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Il disturbo antisociale nel Diritto Penale italiano

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Il disturbo antisociale nel Diritto Penale italiano

 

Profili definitori

Nella Criminologia contemporanea, la nozione di “psicopatia” non è univoca. OMS (2010)[1] afferma che “a causa […] del ricco, variegato ed incerto panorama definitorio derivante dai diversi contesti gnoseologici che si sono susseguiti, accostati e scontrati, nell'odierno contesto clinico è possibile incontrare nozioni quali disturbo antisociale di personalità, disturbo dissociale di personalità, psicopatia e sociopatia”. Per uscire da tali aporie definitorie, il DSM-V ha deciso di sussumere tutte le varie fattispecie di psicopatia entro la categoria ampia di “disturbo antisociale di personalità” (DAP). Diversamente, Hare (1993/2009)[2]evidenzia che il DAP racchiude in sé patologie simili, ma degne di una concreta differenziazione nella Prassi psico-patologico forense. Nei Lavori Preparatori al DSM-V, APA (2013)[3] ha asserito che “il DAP è caratterizzato da un quadro pervasivo di inosservanza delle regole, dei diritti, dei sentimenti e dei desideri delle altre persone, sfruttate e manipolate dal soggetto antisociale per soddisfare i propri bisogni egoistici”. Simile è pure il parere di Zavatti & Barbieri (2000)[4], ovverosia “dal punto di vista psicologico, in ragione della mancanza di empatia, senso di colpa e rimorso, […] l'individuo psicopatico violento è estremamente fragile ed è caratterizzato da una profonda sensazione di vuoto interiore, che tende a non percepire, perché colmata dagli agiti impulsivi ed antisociali”. A parere di chi redige, gli asserti di Zavatti & Barbieri (ibidem)[5] si attagliano perfettamente al reo di white collar crime.

Hare (2011)[6] ha distinto due gruppi di “fattori” presenti nel DAP. Il primo gruppo è costituito da fattori interpersonali ed affettivi, quali mancanza di sincerità, fascino superficiale, sé grandioso, tendenza alla menzogna patologica, istinto volto alla truffa ed alla manipolazione, mancanza di rimorso, affettività superficiale, insensibilità, crudeltà, mancanza di empatia e mancata nonché cronica accettazione della responsabilità delle proprie azioni. Il secondo gruppo è formato da fattori che si traducono in atteggiamenti antisociali, come bisogno di stimolazioni pericolose, stile di vita parassitario, scarso controllo del comportamento, pregressi problemi comportamentali, mancanza di obiettivi realistici di lungo termine, impulsività, irresponsabilità, delinquenza giovanile, comportamenti sessuali promiscui, numerose esperienze coniugali di breve durata e tendenza a commettere delitti.

Di nuovo, che scrive reputa che i due insiemi di fattori delineati da Hare (ibidem)[7] rispecchiano appieno la categoria dei crimini dei colletti bianchi, ove la menzogna patologica regna sovrana. Tuttavia, nella Criminologia statunitense, negli Anni Duemila, non sono mancate le critiche negative ai fattori di Hare (ibidem)[8], la cui applicazione richiede troppi colloqui con il reo; inoltre, i predetti due gruppi di indicatori sono idonei, più che altro, all'analisi personologica di infrattori pregiudicati, mentre il soggetto incensurato sfugge a tale incasellamento psico-forense. Anzi, lo stesso Hare (2003)[9] auto-limita le proprie categorie, in tanto in quanto il DAP non sempre sfocia nella psicopatia in senso stretto. In effetti, anche nel DSM-V, sono censite forme di antisocialità non necessariamente sostanziabili in forme di malattia mentale vera e propria. D'altronde, è noto che l'antisocialità, specialmente se non etero-lesiva, non coincide sempre con l'antigiuridicità o con la psicopatologia.

Altrettanto nebulosa è l'individuazione delle cause del DAP e, più latamente, delle psicopatologie. A tal proposito, giustamente, Clarke (2005)[10] ricorda che “dal punto di vista storico, è possibile distinguere due grandi prospettive: l'una riguardante le origini fisiche, biologiche, genetiche, neurologiche; l'altra concernente le origini socioambientali e le relazioni intra-familiari. In buona sostanza, Clarke (ibidem)[11] distingue tra il biologismo positivista di Lombroso, da un lato, e, dall'altro lato, l'accento posto da Merton e dai suoi seguaci sull'influsso esercitato dalle agenzie di controllo e di educazione. In effetti, antro siffatta prospettiva, Ponti & Merzagora Betsos (2008)[12] specificano anch'essi che “indubbiamente, sia l'approccio biologico sia quello socioambientale sono entrambi approcci deterministici, attualmente superati in favore di quello multifattoriale, che sposta la questione sulla misura in cui i diversi fattori devono essere presenti ed interagire tra di loro, affinché si possa parlare di psicopatia, superando, di conseguenza, il classico quesito se psicopatici si nasca o si diventi. Secondo il nuovo approccio, infatti, la risposta più appropriata sarebbe probabilmente quella per cui psicopatici si nasce e si diventa, nel senso che entrambi i nuclei eziologici sarebbero di per se stessi necessari, ma non sufficienti per l'esordio psicopatico”.

Dunque, come si nota, Ponti & Merzagora Betsos (ibidem)[13] propongono un'equilibrata convivenza eziologica tra l'apporto delle tare ereditarie e l'influsso degli stimoli veicolati, prima dell'adultità, da parte delle istituzioni pedagogiche. Questa analisi causale multifattoriale è condivisa pure da Stone (2002/2007)[14], a parere del quale è necessario misurare il “quoziente psicopatico” (QP) insito in ciascun individuo; un QP particolarmente elevato caratterizza i soggetti “vulnerabili”, che potrebbero facilmente manifestare il DAP o altri disturbi simili. A parere di chi commenta, il QP di Stone (ibidem)[15] reca in sé una pericolosa prospettiva eugenetica.

La multifattorialità eziologica è riconosciuta pure da Greco & Maniglio (2007)[16], in tanto in quanto “la difficoltà nella diagnosi di psicopatia, o, specialmente, del DAP, è anche data dal fatto che si tratta di condizioni psicopatologiche fortemente associate ad altri disturbi e malattie mentali”. Come si può notare, quindi, anche Greco & Maniglio (ibidem)[17] intendono affrancarsi da qualsivoglia determinismo sia biologico sia socioambientale.

