I reati culturalmente motivati

il dono del giorno
Ph. Ermes Galli / il dono del giorno

I reati culturalmente motivati

 

Questioni terminologiche

Come osservato da Padoa Schioppa (2002)[1], “le società contemporanee sono sempre più società multiculturali. Con un po' di ritardo rispetto all'antropologia sociale, da qualche decennio anche la Dottrina penalistica ha cominciato a confrontarsi con le tematiche connesse alla pluralità culturale delle società contemporanee”. Probabilmente, nel contesto italiano, la ratio di “reato culturalmente motivato” ha fatto il suo ingresso con la L. 7/2006, che ha previsto e punito le mutilazioni genitali femminili, assai praticate presso le minoranze islamiche.

E' quantomai necessario partire dal presupposto che una/la cultura è sempre etnicamente connotata. A tal proposito, De Maglie (2005)[2] ha precisato che “per cultura potrebbe intendersi l'insieme delle consuetudini, dei punti di vista, dell'ethos di un gruppo o di un'associazione […]. Ma si potrebbe assumere il termine cultura anche in un'accezione più ampia: ad esempio, la cultura occidentale, contrapposta a quella orientale; la cultura della civiltà industriale contrapposta alla cultura della civiltà rurale”. A ben vedere, in ogni caso, la cultura è sempre e comunque legata ad un'etnia, dominante oppure minoritaria. In effetti, Facchi (2004)[3], in maniera sincera seppur non politicamente corretta, dichiara apertamente la necessità di “una definizione etnicamente qualificata di cultura, in base alla quale cultura è sinonimo di nazione o popolo e designa una comunità intergenerazionale, più o meno compiuta dal punto di vista istituzionale, che occupa un determinato territorio e condivide una lingua ed una storia distinte”. Del pari, Egeter (2002)[4] non nasconde che, anche nel Diritto Penale, ogni delitto è etnicamente e culturalmente motivato, represso, non socialmente accettato. Esisterà sempre una cultura dominante, che condiziona, in modo inevitabile, le scelte sanzionatorie della Giuspenalistica. Probabilmente può apparire xenofobo, ma, a prescindere dalla retorica progressista, come notato da van Broeck (2001)[5], il reato è sempre “un reato culturale, [che] ha chiaramente sullo sfondo il patrimonio culturale di un gruppo etnico, di un popolo, di una nazione”. E' fattualmente inevitabile che, in un dato territorio, l'etnia dominante imponga la propria politica criminale.

Tale posizione etno-centrica e sottilmente nazionalista è stata ribadita, nella Giurisprudenza inglese, anche da House of Lords in Mandla vs. Dowell Lee [1983] 2 AC 548, ovverosia “un gruppo etnico […] è caratterizzato da una lunga storia condivisa, che il gruppo percepisce come distintiva rispetto agli altri gruppi e della quale tiene viva la memoria, nonché da una propria tradizione culturale, inclusi costumi e tradizioni sociali e familiari, spesso, ma non necessariamente, associati ad un'osservanza religiosa. Possono, inoltre, contribuire in modo rilevante all'identificazione di un gruppo etnico anche […] una lingua comune e, infine, il fatto di costituire una minoranza o un gruppo oppresso, oppure un gruppo dominante nell'ambito di una comunità più ampia”. Come si può notare, pure House of Lords in Mandla vs. Dowell Lee [1983] 2 AC 548 si allinea ad una prospettiva nazional-popolare in cui rimane ben forte e presente l'auto-coscienza della etnia di appartenenza. Tutta la Weltangschauung è dominata dal senso di appartenenza ad un determinato popolo; il che condiziona, per inevitabile conseguenza, l'inserimento, o meno, di un illecito all'interno del proprio sistema penale. Tutto quanto or ora esposto non impedisce la sussistenza di uno Stato multiculturale, ma è indispensabile, in ogni caso e come evidenziato da Kymlicka (1995/1999)[6], “una definizione etnicamente qualificata di cultura […] [Esiste sempre] un gruppo etnico dominante che, in ciascuna società, detiene il potere politico e detta la legge penale”. Dunque, Kymlicka (ibidem)[7] rifugge pur'egli da una visone liquida delle odierne società multiculturali. La nozione di “popolo dominante” è ontologicamente fondata e, specularmente, è pur vero che le minoranze etniche sono escluse dalla nomogenesi, in tanto in quanto è la maggioranza a dettare le priorità criminologiche del Diritto Penale.

