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Analisi criminologica del disagio adolescenziale

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Analisi criminologica del disagio adolescenziale

 

Il disagio adolescenziale tra patologia e cultura

Mesa (2020)[1] afferma che “sembra essere, il disagio giovanile, un evento non solo importante per la crescita, ma anche, come viene spesso definito, del tutto fisiologico”. Del pari, Girelli (2006)[2] sostiene che il malessere psicologico dell'adolescente “è naturalmente connotante il processo di sviluppo che va dall'adolescenza all'adultità”. Anche Barone (2009)[3] sottolinea che l'ultra-13enne sessualizzato/a “reca sempre una problematicità, [ma] la rabbia, la ribellione, i comportamenti aggressivi autodiretti ed eterodiretti, sia individuali sia di gruppo, entrano a far parte della psiche e sono [normalmente] rintracciabili nel percorso evolutivo di tutti gli adolescenti”. Tuttavia, svariati Autori invitano a non ridurre l'età post-puberale alla sola sofferenza, in tanto in quanto lo sviluppo dell'individuo reca pure profili positivi, come la crescita culturale ed esperienziale. L'ordinarietà del dolore in adolescenza è rimarcata pure da Benasayag & Schmit (2004)[4], a parere dei quali “se non per tutti i giovani il disagio rappresenta una condizione naturale, è nondimeno vero che la fase evolutiva dell'adolescenza appare frequentemente caratterizzata, specialmente nelle nostra epoca, da passioni tristi, da vissuti di malesseri particolari, naturalmente presenti con intensità diverse, a seconda della singolare situazione esistenziale”. Ciò premesso, Barone (ibidem)[5] nega la tassatività del binomio “inquietudine/malattia”, ovvero il mancato equilibrio psichico dell'ultra-13enne non coincide sempre e comunque con una patologia mentale. La tensione evolutiva del carattere, spesso, nulla ha a che vedere con sindromi psicopatologiche. In effetti, dal canto suo, Borgna (1988)[6] rimarca che “pur non negando l'esistenza di tipologie di malessere adolescenziale che sconfinano nella psicopatologia, certamente non tutte le forme di disagio sono patologiche”. Sempre Borgna (2007)[7] asserisce che esistono devianze eccentriche e borderline autolesive ancorché non eterolesive, dunque criminologicamente non rilevanti. La de-patologizzazione delle crisi dell'adolescente è ribadita pure da Bonino (2005)[8], secondo cui “il disagio giovanile troppo spesso risulta compreso all'interno di categorie forzatamente medicalizzanti. Eppure, esistono forme di fragilità e di sofferenza esistenziali, legate a particolari momenti del vivere, che non si possono far rientrare nel novero dei disturbi mentali conclamati: sicuramente, il fatto di vivere con un sentimento quasi permanente di insicurezza, di precarietà e di crisi, produce conflitti e sofferenze psicologiche, ma ciò non significa che l'origine del problema sia psicologica”.

Come si può notare, Bonino (ibidem)[9] si dichiara nemico di una Medicina onnipotente ed onnipresente, la quale, come un moderno Leviatano, “patologizza” pure l'intera età evolutiva. Non tutta la Pedagogia sfocia nelle rigide catalogazioni del DSM-V. Pertanto, Benasayag & Schmit (ibidem)[10] precisano, nell'ottica di un autocontenimento della scienza medica, che “a livello eziologico, non troviamo necessariamente una patologia psichica o psichiatrica [nel giovane] – siano esse endogene o reattive – quale substrato del disagio, nella consapevolezza che una persona c.d. sana possa sperimentare qualche problematicità in periodi delicati della sua vita: criticità che, nondimeno, potrebbero venir accentuate dalla difficoltà nel reperire modalità costruttive per chiedere aiuto o per farvi fronte adottando vie socialmente consentite  e convenzionalmente accettate”. Di nuovo, dunque, Benasayag & Schmit (ibidem)[11] non riconoscono la presunta onnipotenza ermeneutica delle neuroscienze, in tanto in quanto il disagio adolescenziale non sempre scaturisce da patologie mentali, soprattutto allorquando le condotte borderline non manifestano alcuna pericolosità antisociale e/o antigiuridica. Né, tantomeno, le ordinarie devianze caratteriali dell'ultra-13enne costituiscono il prodromo di atti delinquenziali. La “divinizzazione” della psicopatologia forense generalizza, in maniera dogmatica, le categorie dell'infermità e della seminfermità mentale, con una conseguente ed indebita medicalizzazione delle eccentricità dell'adolescente.