Del pari, Dahl (2003)[18] ribadisce che la c.d. “pseudopsychopatic schizophrenia” “coinvolge, oltre che gli altri disturbi della personalità, anche il disturbo da uso di sostanze […] e ciò solleva, di conseguenza, il quesito se l'uso delle sostanze debba rilevare quale sintomo, ovvero quale disturbo a sé stante”. Di nuovo, pertanto, Dahl (ibidem)[19] nega la monofattorialità psicofisica e sociale del DAP. Anche APA (ibidem)[20] sottolinea la presenza, nelle psicopatie, di fattori scatenanti sia endogeni, sia socioambientali, come le esperienze educative familiari e scolastiche. Entro tale ottica non apodittica e non assolutizzante si colloca pure Schneider (1958)[21], a parere del quale esistono almeno 10 personalità psicopatiche: ipertimica, depressiva, insicura, fanatica, bisognosa di valutazione, labile d'umore, esplosiva, fredda, abulica o astenica. A sua volta, la psicopatia può essere auto-lesiva, oppure etero-lesiva, a seconda della modalità di dirigere gli impulsi distruttivi. Catalano Nobili & Cerquetelli (1974)[22] sostengono che il DAP “si distingue, a sua volta, in due principali sottogruppi di personalità psicopatiche, nevrotiche e sociopatiche [ma] va rifiutata una vera e propria dicotomia, dato che gli aspetti nevrotici non escludono un'eventuale e conseguente componente sociopatica”.

Interessanti sono pure Millon & Davis (2003)[23], i quali affermano che i dieci fattori individuati da Hare (ibidem)[24] “sono contemporaneamente oggetto e causa di sofferenza”. A sua volta, Clarke (ibidem)[25] evidenzia che la figura dello psicopatico tipizzata da Hare (ibidem)[26] “è lo psicopatico di successo, [ovvero] il classico colletto bianco autore di reato, il titolare o dirigente di una società che cerca di ottenere potere, prestigio e soprattutto denaro, manipolando, a proprio vantaggio, il sistema economico e finanziario”. Dunaif & Hoch (1955)[27], nel Novecento, postulavano che spesso “lo psicopatico arriva a commettere diversi e gravi reati contro la persona, non solo per dominare le vittime, bensì anche per soddisfare impulsi sessuali, sentimenti di vendetta e ottenere denaro”. Di nuovo, Dunaif & Hoch (ibidem)[28] offrono un'interpretazione psicoanalitica del DPA e, più latamente, della psicopatia, la quale si alimenta di sessualità repressa, distruttività e costruttività alternativa. Ognimmodo, il DPA s'incarna quasi sempre nello white collar crime, ove il reo mira ad ottenere potere, controllo, denaro, prestigio, sesso e vendetta. Dunque, la criminalità dei colletti bianchi, benché psichiatricamente asintomatica, è quella che meglio esprime un'antisocialità nascosta, eppur grave.

 

La violenza antigiuridica nello psicopatico

Con grande senso del garantismo e senza ipostatizzare la psico-patologia forense, Canter & Young (2009)[29] precisano che “non tutti i criminali sono psicopatici, così come non tutti gli psicopatici arrivano ad essere criminali e/o violenti”. Come si può notare, Canter & Young (ibidem)[30] si manifestano contrari ad una Medicina tracotante ed onnipresente, che sulla scia di Lombroso, predica la perenne e tassativa malattia mentale dell'infrattore antinormativo. Tuttavia, non mancano Dottrinari sottilmente eugenetici, come nel caso di Fazel & Danesh (2002)[31], a parere dei quali “la Letteratura prevalente registra una notevole rilevanza e diffusione del DAP e della psicopatia nelle popolazioni carcerarie dei Paesi occidentali”.

Ecco, nuovamente e malaugurevolmente, che Fazel & Danesh (ibidem)[32] “medicalizzano” il trattamento penitenziario e confondono l'ordinaria antisocialità del reo con la ben più rara psicopatia. Anche altri Autori, come Simon (2008/2013)[33] reputano che il DAP sia la causa scatenante di molti atti di violenza etero-lesiva penalmente rilevante. Il mito di una psichiatria infallibile domina pure in Gatti & Rocca (2013)[34], ovverosia “grazie alle tecniche di neuroimaging, è stato possibile osservare come la struttura cerebrale della maggior parte degli psicopatici non funzioni come quella dei soggetti non-psicopatici, essendo caratterizzata da lesioni o disfunzioni di determinate arre del cervello [che sono] […] alla base del comportamento violento”. Dunque, Gatti & Rocca (ibidem)[35] cadono nell'errore di adottare una fiducia cieca e totalizzante verso le neuroscienze, che affermano, sempre e comunque, la sussistenza di malattie psichiche in capo al responsabile di delitti violenti.

Del pari, Pinker (2011/2013)[36] mette in evidenza che, nell'essere umano, si scontrano aspetti negativi ed aspetti positivi; i profili positivi sono, solitamente, l'empatia, l'autocontrollo, il senso morale e la ragionevolezza. Tuttavia, nello psicopatico violento, predominano caratteristiche contrarie, come la violenza, la dominanza, la vendetta, il sadismo e l'ideologia. In effetti, la psicologia, a cominciare da quella di Lombroso, tende a considerare come “necessario” il legame tra DAP e condotte aggressive; nella realtà, invece, non sempre il soggetto con personalità antisociale sfoga le proprie turbe nell'etero-lesività fisica o materiale

Tallarico [37](2008) reputa che “l'aggressività umana è riconducibile a due specifiche forme di aggressività animale, vale a dire quella reattiva, in risposta all'istinto di sopravvivenza, e quella predatoria […] motivata dal potere, dal sesso, dal denaro e dalla vendetta. La maggior parte degli Studi ritiene che la violenza psicopatica sia tipicamente motivata da questi ultimi aspetti”. Il determinismo istintuale di Tallarico (ibidem)[38] è presente anche in Blair (2010)[39], secondo cui l'aggressività è sempre scatenata da disturbi psicopatici che ineriscono la corteccia prefrontale ventromediale del cervello.

Nuovamente, Blair (ibidem)[40] si arrende alla dittatura epistemologica delle neuroscienze, come se l'essere umano non godesse di alcun margine di libero arbitrio nei confronti degli istinti animali. Parimenti, Anderson & Bushman (2002)[41] asseriscono che l'aggressività è il connotato caratteristico dei soggetti affetti da DAP, in tanto in quanto questa patologia reca (rectius: recherebbe) ad un'incontenibile impulsività e ad un tassativo deficit di autocontrollo. In maniera coraggiosa ed anticonformistica, invece, Palermo (2011)[42] nega che lo psicopatico sia dominato dalla sola istintualità, giacché “i suoi crimini ed agiti violenti non sono, generalmente, una risposta a provocazioni esterne, ma [i delitti] sono perpetrati al fine di ottenere denaro o potere, o per realizzare altri crimini, come, ad esempio, quelli di carattere economico”. Palermo (ibidem)[43] smonta l'immagine falsa e distorta dello psicopatico costantemente in preda a scoppi di rabbia incontrollabili, come dimostra la figura del delinquente “in colletto bianco”, il quale non agisce per impeto, bensì nel nome di perversioni antisociali dotate di una notevole razionalità. Entro tale medesima ottica, Woodworth & Porter (2002)[44] precisano che il soggetto affetto da DAP non corrisponde all'immagine stereotipata del pazzoide privo di autocontrollo; p.e., nello white collar crime, l'antisocialità è sì patologica, ancorché apparentemente asintomatica e ben occultata di fronte all'opinione pubblica. Oppure ancora, Woodworth & Porter (ibidem)[45] mettono in risalto che talune forme di autolesionismo sfuggono alla categoria patologica del DPA, poiché esse sono sovente nascoste all'esterno.