Secondo Thompson (1997)[8], bisogna distinguere tra la multinazionalità e la polietnia; più nel dettaglio, il predetto Autore precisa che “la società (o lo Stato) multiculturale di tipo multinazionale è quello in cui il pluralismo culturale trae origine dall'assorbimento (a seguito di processi di colonizzazione, conquista o confederazione) in uno Stato più grande di culture territorialmente concentrate, che, in precedenza, si governavano da sole; [invece] la società (o lo Stato) multiculturale di tipo polietnico è quello in cui il pluralismo culturale trae origine dall'immigrazione di individui e famiglie”. Similmente, l'italiofono Viola (2006)[9] asserisce che “bisogna distinguere nettamente due tipi di società multiculturali: quelle in cui sono presenti da sempre culture indigene locali […] e quelle in cui il fenomeno dell'immigrazione introduce nuove entità culturali”. P.e., il Belgio e la Svizzera, dal punto di vista di Thompson (ibidem)[10], sono Stati/società multiculturali di tipo multinazionale. Infatti, Belgio e Svizzera sono Ordinamenti nei quali vari popoli autoctoni hanno pattuito, da molti secoli, una convivenza di matrice federale.

 All'opposto, Francia e Germania costituiscono Stati/società multiculturali di tipo polietnico, come dimostrano le minoranze maghrebine in Francia e quelle turche in Germania. Dopodiché, comunque, come messo in risalto da Facchi (ibidem)[11], “naturalmente, uno stesso Stato può essere sia multinazionale (per la presenza di minoranze nazionali autoctone) sia polietnico (per la presenza di immigrati)”. Tale è il caso del Canada, ove la comunità anglofona si è confederata con quella francofona, ma è pur vero che, nell'ultima cinquantina d'anni, la società canadese ospita ingenti minoranze immigrate dall'Africa e dall'India. Tuttavia, Viola (ibidem)[12] esorta a tenere distinte la multiculturalità di tipo multinazionale da quella di tipo polietnico, giacché le minoranze non autoctone sono escluse dalla produzione della Giuspenalistica. Detto in altri termini, come postulato da Kymlicka (ibidem)[13], nella multinazionalità, le minoranze autoctone conservano forme di “autonomia ed autogoverno”, anche sotto il profilo legislativo; viceversa, nella società polietnica, “gli immigrati spesso si raccolgono in associazioni flessibili […] [ma] lo scopo di tali gruppi di immigrati non è di costituire una nazione separata ed autonoma, bensì di modificare le istituzioni e le leggi della società ospitante, al fine di renderle più indulgenti nei confronti delle differenze culturali”. In buona sostanza, le minoranze di immigrati non assurgono al rango di fonti di produzione del Diritto, mentre, negli Ordinamenti multinazionali, come insegna l'esempio della Svizzera, ciascun popolo federato gestisce in maniera autonoma la Legislazione.

Coglie nel segno Kymlicka (ibidem)[14] allorquando mette in risalto che “nei confronti della cultura di maggioranza, le minoranze nazionali autoctone, da un lato, ed i gruppi etnici di immigrati, dall'altro, rivolgono rivendicazioni e nutrono aspettative profondamente diverse”. P.e., i Valloni del Belgio e gli Inuit in Canada s'innestano in un contesto multiculturale, ma multinazionale; diversamente, i Maghrebini in Francia ed i Turchi in Germania danno vita ad istanze multiculturali di stampo polietnico. In sintesi, la multinazionalità richiede di giuridificare in maniera autonoma, mentre la polietnia non aspira alla genesi di fonti di produzione del Diritto indipendenti. In effetti, le cc.dd. “minoranze nazionali autoctone” mirano ad un'autodeterminazione in ambito legislativo, esecutivo e giudiziario, mentre i cc.dd. “gruppi (poli) etnici di immigrati”, come rimarcato da Facchi (ibidem)[15] non si integrano e “non hanno i caratteri definiti delle minoranze nazionali autoctone, né un'organizzazione comparabile. Sono prevalentemente composti da individui uniti in famiglie, reti di parentele o alleanza provvisorie costituite in base alla provenienza geografica e limitate a fini economici, culturali, religiosi e senza finalità politiche rivendicate pubblicamente”. Tuttavia, chi redige fa notare che, nel lungo periodo, i gruppi polietnici si possono trasformare in gruppi multinazionali, rivendicando spazi di potere autonomo.