A tal proposito, giustamente, Borgna (2004)[12] mette in evidenza che “[nell'ultra-13enne] la normalità e la patologia (intesa come cristallizzazione della personalità in una rigidità di tratto diffusa, connotata da segni clinici specifici) hanno delle sfumature, in senso sia quantitativo sia qualitativo, che ci chiedono di abbandonare uno sguardo semplicisticamente dicotomico sul reale”. Nuovamente, Borgna (2004)[13] prende le distanze da un'eventuale “patologizzazione” indiscriminata di qualsivoglia devianza a-/anti-sociale non anti-normativa. La crisi adolescenziale non va analizzata con i soli strumenti esegetici della Medicina. Anche secondo Fabbrini & Melucci (1992)[14] “aggressività, tristezza, apatia, ansia, inquietudine, incertezza, disorientamento sono, entro certi limiti, vissuti normali e fisiologici, soprattutto nell'adolescenza”. Retorico, eppur pertinente, è Gnocchi (2008)[15], il quale asserisce che, nel ragazzo in crescita, “[esistono] abissi di luce e di ombra, che connotano costitutivamente l'adolescenza e che testimoniano la labilità dei confini tra normalità e patologia, tra disturbi neurotici (nevrosi) e psicotici (psicosi). Parliamo, dunque, di una tristezza esistenziale che non è patologica e che costituisce un'esperienza di vita che non è estranea a ciascuno di coi”. Come si nota, pure Gnocchi (ibidem)[16] esorta a non ipostatizzare le interpretazioni di tipo patologico della psicologia evolutiva. Analogo è il parere di Fizzotti (1977)[17], ovverosia “vi sono [nell'età dello sviluppo] espressioni di attraversamenti esistenziali tribolati, irti di difficoltà ed ostacoli, ma che, nonostante tutto, non si inseriscono nella malattia: che non rientrano nelle usuali e tranquillizzanti tipologie nosografiche. Infatti, le varie forme che può assumere il malessere dei giovani, dilagante nella nostra società, sono da considerarsi del tutto indipendenti dalle categorie diagnostiche e dalle vecchie e convenzionali impostazioni della salute”. Ora, anche in Fizzotti (ibidem)[18], il DSM non è idolatrato come se si trattasse di una chiave interpretativa infallibile nonché tassativamente necessaria, il che vale soprattutto per gli atti adolescenziali constanti in una ribellione antisociale non eterolesiva e non penalmente rilevante. Tale è pure il parere di Galanti (2007)[19], nel senso che “esistono [nel giovane] sofferenze dovute all'intolleranza di una società, che possiamo qualificare come esistenziali. Di fronte ad esse, il clinico […] non è costretto a psichiatrizzare, a rendere patologica una sofferenza dovuta all'esistenza stessa, al mondo ed alla società”. Quindi, Galanti (ibidem)[20] distingue tra malattia psichica e turbe esistenziali, le quali, nell'ultra-13enne, di solito scompaiono grazie alla lenta eppur inevitabile maturazione caratteriale. Viceversa, esistono Dottrinari che ipostatizzano le metodiche della psichiatria e delle neuroscienze. L'adolescenza è un fisiologico periodo di cambiamenti etico-valoriali che nulla hanno a che fare con le interpretazioni della psicopatologia o della Criminologia.

Equilibrati e non oltranzisti sono, del resto, Fabbrini & Melucci (ibidem)[21], i quali sottolineano che “le fragilità incontrate dai nostri adolescenti – che si giocano nell'alternanza tra continuità e discontinuità, lentezza ed accelerazioni, orine e disordine – rappresentano, nel loro succedersi ciclico, una regolarità ed una normalità che fa posto anche all'evento straordinario, non crea l'urgenza di eliminarlo e di ridurlo, né la necessità di scoprirne la causa, ma solo il problema di comprenderlo nella sua dinamica e mantenerlo nell'alveo dell'esperienza che la persona può tollerare”. Assai acuti sono pure Benasayag & Schmit (ibidem)[22] nell'osservare, con afferenza all'età dello sviluppo, che “la fluidità che connota il cambiamento, la pluralità di dimensioni e sfaccettature che caratterizza ogni situazione esistenziale, nonché il disequilibrio che può qualificare i periodi di mutamento e transito ad un nuovo modo di essere sostanziano, nell'insieme, la normalità nella specialità, la di là di ogni forma di riduzionismo etichettante, volto a non riconoscere, ad ogni persona, il diritto ad essere e ad esistere come molteplicità”. Valida è pure l'analisi di Triani (2006)[23], il quale nega il binomio adolescenza/patologia invalidante, ovverosia “ciò che esce dagli schemi, che risulta stra-ordinario perché attinente ai vissuti di ogni singola avventura umana, non viene tacciato come a-normale -e, dunque, patologico- e nemmeno fatto rientrare forzatamente nelle maglie della normalità. Se, infatti, l'individuo non viene predefinito da quadri nosologici precodificati [come il DSM, ndr], le singole modalità del giovane di relazionarsi alle cose ed agli uomini del suo mondo non esprimono disfunzioni (dove quel prefisso dis- assume una valenza peggiorativa), bensì, semplicemente, funzioni di una specifica quanto singolare delineazione della sua presenza”. Come si può notare, Triani (ibidem)[24] postula la diversità, ancorché non la anormalità dell'adolescente e delle proprie ordinarie, necessarie alterazioni esistenziali. All'opposto, esiste una Medicina tracotante che utilizza, in maniera abnorme ed ossessiva, le categorie della patologia psichiatrica.