La Medicina, dunque anche le neuroscienze, non costituiscono l'unica o la primaria forma di interpretazione del DAP.

P.e., Walsh & Swogger & Walsh & Kosson (2007)[46] adottano criteri morali quando dichiarano, assai pertinentemente, che “il soggetto antisociale soffre di un vuoto nella propria vita, che tende a non percepire poiché colmato dagli atti impulsivi e dalle condotte illegali, in risposta al bisogno costante di eccitamento […] la sua struttura personologica lo tutela dai conflitti interiori, riversati all'esterno, contro la società: la mancanza di empatia, di senso morale e di rimorso gli impedisce di soffrire per il male commesso”. Pertanto, Walsh & Swogger & Walsh & Kosson (ibidem)[47] mettono in evidenza la a-moralità dello psicopatico, ma utilizzano, finalmente, categorie etiche che non assolutizzano presunti malfunzionamenti della corteccia prefrontale del cervello.

I testé menzionati Dottrinari anglofoni hanno il coraggio di uscire da un'esegesi soltanto neuroscientifica del DAP. La Criminologia non è tenuta ad asservirsi supinamente alla psico-patologia forense, giacché un conto è la cura medica e un altro conto è la qualificazione giuridica dei reati. Le neuroscienze rischiano di provocare un abuso delle nozioni di “infermità/seminfermità di mente” ex Artt. 85, 88 ed 89 CP. La scelta della non predominanza della psichiatria si ritrova pure in Väfors Fritz & Wiklund & Koposov & Klinteberg & Ruchkin (2008)[48], nel senso che le “carenze affettive” e la mancanza del “rimorso” sono sì alla base del DAP, ma ciò non giustifica, nei summenzionati Dottrinari, l'adozione sistematica di griglie ermeneutiche mutuate dalla Medicina; la carenza di empatia, nello psicopatico, non giustifica, sempre e comunque, l'applicazione della ratio della mancata capacità d'intendere e di volere ex Artt. 85, 88 ed 89 CP. Altrettanto moderati sono Walsh &Swogger & Walsh & Kosson (ibidem)[49] nell'evidenziare che il DAP si fonda, prevalentemente, sulla “impulsività” e non sulla “pianificazione”, ma ciò non autorizza il Magistrato del merito a negare in ogni caso la presenza della piena capacità intellettiva e volitiva.

Oppure ancora, Harpur & Hare (1994)[50] ammettono la ”immaturità affettiva” del soggetto psicopatico, senza, però, attribuire a tale individuo una cronica infermità di mente. Come si vede, nella maggior parte degli Autori citati, le neuroscienze non costituiscono un modello interpretativo universale; per cui, il “libero e prudente apprezzamento” del giudice non si deve necessariamente fondare su una lettura dogmatica dell'eventuale perizia psichiatrica dell'infrattore affetto da DAP. Oltretutto, si tenga pure presente che esistono forme di antisocialità non antigiuridiche, dunque irrilevanti sotto il profilo giuridico. P.e., Clarke (ibidem)[51] dichiara anch'egli che “l'occupational psychopath, definito anche psicopatico non criminale, è un soggetto che non necessariamente arriva a realizzare comportamenti penalmente rilevanti e spiccatamente violenti, pur continuando a muoversi in una zona d'ombra tra la legalità e l'illegalità, violando norme [esclusivamente] etiche”. Gli asserti di Clarke (ibidem)[52] possono essere riferiti al borderline non etero-lesivo e non antigiuridico, benché rientrante nella fattispecie patologica del DAP.

 

Psicopatia e tendenza al crimine

L'individuo affetto da DAP manifesta quasi sempre un'infanzia problematica ed un esordio precoce della tendenza al crimine. A tal proposito, Schopp & Slain (2000)[53] sostengono che “la tipica carriera dello psicopatico delinquente è caratterizzata da tre aspetti principali: la criminalità precoce, l'alto tasso di recidiva e la versatilità criminale”.

In primo luogo, come asserito da Coid (2005/2008)[54] “il soggetto psicopatico/antisociale autore di reato rientra nella categoria criminale dei soggetti ad esordio precoce cronico, ossia di coloro che manifestano il comportamento antisociale sin dalla prima infanzia, mantenendolo costante nella successiva età adulta […]. La carriera criminale inizia in età adolescenziale, per proseguire sino all'età adulta”. Chi redige nota, in Coid (ibidem)[55] una surrettizia nonché pericolosa tendenza all'eugenetica. Il DAP, infatti, non può e non deve essere interpretato in maniera deterministica. Parlare di una “ineludibile” criminogenesi nello psicopatico antisociale significa sposare le orribili teorie biologiste di Lombroso e di Ferri.

In secondo luogo, la Dottrina psico-patologico forense reputa che il DAP predisponga alla recidiva. Secondo Carabellese & Rocca & Candelli & La Tegola & Birkhoff (2012)[56] “il costrutto della psicopatia giunge a costituire un valido fattore di rischio, e quindi predittivo […] della recidiva”. Sotto il profilo statistico, del pari, Hemphill & Hare & Wong (1998)[57] hanno censito che “nel primo anno dopo l'uscita da un istituto penitenziario, a differenza degli altri criminali, quelli psicopatici risultano 3 volte più a rischio di commettere un reato e 4 volte di agire in modo violento”. Analoga rilevazione numerico-statistica è stata effettuata pure da Quinsey & Rice & Harris (1995)[58], ovverosia “entro i primi 6 anni dal ritorno in libertà, più dell'80% dei sex offenders psicopatici, contro solo il 20% circa di quelli non psicopatici, torna a commettere reati violenti”.

Degni di nota sono pure Canter & Young (ibidem)[59], a parere dei quali “è letale la combinazione tra la psicopatia e la devianza sessuale [recidivata]. […]. La psicopatia […] è un fattore di rischio fondamentale non solo della recidiva, bensì anche della violenza, assieme agli altri fattori noti per i reati gravi e per le condotte particolarmente violente”. Nuovamente, chi scrive è disposto ad accettare gli asserti summenzionati soltanto se espressi con la massima cautela; la tendenza alla recidiva non è un fattore matematicamente misurabile, né, tantomeno, il DAP reca inevitabilmente ed automaticamente alla reiterazione dei reati già commessi in precedenza. Dunque, l'antisocialità porta sì alla criminogenesi, ma non si tratta di un'equazione algebrica assolutamente e tassativamente certa. Congiungere apoditticamente la psicopatia alla condotte recidivanti significherebbe tornare alla Dottrine criminologiche deterministiche dei primi decenni del Novecento. Nessun condizionamento criminogeno è inevitabilmente predeterminato.