Oppure ancora, gli immigrati di altre etnie si limitano a veder tutelato il loro abbigliamento tradizionale; così come frequente è la richiesta di celebrare con solenne autonomia le feste religiose del Paese di provenienza. Ciononostante, di nuovo, le nuove etnie non autoctone non avanzano pretese di autonomia con afferenza ai tradizionali poteri della legislazione, della giurisdizione e del governo nazionale. Manca, perlomeno nel breve periodo, l'esigenza di autodeterminarsi in senso statale, giuridico ed ordinamentale. P.e., presso la minoranza Sikh, in Italia, l'unica aspirazione consta nel mantener viva la cultura e la religione delle origini, la fine di un desiderato ed atteso ritorno nel Paese natio. Diversa, invece, è la prospettiva autonomistica di un fiammingo belga.

Specularmente, gli Ordinamenti statali recano approcci diversi nei confronti della multinazionalità, da un lato, e, dall'altro lato, della semplice pluralità etnica. Verso, infatti, le minoranze nazionali autoctone, come rilevato da Colombo (2002)[16], “gli Stati multiculturali di tipo multinazionale sono tendenzialmente più propensi a concedere un trattamento anche notevolmente differenziato, in virtù della loro diversità culturale, fors'anche per una sorta di latente senso di colpa rispetto a queste minoranze, in passato spesso oggetto di violenze e di discriminazioni”. Pure Lattanzi (1987)[17] sottolinea che le minoranze nazionali autoctone hanno sovente dovuto subire “un inglobamento più o meno coatto e sono ora politicamente controllate dalla cultura di maggioranza”. A tal proposito, Cassese (1995)[18] propone il caso emblematico dei nativi americani e degli aborigeni australiani. Parimenti, Mancini (1996)[19], sempre in tema di minoranze nazionali autoctone, rinvia all'analisi della Dichiarazione per i diritti delle popolazioni indigene, emessa il 13 settembre 2007 dall'Assemblea generale dell'ONU. In tale documento internazionalistico, si riconosce il diritto all'autonomia legislativa, esecutiva e giudiziaria dei gruppi nativi di minoranza. Da segnalare è anche Sharp (1990)[20], il quale ricorda, per la Nuova Zelanda, la centralità, ancora precettiva, del Trattato di Waitangi del 1840 per la regolamentazione dei rapporti tra i Maori ed i colonizzatori anglofoni. Nuovamente, ecco un caso di istanza di autodeterminazione statale/para-statale impensabile nella fattispecie del migrante provvisorio. Anzi, Kymlicka (ibidem)[21], sotto il profilo deontologico, giunge ad affermare che “è legittima la resistenza delle minoranze nazionali autoctone all'integrazione e la loro aspirazione a continuare a vivere come società distinta”.