 

l disagio degli ultra-13enni come fatto culturale

Pizzi (2010)[25] individua una matrice anche culturale nel disagio degli ultra-13enni, ovverosia “se possiamo pensare che esistono difficoltà e criticità pressoché ordinarie (legate, in particolar modo, ai mutamenti biologici, neurologici ed ormonali specifici di questo periodo dello sviluppo), nonché fragilità che possono caratterizzare il percorso di ricerca del personale modo di essere-presenza, occorre anche constatare come, in non rari casi, a queste condizioni si aggiungono problematicità che fanno evolvere la situazione del giovane verso forme di disagio artificiale, esogeno, in cui centrale risulta essere la qualità delle relazioni interpersonali e della vita sociale propria dell'individuo”. In effetti, Pizzi (ibidem)[26] non erra nel citare le “spinte al disagio” provenienti dai mass-media, come le televisioni ed internet, i quali acuiscono dannosi effetti emulativi. Anche Dilthey (1985)[27] sottolinea che “può essere utile chiedersi quanto è legato alle crisi d'identità nel corso dello sviluppo psicofisico e quanto può essere ascritto ai modelli culturali di integrazione dell'individuo nella società”. Le parole di Dilthey (ibidem)[28] sono più che veritiere, ad esempio, se si pone mente ai modelli ipersessualizzanti che dominano nei mezzi di informazione e sui social; esistono, d'altronde, iperstimolazioni di tenore pornografico che esaltano gli appetiti sessuali dell'adolescente.

Del pari, Bruzzone (2008)[29] evidenzia che “la riflessione su questi temi ci porta a rilevare che esiste non solo un disagio evolutivo endogeno, connaturato al naturale percorso di crescita, ma anche un disagio socioculturale esogeno, condizionato dall'ambiente di appartenenza”. P.e., gli asserti di Bruzzone (ibidem)[30] sono particolarmente idonei nell'ambito del commercio di giocattoli ad uso infantile; oppure ancora, si ponga mente alla diffusione mass-mediatica delle mode nel contesto di vestiti ed accessori: lucida è pure l'analisi di Benasayag & Schmit (ibidem)[31], secondo i quali “le pur fisiologiche crisi adolescenziali risultano decisamente amplificate nel contesto socioculturale odierno, particolarmente problematico per chi si trova in quella fase della vita che comporta l'affrontare molteplici mutamenti […]. Esiste, insomma, una sorta di frattura tra le esigenze – spesso espresse inconsapevolmente o attraverso modalità distorte – di una sana crescita degli adolescenti e le risposte che il contesto riesce ad offrir loro”. I postulati di Benasayag & Schmit (ibidem)[32] si realizzano, in special modo, nella società consumistica generata dai messaggi pubblicitari televisivi e telematici. Si tratta di immagini audio-visive che recano alla genesi di bisogni diversamente non sussistenti nella vita quotidiana dell'ultra-13enne.

Quanto or ora esposto è richiamato pure da Allport (1977)[33], nel senso che “assistiamo ad una reale incapacità di farsi carico dei bisogni di crescita dei ragazzi: di comprenderli, interpretarli e orientarli verso un porto sicuro, in un percorso che sia sostenuto dalla tensione verso chiari e coerenti valori oggettivi, e non in balia di raffiche di vento che ne possano facilmente scardinare le instabili fondamenta […]. Esiste il rischio, per nulla raro soprattutto per il giovane, di farsi condurre o traghettare passivamente in porti che altri hanno deciso, o di approdare a sponde non autenticamente scelte e vagliate, ma alle quali egli si trova ad arrivare seguendo indicazioni o subendo esempi sbagliati”. Chi redige rimarca, di nuovo, che i “porti sbagliati” menzionati da Allport (ibidem)[34] si sostanziano, nella maggior parte dei casi, in un erotismo sfrenato la cui esistenza è prevalentemente cagionata da impulsi esogeni non richiesti e non opportuni sotto il profilo pedagogico. Oppure ancora, come notato da Borgna (2008)[35], il populismo mass-mediatico giovanile si esprime “nell'immersione sempre più massiccia nell'irrealtà del mondo virtuale: un universo del quale il giovane si illude di detenere le chiavi, nel tentativo (magari del tutto irriflesso) di superare quel fastidioso senso di impotenza che lo pervade nel confronto col reale. Così non stupisce che, all'ombra di tale impotenza, si sviluppi la pratica dei videogiochi in cui ogni giovane, in una sorta di autismo informatico, diventa padrone del mondo in battaglie individuali contro nulla, su un percorso che non conduce da nessuna parte”.

Come si vede, l'accenno di Borgna (2008)[36] ai videogiochi mette in risalto un'ulteriore esigenza esogena ed artificiale che altro non fa se non aggravare ulteriormente le fragilità tipiche dell'adolescenza. Siffatto è pure il parere di Larocca (1990)[37], in tanto in quanto “oggi […] occorre tentare di raggiungere la riva giusta in base a criteri di scelta e di giudizio personali, che il contesto culturale non è più in grado di offrire […]. Proprio in questo sta la difficoltà del giovane d'oggi: nello scegliere quale sia la riva giusta per sé […]. Egli si trova […] nella necessità di dover riconoscere ed evitare gli ostacoli che gli frappone una compagine culturale ormai obsoleta e fortemente in crisi, appiattita sul presente e non in grado di fornirgli strumenti idonei per comprendere e decodificare il reale”. L'analisi di Larocca (ibidem)[38] manifesta la presenza di un mondo privo di contatti con la realtà ed ormai lontano dallo stile di vita delle comunità rurali italiane prebelliche. Il tessuto sociale ha cagionato ormai la crescita incontrollata di esigenze artificiali che alterano l'equilibrio mentale dell'individuo in fase di crescita. A tal proposito, molte responsabilità sono da imputare alla TV, che, come asserisce Larocca (2000)[39], “è foriera di ulteriori criticità, che scaturiscono dal continuo veicolare, attraverso mezzi altamente suggestivi (quali i programmi televisivi, il cinema e la narrativa) un'immagine unidimensionale e stereotipata della realtà, soprattutto adolescenziale”. Nuovamente, chi scrive punta il dito contro l'accesso precoce alla pornografia, liberalizzata dalle televisioni e da internet, anche grazie a messaggi indiretti e sottilmente veicolati in ogni ora del giorno. La conseguenza, come sostenuto da Larocca (2000)[40] è un'abnorme ipersessualizzazione dei/delle adolescenti, con una grave alterazione dell'equilibrio della dopamina nel cervello.

