa, Smith sposta l'attenzione dell'interprete su fattori culturali enon corporali. In secondo luogo, chi commenta nota che i sei tratti distintivi di Smith cessano di esistere nei confronti degli immigrati perfettamente integrati di seconda o di terza generazione. Invece, il “vincolo di sangue” postulato da Cesareo impedisce l'uscita dell'immigrato naturalizzato dalla propria etnia e ciò rischia di tramutarsi in una sorta di “marchio” infamante indelebile e perenne. L'integrazione sociale annulla l'appartenenza etnica, come dimostra, negli Anni Duemila, la scomparsa delle differenze etniche negli Italiani meridionali figli o nipoti di emigrati del Novecento. A parere di chi redige, reputare incancellabili le sei caratteristiche di Smith significa dar man forte all'orribile eugenetica deterministica dei seguaci di Lombroso.

Per il vero, anche Cesareo (ibidem)[27], in alcuni passi della propria Opera del 2002, prende egli stesso le distanze dal biologismo lombrosiano e, con lodevole lucidità, propone una visione più culturale che razziale del lemma “etnia”; nello specifico, il qui menzionato Dottrinario mette in risalto che “una società può definirsi multietnica non solo se comprende al suo interno gruppi etnici diversi, ma anche se i componenti di questi gruppi ritengono di possedere una propria cultura distinta da quelle degli altri gruppi, ed esprimono la volontà di preservare la propria identità comune, per la quale viene richiesto un riconoscimento ufficiale, anche tramite il ricorso ad azioni collettive, che prendono il nome di mobilitazioni etniche”. Di nuovo, ecco che del lemma “etnia” viene proposta una qualificazione culturale anziché razziale. Insistere su distinzioni bio-fisiche conduce ai tremendi errori del nazionalsocialismo novecentesco. La ratio dell'etnia non deve indicare una condizione inamovibile che non cessa nemmeno con la completa integrazione delle nuove generazioni di immigrati.

L'ingresso della persona nella cultura dominante cancella la pregressa distinzione etnica. Anche Allardt (1981)[28] rifugge da una concezione razziale e corporale dell'etnia, poiché “è indispensabile, per l'esistenza di un gruppo etnico, la presenza di due elementi: quello dell'eterodefinizione e quello dell'autodefinizione […] [L'autodefinizione] deve esprimersi nella volontà di una parte significativa del gruppo di identificarsi come una distinta entità etnica […]. La multietnicità implica imprescindibilmente la multiculturalità [autodefinita, ndr], perché i vari gruppi etnici presenti nello stesso territorio possiedono una propria cultura, con elementi peculiarizzanti, che la rendono diversa da quelli delle altre”. Pertanto, pure Allardt (ibidem)[29] nega che l'appartenenza etnica sia tale per sanguinis communicationem. Una minoranza è tale a motivo della propria cultura e non per causa di presunte differenze bio-somatiche. Negare la non-corporeità delle distinzioni etniche significa porsi sul medesimo piano di chi ha pianificato genocidi e crimini contro l'umanità. Nella specie umana, le uniche difformità autentiche sono quelle degli usi e dei costumi.

Altrettanto anti-lombrosiano è pure Schellenbaum (1998)[30], a parere del quale “la società multietnica è un aggregato sociale costituito da componenti etniche che interagiscono fra loro e che organizzano il loro comportamento sulla base di una supposta diversità etnico-culturale, rivendicata all'interno del gruppo o imposta dall'esterno. Non è, invece, vero il contrario: la multiculturalità non implica necessariamente la multietnicità, perché le differenze culturali non sono riconducibili solo all'etnicità, ma derivano anche dalle diversità religiose, ideologiche, sociali ed economiche. Ad uno stesso credo religioso possono aderire, ad esempio, individui appartenenti a gruppi etnici diversi o riconducibili alla medesima etnia”. Similmente, Cesareo (ibidem)[31] asserisce che esistono vincoli, come quello religioso, che fanno passare in secondo piano la multietnicità. Anzi, a parere di chi commenta, la comunanza religiosa favorisce la scomparsa o, comunque, l'attenuazione dei conflitti multietnici

 