Diversa, all'opposto, è la reazione degli Stati polietnici per causa di immigrazione lavorativa ed umanitaria. Höffe (1999/2001)[22] mette, in effetti, in risalto che “nei confronti dei gruppi etnici di immigrati, gli Stati multiculturali di tipo polietnico sono, in genere, disposti a fare solo concessioni più modeste. Nei confronti degli immigrati, infatti, perlomeno quando si tratta di immigrati volontari, lo Stato d'accoglienza nutre una legittima aspettativa circa un loro maggiore sforzo di adeguamento alla cultura del gruppo di maggioranza. Nello Stato d'accoglienza, infatti, gli immigrati non possono certo vantare alcun diritto all'autodeterminazione, né, nei loro confronti, il gruppo di maggioranza prova quel latente senso di colpa [come sostiene Colombo (ibidem)[23]] che potrebbe, invece, provare nei confronti di minoranze nazionali autoctone”. Tuttavia, chi scrive concorda con Höffe (ibidem)[24] nell'evidenziare che “differente e ben più complessa è, invece, la condizione […] degli immigrati di seconda e di terza generazione [ossia] i figli ed i nipoti degli immigrati”. In tal caso, infatti, l'immigrato ormai naturalizzato reca il giusto diritto di iniziare a partecipare alla vita politica, governativa, legislativa e giudiziaria di quello che era, per i propri padri, lo Stato ospitante.

Sempre con afferenza agli immigrati di seconda e di terza generazione. Höffe (ibidem)[25] ribadisce che l'integrazione è naturale ed inarrestabile, in tanto in quanto “la maggior parte degli immigrati (a differenza dei rifugiati) decide di abbandonare la propria cultura. Hanno tagliato i legami e sanno che il successo loro e dei loro figli dipenderà dalla loro integrazione nelle istituzioni della società d'accoglienza”. Ora, siffatta assimilazione della multiculturalità polietnica ricorda quanto accaduto nel Novecento presso le comunità italiofone statunitensi. Di più, a parere di chi commenta, con il passare dei decenni e delle generazioni, la multiculturalità polietnica o si dissolve o si trasforma in multiculturalità multinazionale. Totalmente diversa è la situazione dei neo-immigrati di prima generazione, giacché, come mette in evidenza Kymlicka (ibidem)[26] “gli immigrati [non ancora naturalizzati, ndr] non possono avanzare le stesse rivendicazioni di una minoranza nazionale autoctona, non possono pretendere di ricreare la loro società – anche in tutti i suoi profili di rilevanza pubblica – nel Paese d'accoglienza […]. Gli immigrati possono rivendicare [solo, ndr] diritti polietnici (ossia la richiesta di condizioni più eque per la loro integrazione, con le quali si tenga conto della loro differenza culturale), ma non già diritti nazionali (ossia l'autogoverno, la possibilità di usare negli spazi pubblici la propria lingua madre e la possibilità di avere proprie istituzioni pubbliche, eventualmente propri territori, proprie università e propri reparti dell'esercito)”.

Ciononostante, di nuovo, chi commenta osserva che, con la seconda o la terza generazione di immigrati, la multiculturalità polietnica tende a dissolversi, per la sciare spazio ad un'inevitabile integrazione che annulla il dato etnico. Il lemma “etnia” è culturalmente e non fisiologicamente circostanziato; dunque, venuta meno la distinzione culturale, viene meno anche quella c.d. “razziale”.

 

La ratio del “reato culturalmente motivato

Secondo la qualificazione criminologica di Foblets (1998)[27], “per reato culturalmente motivato (culturally motivated crime) si intende, con una definizione ampiamente condivisa dalla Dottrina penalistica europea, un comportamento realizzato da un membro appartenente ad una cultura di minoranza, che è considerato reato dall'Ordinamento giuridico della cultura dominante. Questo stesso comportamento, tuttavia, all'interno del gruppo culturale dell'agente, è condonato o accettato come comportamento normale, o approvato, o addirittura è sostenuto ed incoraggiato in determinate situazioni”. Anche van Broeck (ibidem)[28] evidenzia, in tema di culturally motivated crime, lo jato tra l'illegalità, da un lato, e, dall'altro lato, il consenso espresso dall'etnia di minoranza. In effetti, Bernardi (2006)[29] puntualizza che “alla commissione del reato culturalmente motivato fa da sfondo una situazione che può essere definita di conflitto normativo, ovvero di conflitto culturale, o meglio ancora – con espressione ricomprensiva di entrambe le varianti – di conflitto normativo/culturale”.