In terzo ed ultimo luogo, il DAP provoca (rectius: provocherebbe) una “versatilità criminale”, in tanto in quanto il soggetto borderline, come rimarcato da Vaugh & De Lisi (2008)[60], tende a sperimentare una vasta gamma di illeciti, “dall'omicidio volontario ai reati sessuali, sino allo white collar crime […] per cui si può benissimo parlare, rispetto ai soggetti psicotici, di criminale di carriera”. Anche in tal caso, chi commenta trova in Vaugh & De Lisi (ibidem)[61] un'indicazione generale ancorché non matematicamente certa ed infallibile; la “carriera criminale”, del resto, non è un tratto distintivo che appartiene esclusivamente agli infrattori psicopatici.

Secondo Douglas & Vincent & Edens (2006)[62], lo stalking non è un reato tipico dei delinquenti con DAP, “dal momento che gli atti persecutori sono tendenzialmente volti a creare relazioni intime, mentre la psicopatia è caratterizzata dalla completa incapacità di costruire legami affettivi”. Come si può notare, in Douglas & Vincent & Edens (ibidem)[63], torna la fondamentale tematica dell'anaffettività della persona antisociale. Il deviante psicopatico e borderline non manifesta né empatia né spinte affettivo-morali verso l'altro. Di diverso parere sono Storey & Hart & Meloy & Reaves (2009)[64], per i quali l'infrattore con DAP è “rancoroso e predatore”, quindi, talvolta, integra gli estremi dello stalking “[ma] il molestatore assillante psicopatico non è mosso da un forte attaccamento emotivo per le sue vittime, bensì dalla rabbia e dal risentimento, ovvero da desideri sadici e da impulsi di tipo sessuale. La sua condotta non riflette sforzi per stabilire o mantenere legami affettivi e non esprime il disagio personale causato dalla rottura di un rapporto intimo: lo stalking e la violenza insita vengono utilizzati strumentalmente, per affermare il proprio potere e controllo e per soddisfare la propria personalità narcisistica”.

Parimenti, Mullen & Pathé & Purcell (2000)[65] evidenziano che il reo antisociale agisce minacce vessatorie, se le agisce, nel nome di un abnorme egocentrismo infantile mai superato nell'adolescenza e nell'adultità. Si noti pure, sotto il profilo statistico, che il reo affetto da DAP esercita lo stalking in danno di vittime sconosciute, non commensali e particolarmente vulnerabili.

Importante è pure l'analisi dei reati sessuali perpetrati dall'infrattore psicopatico. Meloy (2010)[66] precisa che “la sindrome psicopatica costituisce uno dei fattori predittivi fondamentali dei sex crimes. I reati sessuali degli psicopatici, infatti, sono più violenti e sadici rispetto a quelli degli altri criminali sessuali [e] la psicopatia è maggiormente implicata nello stupro e nei delitti sessuali misti, piuttosto che nell'abuso sui minori”. Di nuovo, chi redige prende le distanze da Meloy (ibidem)[67], in tanto in quanto è assodata l'esistenza di forme di antisocialità non etero-lesive. Pertanto, il DAP non è sempre e comunque un predittore dei sex crimes, giacché molto dipende dalla singola personalità concreta del borderline.

Nell'ottica di Dorr (2003)[68], sussiste un legame intenso tra DAP e pedofilia, perché “è psicopatica la maggior parte dei pedofili e/o child molesters, dati gli alti tassi di comorbidità tra le due forme di disordini comportamentali […]. Gli obiettivi principali della psicopatia e della pedofilia sono i medesimi, vale a dire dominare, usare e soggiogare un'altra persona per soddisfare il proprio senso di Sé grandioso […]. La pedofilia presenta dinamiche simili alla psicopatia, evidenti nella maggior parte dei child molesters [ossia] il bisogno di dominazione e di potere, nonché quello di accettazione e seduzione, realizzati attraverso l'inganno, la manipolazione, il sadismo, l'astuzia ed altre caratteristiche proprie della psicopatia”. Come sempre, chi scrive sottolinea che le tesi di Dorr (ibidem)[69] si attagliano alla maggior parte degli infrattori psicopatici, ma sarebbe un errore oltranzista proporre l'equazione antisocialità/pedofilia. D'altra parte, come specificato prima, sussistono condotte antisociali eccentriche ancorché non antigiuridiche.

Da non sottovalutare è pure il legame tra DAP ed omicidio volontario. Kugu & Akyuz & Dogan (2008)[70] mettono in risalto che “nel complesso quadro degli assassinii, oltre alle principali diagnosi psichiatriche e al disturbo da uso di sostanze, vengono generalmente riscontrati anche i disturbi di personalità – specialmente borderline ed antisociale – e la psicopatia”. Più nel dettaglio, Laurell & Daderman (2007)[71] evidenziano che “psicopatico ed assassino sono sinonimi nell'omicidio seriale […]. Infatti, il serial killer ricerca sensazioni, non ha rimorso o senso di colpa, è impulsivo, ha bisogno di controllo e di potere e tende al comportamento predatorio”. Parimenti, Beasley (2004)[72] nota che l'assassino seriale “è un giovane adulto maschio tipicamente psicopatico”. Similmente, Koch & Berner & Hill & Briken (2011)[73] sono concordi nel descrivere il sex homicidal offender coma “ un giovane adulto di sesso maschile”prevalentemente affetto da DAP e, ognimmodo, “con gravi problemi infantili e familiari, oltre che con tratti sadici di personalità”.

Non va sottovalutato pure il legame tra psicopatia e white collar crime. Perri (2011)[74] sfata l'immagine tradizionale della criminalità economica, in tanto in quanto “se, tradizionalmente, i colletti bianchi venivano considerati una categoria omogenea e non violenta di delinquenti, i recenti Studi hanno potuto constatare come si tratti, invero, di una categoria disomogenea e violenta, essendovi, tra i vari aspetti psicologici riscontrati, anche il disturbo antisociale di personalità, il narcisismo e, soprattutto, la psicopatia”. D'altra parte, anche senza l'ausilio della Dottrina criminologica, consta che lo white collar crime non è affatto privo di conseguenze negative sulla collettività, come dimostra la dolorosa storia delle mafie calabro-sicule. La criminalità finanziaria altera il sistema macroeconomico IS/LM e, non di rado, coinvolge pure devianze violente, intimidazioni ed omicidi volontari. Nel lungo periodo, i colletti bianchi, più o meno direttamente, recano a gravi atti di sopruso fisico. In effetti, con molta onestà culturale, Perri & Lichtenwald (2007)[75] evidenziano che “gli white collar psicopatici possono arrivare a commettere, in modo strumentale, crimini violenti, come, addirittura, l'omicidio, al fine di massimizzare o, quantomeno, facilitare il profitto della propria attività illecita ed evitare, altresì, che i propri schemi fraudolenti possano essere scoperti ed indagati, arrivando, in questi casi, a parlare di fraud-detection homicide”.