I problemi delle società multiculturali

Parekh (2002)[32], negli Anni Duemila, riconosce che, ormai, la società multiculturale rappresenta “una situazione di fatto irreversibile”, in tanto in quanto le migrazioni di massa hanno cambiato per sempre la composizione etnica dell'Europa e del Nordamerica. Dunque, come precisato da Lanzillo (2006)[33] il problema contemporaneo non è quello di fermare le migrazioni, bensì di costruire un multiculturalismo che faccia da argine alla xenofobia ed ai conflitti tra maggioranze e minoranze etniche. Anche Rigotti (2006)[34] insiste sulla necessità di fondare su basi solide un tessuto sociale multiculturale che impedisca una mescolanza disordinata tra autoctoni ed immigrati. Addirittura, Galeotti (1999)[35] non nasconde il proprio “ideale di convivenza [in una] società pluralista alternativa al melting pot […] perché [bisogna] promuovere il sogno di una convivenza segnata ed arricchita dalle differenze di ciascun gruppo”. In effetti, anche a parere di chi redige, esistono gruppi etnici minoritari, come nel caso degli Indiani nel Regno Unito, la cui presenza è divenuta ormai stabile. Detto in altri termini, il razzismo è inutile nei confronti di minoranze di seconda o di terza generazione, destinate a divenire anch'esse autoctone e stabilmente radicate. Ciò vale soprattutto nella fattispecie delle giovani donne che intessono relazioni stabili con uomini appartenenti al gruppo culturale maggioritario.

Secondo De Maglie (2005/2006)[36] l'irreversibilità del multiculturalismo si è manifestata chiaramente, per la prima volta, negli USA, verso la fine del Novecento. Ovverosia, come evidenziato da Huntington (2005)[37], nel Nordamerica i gruppi sociali sono e saranno per sempre multietnici, giacché “i vari ingredienti culturali si sono mescolati senza fondersi, conservando ognuno la propria distinta specificità etnica e culturale”. L'analisi di Huntington (ibidem)[38] non intende negare i problemi connessi alla multietnicità, ma rimane incontestabile che gli Stati Uniti ed il Canada sono e saranno ormai per sempre degli Ordinamenti disomogenei sotto il profilo etnico. Anche Piccone Stella (2003)[39], con afferenza alla situazione canadese, riconosce che il Canada si è indelebilmente trasformato in uno Stato multiculturale ove ciascuna nazionalità reclama spazi propri di autonomia giuridica e sociale. A tal proposito, Gutmann (1994)[40] riconosce anch'egli l'ineludibilità contemporanea delle società multietniche e precisa che “le posizioni fondamentali, nel dibattito sul multiculturalismo, sono essenzialmente due: le teorie di matrice comunitaria e le teorie liberal-perfezioniste. Le prime danno pieno riconoscimento al singolo solo in quanto parte di un tutto costituito dalla comunità di appartenenza: è la comunità, quindi, ad essere riconosciuta come portatrice di diritti e titolare di rivendicazioni. Le seconde, pur evitando gli eccessi dell'individualismo radicale, pongono l'accento sul singolo soggetto, pensato come individuo libero e, perciò, portatore di diritti che devono essere riconosciuti in quanto tali”. A parere di chi scrive, la distinzione di Gutmann (ibidem)[41] tra teorie comunitarie e teorie liberal-perfezioniste è superflua sotto il profilo pratico. L'essenziale, come sottolineato da svariati Dottrinari, è non consentire o reprimere spinte xenofobe nei confronti di quelle minoranze etniche che, dopo due o tre generazioni, decidono di integrarsi in maniera stabile. La società multietnica è attualmente una realtà non modificabile, pur se il trascorrere dei decenni tende ad attenuare le differenze culturali tra la maggioranza ospitante e la minoranza ospitata. P.e., nei Paesi occidentali, la cristianizzazione degli immigrati favorisce la scomparsa dei pregiudizi e delle differenze. Oppure ancora, si pensi alla più facile integrazione dei cattolici ispanici negli USA.

Non v'è dubbio, in ogni caso, che la società multietnica pone comunque il problema dei conflitti culturali, perlomeno finché la minoranza non è completamente integrata. Su tale tema, Lanzillo (ibidem)[42] afferma che “quando si parla di società multietniche e di multiculturalismi, non si può non parlare di conflitti di cultura, una tematica che si ricollega al problema dei rapporti tra identità ed alterità ed all'opposizione tra uguale e diverso. Storici, politologi, sociologi, filosofi e giuristi si sono da sempre occupati di questo binomio irriducibile”. Anche Sacco (2007)[43] ammette che, nelle società multietniche, sussiste pur sempre “una contrapposizione tra noi e l'altro (l'estraneo, lo straniero) [perché esistono sempre] delle reazioni [anche negative, ndr] di fronte all'alterità”. Similmente, almeno per gli immigrati di prima generazione, Huntington (ibidem)[44] non nasconde che “la differenza tra identità è una possibile fonte di meccanismi che portano a situazioni di conflitto culturale”.