Anzi, già negli Anni Trenta del Novecento, Sellin (1938)[30] notava che il crimine culturalmente motivato nasce giacché “gli immigrati sono soggetti che si trasferiscono in una società che può avere codici culturali completamente diversi dai loro […]. [Tali] conflitti culturali stanno alla base di comportamenti criminali”. In particolar modo, Sellin (ibidem)[31] si riferiva alle minoranze italiane ed irlandesi negli USA dei primi decenni del Novecento. Nel testo della propria Opera del 1938, Sellin (ibidem)[32] parlava di “radici della minoranza culturale che entrano in conflitto con i valori della maggioranza, valori che formano il Diritto Penale”. Baratta (1963)[33] specifica che “[il crimine culturalmente motivato] deriva da una situazione di conflitto per ecrti aspetti simile, ma non identica, a quella già da tempo studiata dalla scienza giuridica e dalla filosofia del Diritto, e tematizzata sotto il paradigma dell'antinomia giuridica. Convenzionalmente, infatti, si parla di antinomia giuridica per indicare l'esistenza di un conflitto tra due norme giuridiche, entrambe valide ed entrambe appartenenti al medesimo Ordinamento giuridico”.

Tuttavia, come messo in risalto da Gavazzi (1959)[34] nella fattispecie del reato culturalmente motivato, l'antinomia sussiste tra una norma giuridica penale dell'etnia prevalente ed una norma culturale dell'etnia minoritaria. Pertanto, nel culturally motivated crime, l'antinomia è atipica, in tanto in quanto si tratta di un conflitto tra Diritto Penale delle maggioranze e Sistema Culturale delle minoranze, le quali non sono, nel Paese ospitante, fonte di produzione della Legislazione. D'altronde, anche Jansen (1930)[35] ammette che “la situazione di conflitto normativo/culturale da cui scaturisce il reato culturalmente motivato può essere più esattamente inquadrata nella categoria dell'antinomia impropria, formula utilizzata da una parte della Dottrina penalistica per indicare il conflitto tra una norma giuridica ed una norma extra-giuridica”, il che non impedisce alla norma culturale minoritaria di essere norma giuridica nel Paese d'origine dell'immigrato. Gli esempi di reato culturalmente motivato sono quotidianamente oggetto della cronaca giornalistica, anche in Italia. P.e., abbondano i delitti sessuali in danno di minorenni considerate/i già adulte/i all'interno dei codici culturali minoritari. Oppure, sono culturally motivated crime l'incesto rituale, la poligamia, i matrimoni forzati e fondati su una visione illimitata e violenta della potestà genitoriale e di quella maritale, quest'ultima scomparsa, nella Legislazione italiana, con la Riforma Anselmi del 1975. Oppure ancora, si pensi ai delitti d'onore presso talune tribù straniere. Tuttavia, uno dei più odiosi reati culturalmente motivati è e resta quello delle mutilazioni genitali femminili, pp. e pp. ex Artt. 583 bis e 583 ter CP, introdotti dalla L. 7/2006.

 

La reazione occidentale al reato culturalmente motivato

In Europa ed in Nordamerica, il dilemma se, o, meglio, fino a che punto conferire valore attenuante/scriminante alle tradizioni etniche che stanno alla base del culturally motivated crime. Poulter (1989)[36] ha sostenuto che “[la punibilità o meno del reato culturalmente motivato] è un quesito centrale per il Diritto Penale delle società multiculturali di tipo polietnico. [Su tale tema] la Dottrina penalistica, in effetti, già da qualche decennio,, da diverse prospettive e con diversi esiti, ha cominciato ad interrogarsi”. A parere di chi redige, probabilmente, il nodo centrale della problematica non è scriminare, bensì attenuare il delitto culturalmente motivato nel nome di altre tradizioni etniche non autoctone. In secondo luogo, come notato da Torres Fernandez (2006)[37] mancano basi legislative su cui discutere, ovverosia “in nessun Codice Penale europeo compare una disposizione di parte generale che dia esplicito rilievo alla suddetta situazione di conflitto normativo/culturale, prevedendo un trattamento di favore per l'imputato-immigrato, il quale abbia commesso il fatto di reato in conformità ad una norma culturale del suo gruppo etnico di provenienza”. Dunque, seppur indirettamente, da Torres Fernandez (ibidem)[38] si evince che, anche nei primi Anni Duemila, prevale, nella Giuspenalistica, una visione centripeta che non tollera alcuna deminutio normativa della sovranità e dell'autonomia legislativa.