Gli asserti di Perri & Lichtenwald (ibidem)[76] si realizzano appieno all'interno delle condotte tipiche della criminalità organizzata, pur se, nel breve o medio periodo, gli effetti devastanti del crimine professionale non sono visibili. D'altronde, consta che lo white collar crime possiede una notevole capacità di mimetizzarsi entro i canali di un'economia apparentemente sana ed indipendente. Del pari, come notato da Pennati & Merzagora & Travaini (2013)[77], il DAP, nei professionisti infrattori, si nasconde assai bene, poiché “questi soggetti non mostrano la medesima impulsività o mancanza di controllo che si registra negli altri delinquenti da strada, e si presentano, di conseguenza, più calcolatori e riflessivi circa le proprie intenzioni”. Analogo è il parere di Bickle & Schelgel & Fassbender (2006)[78], i quali sostengono che i criminali in colletti bianchi riescono molto bene “a minimizzare i rischi e ad organizzare in modo più intelligente la frode, rendendo, al contempo, più complicate le indagini”.

P.e., si ponga mente alla corruzione di certuni Ordinamenti statali, ove le oligarchie mafiose generano sofferenze materiali e violenze fisiche nei confronti della popolazione. La profonda antisocialità dello white collar crime è innegabile, pur se si tratta di condotte psicopatiche ammantate di un'indubitabile eleganza formale. Di nuovo, pare estremamente utile pensare alla drammatica realtà del Meridione italiano. Oppure ancora, la violenza implicita dei colletti bianchi è evidente nelle Macroeconomie della maggior parte degli Stati africani.

 

La pericolosità antisociale e l'imputabilità dello psicopatico delinquente

Nella Criminologia europea e nordamericana, non è stato ancora chiarito se lo psicopatico debba o meno rientrare nelle categorie della “malattia mentale”. Pure gli italiofoni Lavazza & Sammicheli (2012)[79] rimarcano che la Giurisprudenza di legittimità è carente sulla tematica dell'antisocialità e della conseguente imputabilità, o meno, del criminale affetto da un DAP etero-lesivo. Nel Diritto Penale italiano, vigono, in tema di imputabilità, gli Artt. 85, 88 ed 89 CP; nella Common Law predomina la ratio della “insanity”; tuttavia, come osservano Lavazza & Sammicheli (ibidem)[80], non si è ancora stabilito “se la sindrome psicopatica possa costituire, oppure no, una causa di infermità ai fini della valutazione del vizio totale o parziale di mente”. D'altra parte, chi redige precisa, ancora una volta, che sussistono, nella prassi clinica quotidiana, delle forme di DAP non antigiuridiche e prive di una dannosità verso altri consociati. La ratio della “pericolosità sociale” è essenziale, comunque, giacché, nel Diritto Penale, non possono trovare cittadinanza i delitti muniti di una pericolosità meramente “astratta”. Siffatta lacuna circa la “capacità d'intendere e di volere” dello psicopatico è rilevata pure da Santoni & De Sio (2013)[81], in tanto in quanto non è ancora stato evidenziato “se l'individuo con DAP possa o meno essere ritenuto diverso dal comune delinquente o, più precisamente, se i suoi agiti antisociali abbiano alla base, o meno, delle motivazioni provenienti da un processo di ragione compiuto da una mente normale o che operi, quantomeno, normalmente”. Ognimmodo, chi scrive auspica un intervento risolutivo delle Sezioni Unite della Suprema Corte con afferenza all'applicabilità, o meno, degli Artt. 85, 88 ed 89 CP all'imputato borderline e socialmente non integrato.

Molto pertinentemente, Levy (2010)[82] sottolinea che “il ragionamento s'incentra sulla possibilità di vedere o meno questo infrattore come un soggetto moralmente cieco, incapace di apprezzare le norme etico-sociali, a causa della mancanza dei sentimenti necessari a tal fine. In altri termini, il dibattito si concentra sul quesito se lo psicopatico sia, o meno, capace di discernere tra la trasgressione convenzionale (malum prohibitum) e la trasgressione morale (malum in se), e quindi se sia, o meno, dotato di competenza morale”. Come si può notare, Levy (ibidem)[83] sottolinea che il reo con DAP manifesta una vera e propria desertificazione morale dominata dai valori del piacere e della possessività predatoria o sessuale. Dunque, lo psicopatico rigetta, seppur nascostamente, le regole etiche che stanno alla base del c.d. “contratto sociale” di groziana memoria. Pure Blair (1997)[84] precisa che l'individuo antisociale delinque perché “non comprende la differenza tra ciò che è eticamente giusto e ciò che è sbagliato”

Diverso è il parere di Cima & Tonnaer & Hauser (2010)[85], secondo cui “gli psicopatici sono in grado di valutare la liceità di un'azione, comprendendo la differenza tra giusto e sbagliato, ma non sono, poi, interessati agli effetti ed alle conseguenze del loro agire immorale”. Entro tale ottica di affermazione della “sanity” del borderline si collocano pure Lavazza & Sammicheli (ibidem)[86], i quali non negano la capacità d'intendere e di volere della persona con DAP, la quale, in ogni caso, reca la sola preoccupazione di “tentare, successivamente, di occultare le proprie azioni e di non essere scoperta”. In buona sostanza, pertanto, i cinque Autori or ora summenzionati affermano la non infermità mentale dell'imputato antisociale, che possiede un senso morale, ma tale dimensione etica viene spregiudicatamente superata dall'assenza dello stimolo naturale del “rimorso”.

Utili sono pure Santoni & De Sio (ibidem)[87], ad avviso dei quali “lo psicopatico esprime un sistema di valori più infantile che adulto. Egli può essere accostato al minore, rinvenendone alcuni aspetti comuni, come l'immaturità emotiva, che impedisce la piena comprensione del significato delle norme e la capacità di adeguarvi il proprio comportamento”. Ecco, quindi, che Santoni & De Sio (ibidem)[88] invitano, seppur implicitamente, a contestualizzare, di volta in volta, il grado di “infantilità” manifestato dall'infrattore antisociale. Per conseguenza, tali due Dottrinari aprono la strada all'eventuale riconoscimento positivo dell'infermità/seminfermità psichica del delinquente affetto da DAP. Eguale è anche la prospettiva di Simon (ibidem)[89], a parere del quale il borderline non socialmente integrato “è incapace di apprezzare il significato ed il valore delle regole sociali e legali, anche nei casi in cui dimostrasse di esserne a conoscenza”. Ognimmodo, chi scrive reputa doveroso, in sede giurisdizionale, accertare nel concreto il livello dell'immaturità etico-sociale del reo con DAP. La contestualizzazione rimane l'unica via per la comminazione di una pena equamente proporzionata.