Nella prima metà del Novecento, con molta lucidità, Sellin (1938)[45] ha messo in risalto che “l'identità comporta la differenziazione. La differenziazione implica la comparazione, ossia l'identificazione degli aspetti in base ai quali il nostro gruppo differisce dal loro. La comparazione, a sua volta, genera la valutazione: le logiche del nostro gruppo sono migliori o peggiori di quelle del loro ? L'egotismo di gruppo porta alla giustificazione: le nostre logiche sono migliori delle loro. Poiché i membri dell'altro gruppo sono impegnati in un processo analogo, le giustificazioni in conflitto innescano la competizione. Dobbiamo dimostrare la superiorità delle nostre logiche rispetto alle loro. La competizione porta all'antagonismo ed alla dilatazione di quelle che inizialmente apparivano divergenze limitate, che diventano, così, più intense e radicali. Si creano degli stereotipi, l'avversario viene demonizzato, l'altro si tramuta in nemico”. Di nuovo, chi commenta nota che gli asserti di Sellin (ibidem)[46] non sono precettivi nei confronti degli immigrati integrati di seconda o terza generazione. Dunque, il multiculturalismo non è, per ontologia, una struttura sociale perenne. Del pari, i conflitti etnici non sono sempre immutabili o irreversibili, specialmente quando i/le giovani stranieri/e si uniscono in relazioni familiari miste.

Per la prima volta nella storia della Criminologia occidentale, Sellin (ibidem)[47], negli Anni Trenta del Novecento, ha rimarcato che la criminalità delle minoranze etniche è legata, più o meno direttamente, a dei “cultural conflicts” che vedono opporsi la civiltà dominante contro quella minoritaria. In buona sostanza, Sellin (ibidem)[48] osserva che “ogni società possiede proprie norme di condotta, che prescrivono i comportamenti che le persone devono tenere in determinate situazioni e che vengono tramandate da una generazione all'altra. Mentre nelle società semplici [quindi monoetniche, ndr], omogenee sul piano culturale, queste norme di condotta tendono a diventare leggi e a godere di un consenso generale, nelle società moderne, disomogenee sul piano culturale, è molto frequente la possibilità di conflitti tra le norme dei diversi gruppi”.

Tali postulati si riferivano alle città statunitensi della prima metà del Novecento, ma essi mantengono tutt'oggi la loro piena validità anche nell'Europa multietnica degli Anni Duemila. Sellin (ibidem)[49] prosegue, anche in scritti successivi, notando che “i conflitti culturali sono il risultato naturale di un processo di differenziazione sociale, che produce un'infinità di raggruppamenti sociali, ciascuno con la propria impostazione o situazione di vita, la propria interpretazione delle relazioni sociali, la propria ignoranza od interpretazione sbagliata dei valori sociali degli altri gruppi. La trasformazione di una cultura da un modello omogeneo e ben integrato ad un modello eterogeneo non integrato è perciò accompagnata da un aumento delle situazioni conflittuali. Viceversa, le operazioni connesse ad un processo di integrazione porteranno ad una riduzione delle situazioni conflittuali”. Di nuovo, ognimmodo, chi redige mette in risalto che i “cultural conflicts” prospettati dall'Autore qui in esame tendono a scomparire presso gli immigrati ormai naturalizzati di seconda o terza generazione.

A loro volta,  come evidenziato dagli allievi di Sellin, i conflitti culturali “primari” contrappongono maggioranze etniche e minoranze, ma esistono pure conflitti culturali “secondari” che si manifestano all'interno della stessa etnia minoritaria. Detto in altre parole, come suggerisce Cressey (1968)[50], “i conflitti primari possono esplodere quando l'oriente e l'occidente si incontrano, e si verificano in tre situazioni diverse:

  1. quando codici diversi entrano in collisione alla frontiera di aree culturali contigue
  2. quando le leggi di un gruppo vengono imposte ad un altro in seguito ad operazioni di conquista del territorio di quest'ultimo; si pensi alla diffusione del Diritto francese in Algeria ed alla trasformazione in reato di consolidati costumi di quelle popolazioni
  3. infine, il conflitto può realizzarsi quando i membri di un gruppo emigrano in un altro, che ha codici culturali completamente diversi”

Inoltre, in Sellin (ibidem)[51] non manca nemmeno una lettura psicanalitica del cultural conflict, che si pone alla stregua di “uno scontro fra gli impulsi biologici fondamentali, che cercano di esprimersi, e le regole sociali che reprimono questi impulsi, costringendoli nell'inconscio”. Chi scrive non condivide tale riferimento ala consueta ed onnipresente impostazione freudiana. Meno astratta è l'interpretazione sociologica del conflitto culturale proposta da Wolfgang & Savitz & Johnston (1970)[52], ossia “il conflitto culturale [multietnico] è uno scontro di forze opposte, che si scatenano nella personalità dell'individuo […]. In altre parole, [si tratta di] una contrapposizione, nello stesso soggetto, di modelli culturali differenti. Nella medesima persona, si verifica un conflitto mentali, perché i suoi valori normativi vengono a scontrarsi con quelli della società ospitante. Il conflitto tra i valori della cultura d'origine e quelli nuovi non assimilati può creare, così, un forte disagio interno, un disorientamento psicologico, che fa saltare i meccanismi di autocontrollo, i quali assicurano normalmente un comportamento di conformità alla legge: la partecipazione contemporanea a due Ordinamenti con imperativi e messaggi culturali diversi e talvolta contrastanti può determinare, così, un grave disorientamento psicologico nel soggetto. Questo disagio può manifestarsi in modi diversi, da semplici segnali di disadattamento, ad incertezze nel carattere, a forme più gravi come l'emarginazione, la malattia mentale o la criminalità”. In buona sostanza, per Sellin (ibidem)[53] l'immigrato necessita di “un processo di acquisizione dei valori del nuovo sistema”; viceversa, aumenta il rischio di criminogenesi.