Frankl (2010)[41], per parte sua, ha avuto il coraggio di sostenere apertamente che i mass-media agiscono “nell'esclusivo tentativo di compiacere il giovane quale consumatore. Nondimeno, tali messaggi diffondono ed alimentano una pericolosa tendenza culturale: l'appiattimento sul presente e sulle esigenze, interessi, pulsioni meno civili e più istintivamente egoistiche dell'animo umano, che lo spingono a sopraffare l'altro attraverso la furbizia, l'arroganza, l'aggressività verbale, la forza fisica, l'astuzia ed il totale disinteresse per il suo vissuto emotivo […]. [Questi sono] aspetti fino a non molto tempo fa diseducativi e disvaloriali oggi diventati tristemente di moda”. Frankl (ibidem)[42] ha denunziato non l'immoralità, bensì la amoralità del tessuto collettivo. La coscienza dell'ultra-13enne si desertifica, lasciando spazio ad un vuoto valoriale colmato da pulsioni becere ed istintive. All'ultra-13enne è proposto di superare, con le mode, il proprio fisiologico disagio evolutivo. La dittatura del consumismo è messa in rilievo pure da Iori (2009)[43], ovverosia “nella realtà giovanile, l'inconsistenza, l'arroganza, la superficialità, l'ossessione per il successo e la mercificazione del proprio corpo perdono qualsiasi valenza negativa, assurgendo, anzi, ad aspetti degli di un romanzo […]. Questo fa sì che programmi televisivi, definiti trash, o film sulla condizione giovanile altamente banalizzanti la complessità dell'essere umano, riscuotano un enorme successo tra la generazione adolescenziale, sollecitando i meccanismi della volontà di piacere e di potenza, nonché facendo presa sulla tendenza alla comodità, all'agiatezza, all'appagamento immediato di bisogni da consumare voracemente quanto insensatamente”

Chi commenta non intende negare la validità delle posizioni di Iori (ibidem)[44]; tuttavia, pare maggiormente idoneo qualificare i suddetti messaggio televisivi e social come privi di una morale e non connotati da una morale alternativa. Dunque, per conseguenza, il super-Io dell'adolescente è annichilito per fare spazio ad una amoralità edonistica e prepotente. Utile, a proposito della differenza tra civiltà amorale e civiltà immorale, può forse essere Lukas (1991)[45], il quale afferma che sono lontani i tempi della valorialità forte tipica delle società agricole, poiché oggi, secondo tale Autore, “la nostra società è caratterizzata, essenzialmente, dalla perdita della speranza in un futuro migliore: dalla diffidenza e dalla chiusura nei confronti del domani, dal sentimento di impotenza e di disgregazione, dalla confusione, disorientamento e arbitrarietà derivanti dall'evanescenza dei principi di autorità-anteriorità”. Pertanto, Lukas (ibidem)[46] fa intuire che le difficoltà evolutive dell'adolescente contemporaneo sono oggi aggravate dal vuoto etico di una società che ipostatizza solamente ciò che “piace” al soggetto da educare. Parimenti, Pietropolli Charmet (2008)[47] parla di “una deriva edonistica dettata dalla felicità obbligatoria, nonché dalla pretesa individualistica del successo ad ogni costo”.

D'altra parte, anche nella pedagogia infantile, si esalta il veicolare solo materie e concetti che “piacciono” al bambino, senza tenere conto anche del “dover” apprendere tematiche meno piacevoli. In effetti, Galimberti (2007)[48] sostiene che, nei metodi educativi odierni, “il proprio sé è molto più importante di tutto il resto e, soprattutto, dell'altro da sé […] Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché promette di seppellire l'angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni del deserto di senso. E' un clima culturale, questo, che non può che rendere l'attraversamento di inesplorati territori esistenziali particolarmente burrascoso”.