Taluni hanno sostenuto che la psicopatia, ex Artt. 85, 88 ed 89 CP, è sussumibile entro il campo precettivo dell'infermità o seminfermità mentale. P.e., Barbieri (2006)[90] ha affermato che “secondo il prevalente paradigma psicologico, il concetto di infermità è più ampio di quello di malattia, comprendendo anche quagli stati morbosi che, secondo il paradigma medico, non costituiscono malattie mentali propriamente dette”. La posizione di Barbieri (ibidem)[91], d'altra parte, è oggi condivisa dalla Giurisprudenza di legittimità, la quale, rivisitando creativamente e criticamente l'Art. 90 CP, ha annoverato gli stati passionali tra le cause di esclusione o di diminuzione dell'imputabilità. Analoga osservazione vale pure per i disturbi borderline e per quelli del carattere.

Oppure ancora, si ponga mente a Cassazione 9163/2005, a norma della quale “a certe condizioni [di intensità, ndr], i disturbi della personalità, le nevrosi e le psicopatie incidono sulla capacità d'intendere e di volere”. Come si nota, la Suprema Corte non ipostatizza il DSM-V, come s esi trattasse di un testo sacro certo ed inoppugnabile. Ciononostante, Merzagora Betsos (2012)[92] è scettica con afferenza alla sussunzione o meno, entro gli Artt. 85, 88 ed 89 CP, della “mancanza di apprezzamento etico”. Del pari, pure Ponti & Merzagora Betsos (ibidem)[93] esprimono dubbi circa “il coinvolgimento dei sentimenti morali nella definizione della capacità umana di razionalità”. Dopotutto, nonostante le aperture giurisprudenziali, l'Art. 90 CP statuisce pur sempre che, de jure condito, “gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l'imputabilità”. Possibilista e, anzi, arditamente avanguardistico è Barbieri (ibidem)[94], ovverosia “se si considera la capacità d'intendere come la capacità di discernere rettamente il significato, non solo dal punto di vista cognitivo, ma anche morale, delle azioni e delle relative conseguenze, allora la sindrome psicopatica e le altre psicopatie possono […] rilevare quali infermità ed incidere sul giudizio della imputabilità”.

Viceversa, Glannon (2008)[95], nella Criminologia anglofona, è più restrittivo, in tanto in quanto “occorre, altresì, tenere in considerazione che la società non sembra poter sopportare che uno psicopatico delinquente non paghi per i crimini commessi e non sia posto, di conseguenza, nella situazione di non offendere ulteriormente”. D'altra parte, Zavatti & Barbieri (ibidem)[96] ammettono la “pericolosità sociale” del reo affetto dal DAP, che dovrà, per conseguenza, essere attenuato o curato in una Rems. P.e., Howard (2006)[97] rileva che la maggior parte degli psicopatici antisociali abusa di alcol e ciò crea violenza, aggressività e “danneggia la funzione della corteccia prefrontale […] compromettendo la funzione del lobo frontale  e generando un alto rischio di comportamenti antisociali e devianti”. In buona sostanza, Howard (ibidem)[98] esorta a non sottovalutare la pericolosità etero-lesiva dello psicopatico, che raramente perde la propria carica distruttiva quando raggiunge l'età adulta senza essere stato adeguatamente curato

 

Conclusioni

Come evidenziato da Ogloff & Wood (2010)[99], a differenza di quanto accadeva in passato, oggi la psicopatologia forense reputa che il DAP sia curabile. Provvidenzialmente, dunque, sono lontane le teorie eugenetiche e, soprattutto, deterministiche di Lombroso e dei suoi seguaci. Anzi, Ciocchetti (2003)[100] giunge a negare che l'antisocialità necessiti di cure psichiatriche abbondantemente invasive o pesanti. Tuttavia, è pur sempre vero, come messo in risalto da Hare (ibidem)[101], che, specialmente nella fattispecie dei colletti bianchi, “spesso gli interventi psicologici appaiono inadeguati. Il problema fondamentale è dato, infatti, dalla mancanza di motivazione e di volontà del soggetto, il quale, non soffrendo, non è portato a cercare aiuto e a collaborare attivamente, e non è nemmeno disposto a quell'imprescindibile rapporto di fiducia con il terapeuta, che rende qualsiasi approccio psicologico […] efficace”. Interessanti sono pure Carabellese & Rocca & Candelli & La Tegola & Birkhoff (ibidem)[102], per i quali “le psicoterapie di gruppo [sul DAP] risultano, addirittura, perniciose, poiché forniscono agli psicopatici nuove razionalizzazioni e giustificazioni per il proprio stile di vita deviante, nonché ulteriori conoscenze sulla vulnerabilità della psiche umana da adoperare per manipolare e sfruttare gli altri”.

Analoghe sono le osservazioni di Simon (ibidem)[103], secondo il quale “alcuni Studi mostrano come, dopo il rilascio, gli psicopatici che hanno partecipato alla psicoterapia di gruppo presentano un tasso di recidiva nel reato più alto di coloro che non vi hanno preso parte”. Di nuovo, a parere di chi commenta, l'analisi di Simon (ibidem)[104] è idonea a spiegare la condotta degli white collars, particolarmente spregiudicati e privi di qualsivoglia spinta alla resipiscenza. Anzi, amaramente, von Knorring & Ekselius (2003)[105] rilevano che “il trattamento psicoterapeutico non è l'unico disponibile [ma] nel trattamento dei pazienti di tipo psichiatrico forense […] non esistono, attualmente, interventi farmacologici specificamente rivolti al DAP e, più in particolare, alla psicopatia”.

Forse, per trattare meglio il DAP, come rimarcato da Ogloff & Wood (ibidem)[106], è opportuno e, altresì, necessario definire meglio il lemma “psicopatia”. A tal proposito, Salekin & Worley & Grimes (2010)[107] evidenziano che “[bisogna anzitutto capire] cosa funziona, o meno, e con quale tipo di soggetto psicopatico […]. Le ricerche sul trattamento del DAP dovrebbero concentrarsi non solo sulla variabile della recidiva, ma anche sui fattori sociali indicatori di tale condizione. […]. L'obiettivo realistico, ovviamente, non dev'essere quello di sradicare tutti i sintomi della sindrome, e in modo definitivo, bensì quello di aiutare il soggetto a raggiungere un graduale progresso nel corso della terapia”.