Soltanto la Svizzera, nel 1993, ha tentato di inserire nello schwStGB l'attenuante della “origine straniera” dell'infrattore, ma la proposta è stata ben presto accantonata. Anzi, in Europa, nessun Diritto Penale contiene norme auto-riduzionistiche con attinenza ai reati culturalmente motivati. Fa eccezione la Common Law statunitense, ove, come riferisce Renteln (2004)[39] “è in corso un acceso dibattito circa l'opportunità di una previsione legislativa espressa della cultural defense, attraverso la quale le Corti statunitensi (e quelle di altri Paesi anglosassoni) già oggi talora valutano pro reo la situazione di un conflitto normativo/culturale che fa da sfondo alla commissione di reati culturalmente motivati da parte di immigrati. Per cultural defense s'intende una causa di esclusione o di diminuzione della responsabilità penale, invocabile da un soggetto appartenente ad una minoranza etnica, con cultura, costumi ed usi diversi, o addirittura in contrasto con quelli della cultura del Paese d'accoglienza”. A parere di chi scrive, il Diritto Penale europeo è refrattario all'eventuale riconoscimento della cultural defense in tanto in quanto ammettere una tale circostanza attenuante significa autolimitare la piena sovranità del proprio Ordinamento giuridico. In ogni caso, come rimarcato da De Maglie (ibidem)[40], l'attenuante della cultural defense “non costituisce un istituto giuridico autonomo, ma opera solo all'interno di altri istituti, quali l'errore di Diritto, la legittima difesa, lo stato di necessità, la coscienza e volontà della condotta, il vizio totale o parziale di mente, lo stato emotivo o la provocazione”.

Lambelet Coleman (1996)[41] esprime un giudizio positivo circa la possibilità, nella Common Law statunitense, d'invocare l'attenuante della cultural defense; più nel dettaglio, ella afferma che “il riconoscimento della cultural defense è indubbiamente espressione di un compromesso tra l'esigenza di repressione di condotte penalmente rilevanti e la valorizzazione delle differenze culturali […]. Pertanto, il paradigma della cultural defense sembrerebbe assolutamente coerente con un Diritto Penale orientato al modello multiculturalista”. Chi scrive, ad esempio, pone mente agli effetti, nell'Ordinamento italiano, di un eventuale utilizzo della cultural defense nei confronti degli infrattori di etnia Rom. Tuttavia, il rischio è che la cultural defense sia strumentalizzata sino al punto di legittimare gravi lesioni dei diritti della parte lesa. P.e., una bambina infibulata costituisce un caso troppo grave per essere relegato alla fattispecie delle “tradizioni culturali”. Oppure, altrettanto impraticabile è la cultural defense a beneficio di un marito islamico che maltratti la coniuge e la figliolanza nel nome di una concezione tribale della famiglia.

P.e., nella Common Law statunitense, People vs. Rhines, 131 Cal. App. 3 d 498 (1982) ha negato la concessione della cultural defense ad un reo responsabile di un sequestro di persona per fini di libidine; l'imputato aveva inutilmente cercato di giustificare il proprio gesto nel nome della cultura minoritaria afroamericana “diversa da quella dei bianchi”. Oppure ancora, in Bui vs. State, 551 So. 2 d 1094, 1099 (Ala. Crim. App. 1988), un vietnamita emigrato in Alabama non ha beneficiato della cultural defense dopo aver compiuto una strage familiare per motivi di onore e decoro, i quali sarebbero stati considerati legittimi nella sottocultura d'origine. Eccezionalmente, De Maglie (ibidem)[42] manifesta un'apertura totale, e fors'anche eccessiva, nei confronti della cultural defense nella Common Law statunitense, nella quale, nell'ultimo quarantennio, è aumentata la cautela e la refrattarietà nel riconoscere l'attenuante della tradizione culturale etnico-minoritaria.