 

I profili socio-genetici del disagio adolescenziale

Non si può negare l'aspetto sociologico del disagio adolescenziale. In effetti, Basaglia (1971)[49] osserva che “da più parti emerge una sofferenza generalizzata, espressa soprattutto da parte dei soggetti più fragili, meno in grado di dirigere consapevolmente il proprio processo di mutamento, in un contesto caratterizzato da crescente complessità, frammentazione dell'esperienza ed incertezza diffusa, tale per cui la crisi non è più l'eccezione alla regola, ma è essa stessa la regola nella nostra società”. Dunque, Basaglia (ibidem)[50] presenta il giovane come una vera e propria vittima dei ritmi frenetici imposti dal contesto sociale imperniato sulla regola dei consumi. Sono lontani i tempi delle società agricole autoctone e prive dei condizionamenti mass-mediatici. Tale è pure il parere di Bandura (2000)[51], ossia “per i soggetti adolescenti, già attraversati da momenti critici, si assiste ad una crisi nella crisi; vale a dire, alle difficoltà individuali si aggiungono quelle socio-culturali, in un singolare quanto complicato intreccio dato dal mutuo influenzamento dei molteplici fattori in gioco, che risultano inscindibili”. Come si può notare, Bandura (ibidem)[52] parla di un “influenzamento” da parte delle variabili sociali; pertanto, le difficoltà pedagogiche che ineriscono l'ultra-13enne non paiono esclusivamente connesse con fattori psicodinamici. Detto in altri termini, è necessario valutare anche l'aspetto del collocamento sociale, familiare e scolastico dell'adolescente.

A tal proposito, magistrali sono gli asserti di Gnocchi (ibidem)[53], a parere del quale la Medicina non può proporre una chiave di lettura universalmente certa, giacché “il malessere di tanti adolescenti [...] sembra maggiormente connesso ad un principio socio-genetico, piuttosto che psico-patogenetico, [perché] la sofferenza mentale è il sintomo di una crisi sociale più ampia”. Gnocchi (ibidem)[54] si manifesta, giustamente, contrario ad una “psichiatrizzazione” compulsiva della crisi esistenziale nell'adolescenza. Esistono, infatti, condizionamenti socio-culturali che non sono sussumibili entro le categorie della psico-patologia-forense. Secondo Frankl (2009)[55], la collettività post-bellica occidentale è oggi caratterizzata da “fatalismo (la cieca fiducia nel destino e la fuga innanzi alle responsabilità personali), collettivismo (la cristallizzazione di opinioni comuni in slogans e generalizzazioni totalitarie, a discapito delle opinioni personali) e fanatismo (il meccanismo che porta ad ignorare la personalità di chi esprime un pensiero diverso dal proprio)”. In Frankl (2009)[56] il trinomio fatalismo/collettivismo/fanatismo si attaglia perfettamente alle manipolazioni coscienziali indotte dalle televisioni e dai social.

Gli odierni mezzi di comunicazione esaltano l'egocentrismo e mortificano una comunicazione interpersonale democraticamente egualitaria. In modo assai simile, Galimberti (1999)[57] evidenzia che “la nostra è una società subissata dalla tecnica, la quale, con la sua fredda razionalità, relativizza e relega sullo sfondo tutte le simboliche e le immagini che l'uomo si era fatto di sé per orientarsi nel mondo e dominarlo”. E' facile applicare le osservazioni di Galimberti (1999)[58] alla desertificazione religiosa nel mondo adolescenziale, in cui i valori morali non sono più contestati, bensì completamente eliminati, nel nome di un dominante materialismo amorale. Sempre Galimberti (2007)[59] affronta la tematica della negazione della religiosità/moralità affermando che “[l'adolescente sperimenta] il tramonto delle antiche narrazioni, l'oblio delle domande di senso e degli interrogativi circa l'esistenza di un orizzonte di valori condivisi, nell'assuefazione e nell'automatismo con cui l'uomo cosiddetto tecnologico utilizza, in realtà del tutto passivamente, strumenti e servizi che riducono lo spazio, velocizzano il tempo, leniscono il dolore e vanificano le norme su cui sono state scolpite tutte le morali”. E' necessario sottolineare che, in Galimberti (2007)[60], l'Autore non parla di un decadimento morale della gioventù, bensì di un totale rigetto di qualsivoglia moralità/religiosità/prospettiva etica. Parimenti, Benasayag &Schmit (ibidem)[61] asseriscono che l'ultra-13enne contemporaneo vive “nell'illusione di dominare il mondo attraverso la tecnologia, [ma] l'individuo è asservito egli stesso alle tecniche e si trasforma in oggetto”.