Quindi, Salekin & Worley & Grimes (ibidem)[108] distinguono tra la “cura” del DAP ed il maggiormente fattibile “trattamento” delle devianze antisociali criminose. Tale è pure il parere di Martens (2002)[109], poiché “anche gli psicopatici possono essere sensibili al trattamento e la loro condizione può migliorare, attraverso l'aumento dell'auto-coscienza e delle abilità emotive, morali e sociali […]. Attraverso una serie di fattori, come la soddisfazione sul lavoro, il supporto sociale ed una buona integrazione […] è possibile ottenere un cambiamento del carattere e dello stile di vita”. Dunque, anche Martens (ibidem)[110] rigetta lo stereotipo populista dell'infrattore con DAP completamente refrattario alla terapia. La trattabilità dello psicopatico è affermata anche da Hare (ibidem)[111], secondo cui “più che cercare di sviluppare l'empatia o la coscienza morale, è più realistico gestire lo psicopatico aiutandolo a soddisfare i bisogni personali in modo socialmente utile e responsabilizzandolo. E' in questo senso, infatti, che gli psicopatici delinquenti andrebbero socializzati, piuttosto che ri-socializzati”. D'altronde, Canepa & Merlo (2010)[112] fanno notare che, nella fattispecie dell'Italia, il sovraffollamento carcerario non consente un approccio idoneo al detenuto affetto da DAP. Nelle carceri italiane, la rieducazione dello psicopatico è ormai un miraggio irraggiungibile. Del pari, nemmeno le Rems sono in grado di garantire un corretto trattamento del condannato con psicopatie.
 

 

[1]OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems, 10th Revision (ICD-10), Version for 2010

 

[2]Hare, without conscience: The disturbing world of the psychopaths among us, Guilford Press, New York, 1993 (trad. it. La psicopatia, Astrolabio, Roma, 2009)

 

[3]APA (American Psychiatric Association), Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder, Fifth edition (DSM-V), American Psychiatric Publishing, Arlington, 2013

 

[4]Zavatti & Barbieri, La c.d. personalità antisociale in psicopatologia forense: un discorso sul metodo ? Rassegna italiana di Criminologia, XI, 2000

 

[5]Zavatti & Barbieri, op. cit.

 

[6]Hare, Hare PCL-R 2nd edition. Hare Psychopathy Checklist revised: 2nd edition (tr. it. a cura di Caretti & Manzi & Schimmenti & Seragusa, Giunti, Firenze, 2011)

 

[7]Hare, op. cit.

 

[8]Hare, op. cit.

 

[9]Hare, Psychopaths and their nature: Implications for the mental health and criminal justice system, in Millon & Simonsen & Birket-Smith & Davis, Psychopathy antisocial, criminal and violent behavior, Guilford Press, New York, 2003

 

[10]Clarke, Working with monsters: How to identify and protect yourself from the workplace psychopaths, Random House Australia, North Sydney, 2005

 

[11]Clarke, op. cit.

 

[12]Ponti & Merzagora Betsos, Compendio di Criminologia, Raffaello Cortina, Milano, 2008

 

[13]Ponti & Merzagora Betsos, op. cit.

 

[14]Stone, Personality-disordered patients: Treatable and untreatable, American Psychiatric Publishing, arlington, 2002, (trad. it. Pazienti trattabili e non trattabili: i disturbi di personalità, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007

 

[15]Stone, op. cit.

 

[16]Greco & Maniglio, Malattia mentale e criminalità, Rassegna italiana di Criminologia, I, 2007

 

[17]Greco & Maniglio, op. cit.

 

[18]Dahl, Psychopathy and psychiatric comorbidity, in Millon & Simonsen & Birket-Smith & Davis, Psychopathy, antisocial, criminal and violent behavior, Guilford Press, New York, 2003

 

[19]Dahl, op. cit.

 

[20]APA, op. cit.

 

[21]Schneider, Psychopatic personalities, Cassell, London, 1958

 

[22]Catalano Nobili & Cerquetelli, Gli psicopatici. Revisione del concetto di personalità psicopatica, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1974

 

[23]Millon & Davis, Ten Subtypes od Psychopathy, in Millon & Simonsen & Birket-Smith & Davis, Psychopathy, antisocial, criminal and violent behavior, Guilford Press. New York, 2003

 

[24]Hare, op. cit.

 

[25]Clarke, op. cit.

 

[26]Hare, op. cit.

 

[27]Dunaif & Hoch, Pseudo-psychpathic schizophrenia, in Hoch & Zubin, Psychiatry and the law, Grun & Stratton, New York, 1955

 

[28]Dunaif & Hoch, op. cit.

 

[29]Canter & Young, Investigative Psychology, Offender profiling and the analysis of criminal action, Wiley, New York, 2009

 

[30]Canter & Young, op. cit.

 

[31]Fazel & Danesh, Serious mental disorders among 23000 prisoners: Systematic review of 62 surveys, The Laruet, 2002

 

[32]Fazel & Danesh, op. cit.

 

[33]Simon, Bad men do what good men dream, American Psychiatric Publishing, Washington, 2008 (trad. it. I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno, Raffaello Cortina, Milano, 2013)

 

[34]Gatti & Rocca, Il comportamento violento tra biologia ed ambiente: la criminolgia verso un nuovo approccio biosociale ? Rassegna italiana di Criminologia, VII, 2013

 

[35]Gatti & Rocca, op. cit.

 

[36]Pinker, The Better Angels of Our Nature, Allen Lane, London, 2011 (trad. it. Il declino della violenza: Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l'epoca più pacifica della storia, Mondadori, Milano, 2013)

 

[37]Tallarico, Aggressività e neuroscienze, in Ponti & Merzagora Betsos, Compendio di Criminologia, Raffaello Cortina, Milano, 2008

 

[38]Tallarico, op. cit.

 

[39]Blair, Psychopathy, frustration and reactive aggression. The role of venromedial prefrontal cortex, British Journal of Psychology, 101, 2010

 

[40]Blair, op. cit.

 

[41]Anderson & Bushman, Human aggression. Annual Review, Psychology, 53, 2002

 

[42]Palermo, Aggressività psicopatica: una questione di volontà o di determinismo ? Rassegna italiana di Criminologia, V, 2011

 

[43]Palermo, op. cit.

 

[44]Woodworth & Porter, In col blood: Characteristics of criminal homicides as a function of psychopathy, Journal of Abnormal Psychology, 111, 2002

 

[45]Woodworth & Porter, op. cit.

 

[46]Walsh & Swogger & Walsh & Kosson, Psychopathy and violence: increasing specificity Netherland journal of Psychology, 63, 2007

 

[47]Walsh & Swogger & Walsh & Kosson, op. cit.

 

[48]Väfors Fritz & Wiklund & Koposov & Klinteberg & Ruchkin,Psychopathy and violence in juvenile delinquents: What are the associated factors ? International Journal of Law and Psychiatry, 31, 2008

 

[49]Walsh & Swogger & Walsh & Kosson, op. cit.

 

[50]Harpur & Hare, The assessment of Psychopathy as a function of age, Journal of Abnormal Psychology. 103, 1994

 

[51]Clarke, op. cit.

 

[52]Clarke, op. cit.