E' utile notare come la Legislazione francese non riconosca né abbia mai riconosciuto la precettività della cultural defense. A parere di Bernardi (ibidem)[43], nel modello egualitarista francese, “[prevale] la logica di assoluta eguaglianza formale, di asettica neutralità dello Stato di fronte alle differenze culturali […] [Prevale] la scelta di non attribuire, negli spazi pubblici, alcun rilievo all'eventuale appartenenza del soggetto a gruppi di immigrati con radici culturali anche profondamente diverse da quelle dello Stato di accoglienza”. Pertanto, il Codice Penale francese e gli altri Atti di Normazione penalistica rigettano la rilevanza attenuatoria legata al fatto di provenire da una minoranza etnica non autoctona. Ciononostante, la Giurisprudenza francese, talvolta, ha riconosciuto la validità della cultural defense. A tal proposito, Bellucci (2006)[44] evidenzia che, talvolta, le mutilazioni genitali femminili sono state valutate alla stregua di un culturally motivated crime attenuabile. Tuttavia, tali eccezioni, in Francia,  confermano la regola della “assimilazione”, in tanto in quanto all'immigrato è richiesta una totale adesione al Diritto Penale interno francese. La Giurisprudenza “attenuatoria” su base etnica rimane, almeno per ora, un caso isolato.

Anche nel Regno Unito, de jure condito non esiste alcun supporto legislativo alla cultural defense. Tale rigorismo può apparire atipico nel contesto della ben solida multiculturalità inglese, ma Bernardi (ibidem)[45] specifica che “anche il modello multiculturalista conosce limiti alla tolleranza, e tali limiti- segnati dal rispetto dei diritti fondamentali dell'individuo – vengono in rilievo soprattutto nei settori coperti dal Diritto Penale, giacché tra i compiti del Diritto Penale vi è proprio quello di tutelare i diritti fondamentali dell'individuo. L'assenza di una norma di parte generale che, in qualche modo, dia specifico rilievo, pro reo, […] al conflitto normativo/culturale può, quindi, risultare perfettamente coerente anche con le scelte di fondo di un Paese multiculturalista [come il Regno Unito]”. Dunque, la situazione inglese propone un modello che impone “limiti” alla società multiculturale polietnica, la quale non può cadere nell'anarchia e nell'apertura totale della Giuspenalistica.

Ovverosia, come precisato da Song (2005)[46], “occorre procedere con la massima cautela per evitare che il riconoscimento della diversità culturale si traduca in una sorta di legittimazione (o, comunque, di attenuazione del disvalore) della violazione dei diritti individuali altrui. Tale cautela, poi, è tanto più doverosa se si considera che assai spesso la vittima del reato culturalmente motivato commesso da un immigrato è un altro membro dello stesso gruppo etnico di immigrati”. In effetti, anche a parere di chi commenta, il multiculturalismo polietnico è soggetto a limiti precettivi ontologici che proteggono l'ordine pubblico. Attenuare sempre e comunque i reati culturalmente motivati significherebbe dissolvere totalmente il diritto di un Ordinamento giuridico. Esiste una sovranità statale che necessariamente “chiude” il Diritto Penale di fronte a fonti di produzione del Diritto atipiche e non convenzionali. Il culturally motivated crime deve avere dei limiti, per la protezione del principio di eguaglianza dei consociati di fronte alla legge. Nella Common Law inglese, esistono attenuazioni amministrative e civilistiche, ove abbondano le concessioni attenuatorie alle minoranze non autoctone, ma, nel Diritto Penale, riconoscere la minore gravità dei reati culturalmente motivati significherebbe aprire la strada ad uno stravolgimento dei diritti fondamentali della persona, come dimostrano i reati di infibulazione, di poligamia o di maltrattamenti in famiglia. Nei Sistemi giuridici post-ottocenteschi, il Diritto Penale tutela l'inviolabilità di certuni settori talmente delicati da non poter tollerare la ratio della cultural defense. P.e., picchiare la figlia per imporle il velo genera una ripugnanza antisociale tale da non concedere alcuno spazio al delitto culturalmente motivato. Pertanto, Song (ibidem)[47] evidenzia che, specialmente nel caso del Regno Unito, “la difficoltà a tracciare, con apposita disposizione di parte generale, il limite della tolleranza in quel territorio di frontiera del modello multiculturalista che è il Diritto Penale, spiega […] l'attuale assenza, anche all'interno della Legislazione penale di Paesi ufficialmente orientati al modello multiculturalista, di norme di parte generale che riservino un trattamento di favore per gli immigrati autori di reati culturalmente motivati”. Di nuovo, questo Dottrinario sottolinea il profondo nonché necessario legame tra Diritto Penale e sovranità kelsenianamente “pura” dello Stato. Il culturally motivated crime può mettere in pericolo l'autonomia costituzionale dell'Ordinamento che riconosca la cultural defense. Il Diritto Penale, infatti, tutela, ontologicamente e necessariamente, i diritti fondamentali dei consociati, tanto autoctoni quanto provenienti da altre etnie minoritarie. P.e., riconoscere la cultural defense significherebbe depenalizzare, o, quantomeno, tollerare i matrimoni forzati delle giovani figlie islamiche.
 