I testé menzionati Dottrinari, seppur implicitamente, evidenziano che le nuove tecnologie, tra cui la rete web, aumentano forse il grado di cultura dell'adolescente, ma annichiliscono il super-Io del giovane e non gli forniscono alcun supporto affettivo; donde, a parere di chi redige, la necessità della riscoperta delle agenzie di controllo tradizionali, quali la famiglia, la scuola ed il gruppo religioso di appartenenza. Drastico, eppur realistico, è Bauman (2008)[62], che giunge al punto di affermare: “[l'ultra-13enne] è completamente assoggettato agli ingranaggi di una logica voracemente consumistica, che, accanto all'uomo tecnologico, pone l'insensatezza dell'uomo economico”. Secondo Bauman (ibidem)[63] il soggetto nell'età dello sviluppo vede aggravarsi la propria crisi esistenziale a motivo di condizionamenti dettati dalla Macroeconomia, la quale genera esigenze inutili mascherate da bisogni essenziali. La matrice socio-genetica, e non soltanto fisiologica, del disagio giovanile è individuata pure da Mion (2000)[64], nel senso che “i tratti socioculturali del nostro tempo costituiscono l'humus in cui prolifera, inesorabilmente, un profondo occultamento di senso, tale per cui il malessere dei giovani […] presenta un'intensa matrice culturale; anzi, il disagio risulta essere, prima di tutto, culturale”. Anche Casella (2003)[65] parla di “un vero e proprio Zeitgeist, e non semplicemente di un problema individuale”. Altrettanto pertinentemente, Bauman & Battiston (2009)[66] sostengono l'esistenza “di una nevrosi collettiva, contraddistinta da una tragica triade di comportamenti che interessano soprattutto i giovani: l'aggressività, il suicidio e la tossicodipendenza”. Ecco, pertanto, che Bauman & Battiston (ibidem)[67] negano la natura esclusivamente psichiatrica dello stress evolutivo; la Medicina non è in grado di prevenire o gestire i condizionamenti sociali. Ognimmodo, la gran parte degli Autori mette in rilievo il predominante deserto valoriale in cui si trova a maturare l'adolescente. P.e., Husserl (2008)[68] parla di una negativa “perdita delle tradizioni”, alla quale si aggiunge “una liquidità dei legami, che, nella loro instabilità, precarietà ed imprevedibilità, alimentano il senso di solitudine dell'individuo”. Similmente, Lukas (1983)[69] evidenzia, nell'ultra-13enne, “una profonda incertezza, che spesso si traduce nella mancanza di riferimenti valoriali chiari e condivisi, nonché nella scomparsa di percorsi esistenziali tradizionalmente consolidati”. Lukas (1983)[70], al pari di quanto postulato da Galimberti nelle sue menzionate Opere, fa risaltare il rigetto delle tradizioni sociali, non intese come aspetto folkloristico, bensì come veicoli di valori in grado di guidare il percorso pedagogico del giovane.

Nuovamente, non è in questione l'immoralità adolescenziale, bensì la amoralità socialmente e scolasticamente veicolata nei soggetti in crescita. In effetti, nella Criminologia europea, Durkheim (2007)[71] postulava che “[oggi esiste] un diffuso quanto inquietante sentimento di esteriorità […]. [Esso] pervade modelli e stili di vita adulti che, lungi dal costituire un valido sostegno all'avventura esistenziale dell'adolescente, ne rinforzano le tendenze egiostiche e deresponsabilizzanti, gli atteggiamenti centripeti e disimpegnati, nel nome di una chiusura narcisistica imperniata sull'interesse e sul rendiconto esclusivamente personali. Così, momenti di condivisione e spazi di compartecipazione […] diventano sempre più precari, in una società connotata dalla solitudine monadica”. Pure Frankl (2005)[72] sostiene che i gruppi giovanili, al di la delle apparenze, sono dominati da “una vorticosa ed autoreferenziale frenesia” che impedisce il sorgere di legami umanamente e valorialmente veri; tale è la fattispecie contemporanea delle cc.dd. “amicizie via social”. Bauman (2006)[73] denunzia, nella crescita adolescenziale, un “diritto di possedere […] senza impegno, fatica, rinuncia, nel mito assoluto della comodità”.

 

Conclusioni

Come osservato da Bruzzone (2001)[74], in epoca contemporanea “il valore dell'attesa, del desiderio e dell'investimento verso qualcosa che si ritiene importante è molto debole, insieme alla formazione della personalità, mediante la tolleranza di frustrazioni, errori e qualche privazione. Comunemente, si sente dire, anche dai non addetti ai lavori, che l'appagamento riguarda, per lo più, bisogni di ordine materiale: ci troviamo innanzi a generazioni di bambini e ragazzi/e che hanno ogni cosa, ma in un deserto emotivo, valoriale ed esistenziale preoccupante”. Bruzzone (2001)[75] rimarca l'assenza, nella Pedagogia odierna, di profili valoriali che accompagnino adeguatamente il sapere tecnico degli adolescenti. Di nuovo, la problematica non è l'immoralità, bensì la amoralità desertificante e consumistica.

Analogo è il parere di Fizzotti & Gismondi (1991)[76], ovverosia “in questo ambiente ovattato, ove i giovani vivono avvolti nel tepore di una serra […] prosperano l'edonismo e l'egoismo, tratti caratteristici di un'identità votata all'ideale dell'apparire ad ogni costo”. Le affermazioni di Fizzotti & Gismondi (ibidem)[77] si attagliano perfettamente alla moda dei social, i quali, oltretutto, recano ad una sessualizzazione assai precoce delle bambine e, nei maschi, alterano l'equilibrio della dopamina. Tuttavia, come notato da Bauman (1999)[78], la sociogenesi del disagio prevale sulla psico-pato-genesi, in tanto in quanto “risulta altamente rischioso, nonché riduttivo, affrontare la questione isolando il malessere del singolo, poiché […] non si tratta mai di un passaggio puramente individuale, non esistono adolescenti Robinson Crusoe, individui isolati che attraversano la crisi come se si trattasse di un percorso esclusivamente genetico o biologico, che si svolge fuori da ogni contesto”. Ecco, pertanto, che Bauman (1999)[79] abbandona anch'egli una visone esclusivamente psicologica del disagio in età adolescenziale. Esistono, infatti, numerosi condizionamenti di matrice sociologica recanti ad un aggravamento delle problematiche connesse allo sviluppo dell'ultra-13enne. La psichiatria, essa sola, on è in grado di analizzare il percorso di crescita del soggetto.