 

[1]Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, I, Assolutismo e codificazione del diritto, 1976

 

[2]Tarello, op. cit.

 

[3]Facchi, Breve storia dei diritti umani, 2007

 

[4]Twining, Globalization and Legal Theory, 2000

 

[5]Ferrajoli, Principia juris. Teoria del diritto e della democrazia, 2, Teoria della democrazia, 2007
 

[6]Ferrajoli, op. cit.

 

[7]Stella, La giustizia e le ingiustizie, 2006

 

[8]Portinaro, Il labirinto delle istituzioni nella storia europea, 2007

 

[9]Portinaro, op. cit.

 

[10]Cassese, International Criminal Law, 2003

 

[11]Damaška, L'incerta identità delle Corti penali internazionali, in Criminalia, 2006

 

[12]Friedman, La società orizzontale, trad italiana 2002

 

[13]Sen, Globalizzazione e libertà, traduzione italiana, 2002

 

[14]Irti, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, 2006

 

[15]Ferrarese, Diritto sconfinato, 2006

 

[16]Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, 2000

 

[17]Robertson, Glokalisierung-Homogenität und Heterogenität in Raum und Zeit, in Beck, Perspektiven der Weltgesellschaft, 1998

 

[18]Robertson, op. cit.

 

[19]De Maglie, Multiculturalismo e diritto penale. Il caso americano, in Scritti per Federico Stella, I, 2007

 

[20]Cotesta, Sociologia dei conflitti etnici. Razzismo, immigrazione e società multiculturale, 2009

[21]Osterhammel & Petersson, Storia della globalizzazione, traduzione italiana 2005

 

[22]Bauman, Vite di scarto, traduzione italiana 2004

 

[23]Galli, Multiculturalismo. Ideologie e sfide, 2006

[24]Cesareo, Società multietniche e multiculturalismi, 2002

 

[25]Cesareo, op. cit.

 

[26]Smith, Il revival etnico, traduzione italiana, 1984

 

[27]Cesareo, op. cit.

 

[28]Allardt, Le minoranze etniche nell'Europa occidentale: una ricerca comparata, in Rivista italiana di Scienze politiche, 1/1981

 

[29]Allardt, op. cit.

 

[30]Schellenbaum, Multietnico. Voce in Dizionario della diversità. Le parole dell'immigrazione, del razzismo e della xenofobia, 1998

 

[31]Cesareo, op. cit.

 

[32]Parekh, Rethinking Multiculturalism. Cultural Diversity and Political Theory, 2nd edition, 2002

 

[33]Lanzillo, Noi o gli altri ? Multiculturalismo, democrazia, riconoscimento, in Galli, Multiculturalismo, 2006

 

[34]Rigotti, Le basi filosofiche del multiculturalismo, in Galli, Multiculturalismo, 2006

 

[35]Galeotti, Multiculturalismo. Filosofia politica e conflitto identitario, 1999

 

[36]De Maglie, Multikulturalismus und Strafrecht, in Jahrbuch, 2005/2006

 

[37]Huntington, La nuova America. Le sfide della società multiculturale, traduzione italiana, 2005

 

[38]Huntington, op. cit.

 

[39]Piccone Stella, Esperienze culturali. Origini e problemi, 2003

 

[40]Gutmann, Multiculturalism. Examining the Politics of Recognition, 1994

 

[41]Gutmann, op. cit.

 

[42]Lanzillo, op. cit.

 

[43]Sacco, Antropologia giuridica, 2007

 

[44]Huntington, op. cit.

 

[45]Sellin, Culture Conflict and Crime, 1938

 

[46]Sellin, op. cit.

 

[47]Sellin, op. cit.

 

[48]Sellin, op. cit.

 

[49]Sellin, op. cit.

 

[50]Cressey, Cultural Conflict, Differential Association and Normative Conflict, in Wolfgang, Crime and Culture. Essays in Honor of Thorsten Sellin, 1968

 

[51]Sellin, op. cit.

 

[52]Wolfgang & Savitz & Johnston, The Sociology of Crime and Delinquency, 2nd edition, 1970

 

[53]Sellin, op. cit.