 

[53]Schopp & Slain, Psychopathy, criminal responsibility and civil committment as a sexual predator, Behavioral Sciences and the Law, 18, 2000

 

[54]Coid, Popolazioni carcerarie: caratteristiche criminali e recidivismo, in Oldham & Skodol & Bender, Textbook of Personality Disorders, American Psychiatric Publishing, 2005 (trad. it. Trattato dei disturbi di personalità, Raffaello Cortina, Milano, 2008

 

[55]Coid, op. cit.

 

[56]Carabellese & Rocca & Candelli & La Tegola & Birkhoff, La gestione degli autori di reati sessuali tra psicopatologia e rischio di recidiva, Prospettive trattamentali, Rassegna italiana di Criminologia, VI, 2012

 

[57]Hemphill & Hare & Wong, Psychopathy and recidivism, A Review, Legal and Criminological Psychology, 3, 1998

 

[58]Quinsey & Rice & Harris, Actuarial prediction of sexual recidivism, Journal of Interpersonal Violence, 10, 1995

 

[59]Canter & Young, op. cit.

 

[60]Vaugh & De Lisi, Were Wolfgang's chronic offender psychopaths ? On the convergent validity between psychopaty and career criminality, Journal of Criminal Justice, 36, 2008

 

[61]Vaugh & De Lisi, op. cit.

 

[62]Douglas & Vincent & Edens, Risk for criminal recidivism, The role of psychopathy, in Patrick, Handbook of psychopathy, Guilford Press, New York, 2006

 

[63]Douglas & Vincent & Edens, op. cit.

 

[64]Storey & Hart & Meloy & Reaves, Psychopaty and Stalking, Law and Human Behavior, 33, 2009

 

[65]Mullen & Pathé & Purcell, Stalkers and their victims, Cambridge University Press, Cambridge, 2000

 

[66]Meloy, Review of Forensic and Medico-legal aspects of sexual crimes and unusual sexual practices, Journal of Forensic Sciences, 55, 2010

 

[67]Meloy, op. cit.

 

[68]Dorr, Psychopathy in the Pedophile. In Millon & Simonsen & Birket-Smith & Davis, Psychopathy, antisocial, criminal and violent behaviour, Guilford Press, New York, 2003

 

[69]Dorr, op. cit.

 

[70]Kugu & Akyuz & Dogan, Psychiatric morbidity in murder and attemptec murder crime convicts. A Turkey study, Forensic Science International, 175, 2008

 

[71]Laurell & Daderman, Psychopathy (PCL-R) in a forensic psychiatric sample of homicide offenders: Some reliability issues, International Journal of Law and Psychiatry, 30, 2007

 

[72]Beasley, Serial murder in America: Case studies of seven offenders, Behavioral Sciences and the Law, 22, 2004

 

[73]Koch & Berner & Hill & Briken,  Sociodemographic and diagnostic characteristicss of homicidal and non-homicidal sexual offenders, Journal of Forensic Sciences, 6, 2011

 

[74]Perri, white collar criminals: The Kinder Gentler Offender ? Journal of Investigative Psychology and Offender Profiling, 8, 2011

 

[75]Perri & Lichtenwald, A proposed addition to the FBI Criminal Classification Manual: Fraud detection homicide, The Forensic Examiner, 16, 2007

 

[76]Perri & Lichtenwald, op. cit.

 

[77]Pennati & Merzagora & Travaini, Carneade lo psicopatico aziendale e le Sezioni Unite di Cassazione, Rivista italiana di Medicina Legale, 2, 2013

 

[78]Bickle & Schelgel & Fassbender, some personality correlates of business white collar crime, Applied Psychology: An International Review, 55, 2006

 

[79]Lavazza & Sammicheli, Il delitto del cervello: La mente tra scienza e diritto, Codice, Torino, 2012

 

[80]Lavazza & Sammicheli, op. cit.

 

[81]Santoni & De Sio, Per colpa di chi: Mente, responsabilità e diritto, Raffaello Cortina, Milano, 2013

 

[82]Levy, Psychopaty, Responsability and the Moral/Conventional Distinction, in Malatesti & MacMillan, Responsability and Psychopathy, Oxford University Press, Oxford, 2010

 

[83]Levy, op. cit.

 

[84]Blair, Moral reasoning and the Child with Psychopatic Tendencies, Personality and Individual Tendencies, 26, 1997

 

[85]Cima & Tonnaer & Hauser, Psychopathy know right from wrong but don't care. Social Cognitive and Affective Neuroscience, 5, 2010

 

[86]Lavazza & Sammicheli, op. cit.

 

[87]Santoni & De Sio, op. cit.

 

[88]Santoni & De Sio, op. cit.

 

[89]Simon, op. cit.

 

[90]Barbieri, Dalla personalità disturbata alla relazione disturbante: ipotesi nuove per un approccio valutativo vecchio ? Zacchia, XXIV, 2006

 

[91]Barbieri, op. cit.

 

[92]Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce ? Criminologia, determinismo e neuroscienze, Raffaello Cortina, Milano, 2012

 

[93]Ponti & Merzagora Betsos, op. cit.

 

[94]Barbieri, op. cit.

 

[95]Glannon, Moral responsability and the psychopath, Neuroethics, 1, 2008

 

[96]Zavatti & Barbieri, op. cit.

 

[97]Howard. How is personality disorder linked to dangerousness ? A putative role for the early-onset alcohol abuse, Medical Hypotheses, 67, 2006

 

[98]Howard, op. cit.

 

[99]Ogloff & Wood, The treatment of Psychopaty. Clinical nihilism or steps in the right direction ? In Malatesti & MacMillan, responsability and Psychopaty: Interfacing Law, Psychiatry and Philosophy, Oxford University Press, Oxford, 2010

 

[100]  Ciocchetti, The responsability of the Psychopatic Offender. Philosophy, Psychiatry and Psychology, 10(2), 2003

 

[101]  Hare, op. cit.

 

[102]  Carabellese & Rocca & Candelli & La Tegola & Birkhoff, op. cit.

 

[103]  Simon, op. cit.

 

[104]  Simon, op. cit.

 

[105]  Von Knorring & Ekselius, Psychopharmacological Treatment and Impulsivity, in Millon & Simonsen & Birket-Smith & Davis, Psychopaty antisocial, criminal and violent behavior, Guilford Press, New York, 2003

 

[106]  Ogloff & Wood, op. cit.

 

[107]  Salekin & Worley & Grimes, Treatment of Psychopathy: A review and brief introduction to the Mental Model Approach for Psychopaty, Behavioral Science and the Law, 28, 2010

 

[108]  Salekin & Worley & Grimes, op. cit.

 

[109]  Martens, Mental disorders as possible intrapsychic routes to remission. Part II: Psychopathic personality disorder, Medical Hypotheses, 58, 2002

 

[110]  Martens, op. cit.

 

[111]  Hare, op. cit.

 

[112]  Canepa & Merlo, Manuale di diritto penitenziario. Le norme, gli organi e le modalità dell'esecuzione delle sanzioni penali, Giuffrè, Milano, 2010