P.e., le iperstimolazioni sessuali provengono anche da fattori esogeni cagionati dai mass-media. Oppure ancora, si ponga mente ai condizionamenti non endogeni provenienti da agenzie di controllo non sempre idonee come la famiglia e l'istituzione scolastica. Parimenti, il gruppo dei coetanei influisce a prescindere da aspetti fisiologico-ormonali. In effetti, Frankl (2005)[80] specifica che “assistiamo [nel giovane] ad un malessere diffuso da ascriversi ad un nodo cruciale: a differenza dell'animale, nessun istinto dice all'uomo ciò che deve fare e, attualmente, neppure le tradizioni, diversamente da altre epoche, gli suggeriscono ciò che dovrebbe fare”. Gli asserti di Frankl (2005)[81] ricordano da vicino quelli più volte espressi da Galimberti, nel senso che l'odierna desertificazione valoriale non è arginata neppure dalle consuetudini religiose espresse non per imitazione formale. L'adolescente manca di punti di riferimento etici e le agenzie di controllo non curano più il profilo metanormativo della vita sociale, salvo proporre talune norme civiche che raramente vengono interiorizzate dopo la fase della sessualizzazione. In epoca contemporanea, qualsivoglia riferimento alle tradizioni è percepito alla stregua di un'imposizione reazionaria che mortificherebbe la libertà coscienziale del bambino e del/della ragazzo/a. L'unica etica sopravvissuta alla amoralità è quella del rispetto delle regole del mercato dei consumi.

Simile è pure l'opinione di Pizzi (ibidem)[82], che nota come “un numero considerevole di adolescenti […] fatica ad operare l'attraversamento [pedagogico] e vive in un diffuso stato di malessere, inevitabilmente connesso ad una condizione generalizzata di isolamento esistenziale, che prospera nella folla solitaria della società di massa […] [esiste] un atteggiamento generalizzato di indifferenza, che caratterizza questa società”. Pure Riesman (1999)[83] riprende la tematica della solitudine dell'adolescente, il quale maschera il proprio isolamento attraverso insufficienti ed artificiosi legami “social”. Corretta è anche l'analisi di Milanesi (1989)[84], per il quale esiste 2un mondo adulto indubbiamente in difficoltà, ma pure spesso indifferente e disattento alle esigenze non materiali dei ragazzi […]. [Esso] fomenta variegate forme di malessere, anche sommerso ed asintomatico. […]. Le radici della sofferenza vanno cercate nell'inadeguatezza degli atteggiamenti con cui gli adulti si relazionano alle domande problematiche dei giovani: non è raro registrare risposte che vanno dall'incompetenza alla strumentalizzazione, dalla sfiducia all'inerzia, dal cinismo alla stigmatizzazione”. Fabbrini & Melucci (ibidem)[85] chiosano che “il disagio giovanile è rinforzato, se non addirittura provocato, dal cinismo degli adulti, dalla carenza di modelli significativi e di valori che non siano proclamati in forma retorica, ma autenticamente vissuti”. Interessante è pure Milanesi (ibidem)[86], secondo cui “sono la confusione valoriale e la contraddittorietà dei modelli esistenziali a prendere il sopravvento, poiché, mentre la società veicola atteggiamenti che legittimano e intensificano tendenze fortemente deresponsabilizzanti nei giovani, paradossalmente addossa completamente a loro la responsabilità della loro traversata adolescenziale. Riemerge, allora, il fatto che se, in passato, il riferimento era costituito dalla comunità di appartenenza (che poteva contare sulla forza di salde connessioni e legami sociali), oggi il peso delle scelte si sposta con insistenza verso gli individui e la cultura non assicura più una permanenza stabile delle risposte nel corso della vita”. Le affermazioni di Milanesi (ibidem)[87] sono (rectius: erano) vere particolarmente con afferenza alla comunità religiosa di appartenenza della famiglia dell'ultra-13enne.

 

 

[1]Mesa, Disagio scolastico e ambienti sociali: le risorse e i vincoli, in Triani, Leggere il disagio scolastico, Carocci, Roma, 2020

 

[2]Girelli, In classe: prevenire e convivere con il disagio promuovendo il benessere, www.univr.it

 

[3]Barone, pedagogia dell'adolescenza, Guerini, Milano, 2009

 

[4]Benasayag & Schmit, l'epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2004

 

[5]Barone, op. cit.

 

[6]Borgna, I conflitti del conoscere. Strutture del sapere ed esperienza della follia, Feltrinelli, Milano, 1988

 

[7]Borgna, Come in uno specchio oscuramente, Feltrinelli, Milano, 2007

 

[8]Bonino, Il fascino del rischio negli adolescenti, Giunti, Firenze, 2005

 

[9]Bonino, op. cit.

 

[10]Benasayag & Schmit, op. cit.

 

[11]Benasayag & Schmit, op. cit.

 

[12]Borgna, l'arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano, 2004

 

[13]Borgna, op. cit.

 

[14]Fabbrini & Melucci, L'età dell'oro. Adolescenti tra sogno ed esperienza, Feltrinelli, Milano, 1992

 

[15]Gnocchi, Pedagogia del disagio adulto. Dialogo interdisciplinare e accompagnamento educativo, Unicopli, Milano, 2008

 

[16]Gnocchi, op. cit.

 

[17]Fizzotti, L'immagine frankliana dell'uomo tra teoria e prassi, Humanitas, 32, 11, 1977

 

[18]Fizzotti, op. cit.

 

[19]Galanti, Sofferenza psichica e pedagogica. Educare all'ansia, alla fragilità e alla solitudine, Carocci, Roma, 2007

 

[20]Galanti, op. cit.

 

[21]Fabbrini & Melucci, op. cit.

 

[22]Banasayag & Schmit, op. cit.

 

[23]Triani, Leggere il disagio scolastico. Modelli a confronto, Carocci, Roma, 2006

 

[24]Triani, op. cit.

 

[25]Pizzi, Disagio giovanile e bullismo, Pedagogia e Vita, n. 1, 2010

 

[26]Pizzi, op. cit.

 

[27]Dilthey, Per la fondazione delle scienze dello spirito, Angeli, Milano, 1985

 

[28]Dilthey, op. cit.

 

[29]Bruzzone, Disagio giovanile e ricerca di senso. Intuizioni pedagogiche nella logoterapia di Viktor E. Frankl, Pedagogia e Vita, n. 5/6, 2008

 

[30]Bruzzone, op. cit.

 

[31]Benasayag & Schmit, op. cit.

 

[32]Benasayag & Schmit, op. cit.

 

[33]Allport, Psicologia della personalità, LAS, Roma, 1977

 

[34]Allport, op. cit.

 

[35]Borgna, Le intermittenze del cuore, Feltrinelli, Milano, 2008

 

[36]Borgna (2008), op. cit.

 

[37]Larocca, Handicap indotto e società, Il Sentiero, Verona, 1990

 

[38]Larocca, op. cit.

 

[39]Larocca, Pedagogia generale con elementi di didattica generale, Libreria Editrice Universitaria, Verona, 2000

 

[40]Larocca, op. cit.

 

[41]Frankl, Senso e valori per l'esistenza. La risposta della logoterapia, Città Nuova, Roma, 2010

 

[42]Frankl, op. cit.

 

[43]Iori, Il sapere dei sentimenti. Fenomenologia e senso dell'esperienza, Franco Angeli, Milano, 2009

 

[44]Iori, op. cit.

 

[45]Lukas, Prevenire le crisi. Un contributo della logoterapia, Cittadella editrice, Assisi, 1991

 

[46]Lukas, op. cit.

 

[47]Pietropolli Charmet, Fragile e spavaldo. Ritratto dell'adolescente di oggi, Laterza, 2008

 

[48]Galimberti, L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2007

 

[49]Basaglia, La maggioranza deviante, Einaudi, Torino, 1971

 

[50]Basaglia, op. cit.

 

[51]Bandura, Autoefficacia, Erickson, Trento, 2000

 

[52]Bandura, op. cit.

 

[53]Gnocchi, op. cit.

 

[54]Gnocchi, op. cit.

 

[55]Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, Milano, 2009

 

[56]Frankl (2009), op. cit.

 

[57]Galimberti, Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 1999

 

[58]Galimberti (1999), op. cit.

 

[59]Galimberti (2007), op. cit.

 

[60]Galimberti (2007), op. cit.

 

[61]Benasayag & Schmit, op. cit.

 

[62]Bauman, Consumo, dunque sono, Laterza, Roma-Bari, 2008

 

[63]Bauman, op. cit.

 

[64]Mion, La globalizzazione: sfida dell'educazione. Teorie interpretative e prospettive educative, Orientamenti Pedagogici, Vol. 47, n. 6, 2000

 

[65]Casella, Disagio giovanile, globalizzazione e educazione, Ricerca di Senso, Vol. I, n. 2, 2003

 

[66]Bauman & Battiston, Modernità e globalizzazione, Edizioni dell'Asino, Roma, 2009

 

[67]Bauman & Battiston, op. cit.

 

[68]Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 2008

 

[69]Lukas, Dare un senso alla vita. Logoterapia e vuoto esistenziale, Cittadella, Assisi, 1983

 

[70]Lukas (1983), op. cit.

 

[71]Durkheim, Il suicidio. Studio di sociologia, Rizzoli, Milano, 2007

 

[72]Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, Morcelliana, Brescia, 2005

 

[73]Bauman, Vita liquida, Roma-Bari, Laterza, 2006

 

[74]Bruzzone, Autotrascendenza e formazione. Esperienza esistenziale, prospettive pedagogiche e sollecitazioni educative nel pensiero di Viktor E. Frankl, Vita e pensiero, Milano, 2001

 

[75]Bruzzone, op. cit.

 

[76]Fizzotti & Gismondi, Il suicidio. Vuoto esistenziale e ricerca di senso, SEI, Torino, 1991

 

[77]Fizzotti & Gismondi, op. cit.

 

[78]Bauman, La società dell'incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999

 

[79]Bauman (1999), op. cit.

 

[80]Frankl (2005), op. cit.

 

[81]Frankl (2005), op. cit.

 

[82]Pizzi, op. cit.

 

[83]Riesman, La folla solitaria, Il Mulino, Bologna, 1999

 

[84]Milanesi, I giovani nella società complessa. Una lettura educativa della condizione giovanile, Elle Di Ci, Torino, 1989

 

[85]Fabbrini & Melucci, op. cit.

 

[86]Milanesi, op. cit.

 

[87]Milanesi, op. cit.