 

[1]Padoa Schioppa, Dodici settembre, Milano, 2002

 

[2]De Maglie,Multiculturalismo e diritto penale. Il caso americano, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2005

 

[3]Facchi, I diritti nell'Europa multiculturale, II Edizione, Roma-Bari, 2004

 

[4]Egeter, Das ethnisch-kulturell motivierte Delikt, Zurigo, 2002

 

[5]Van Broeck, Cultural Defense and Culturally Motivated Crimes (Cultural Offences), in European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice, 2001
 

[6]Kymlicka, Multicultural Citizenship, Oxford, 1995 (Traduzione italiana, La cittadinanza multiculturale, Bologna, 1999)

 

[7]Kymlicka, op. cit.

 

[8]Thompson, Ethnic Minorities and the Case for Collective Rights, in American Anthropologist 1997

 

[9]Viola, Diritti fondamentali e multiculturalismo, in Bernardi, Multiculturalismo, diritti umani, pena, Milano, 2006

 

[10]Thompson, op. cit.

 

[11]Facchi, op. cit.

 

[12]Viola, op. cit.

 

[13]Kymlicka, op. cit.
 

[14]Kymlicka, op. cit.

 

[15]Facchi, op. cit.

 

[16]Colombo, Le società multiculturali, Roma, 2002

 

[17]Lattanzi, Autodeterminazione dei popoli, in Dig. disc. Pubbl., Volume II, Torino, 1987

 

[18]Cassese, Self-determination of Peoples. A Legal Reappraisal, Cambridge, 1995

 

[19]Mancini, Minoranze autoctone e Stato. Tra composizione dei conflitti e secessione, Milano, 1996

 

[20]Sharp, Justice and the Maori Claims in New Zealand. Political Argument in the 1980s, Auckland, 1990

 

[21]Kymlicka, op. cit.

 

[22]Höffe, Gibt es ein interkulturelles Strafrecht ? Ein philosophischer Versucht, Frankfurt/M., 1999 (traduzione italiana: Globalizzazione e diritto penale, Torino, 2001)

 

[23]Colombo, op. cit.

 

[24]Höffe, op. cit.

 

[25]Höffe, op. cit.

 

[26]Kymlicka, op. cit.

[27]Foblets, Les delits culturels: de la répercussion des conflits de culture sur la condite délinquante. Réflexions sur l'apport de l'anthropologie du droit à un débat contemporain, in Droit et Cultures, 1998

 

[28]van Broeck, op. cit.

 

[29]Bernardi, Multiculturalismo, diritti umani, pena, Milano, 2006

 

[30]Sellin, Culture Conflict and Crime, New York, 1938

 

[31]Sellin, op. cit.

 

[32]Sellin, op. cit.

 

[33]Baratta, Antinomie giuridiche e conflitti di coscienza, Milano, 1963

 

[34]Gavazzi, Delle antinomie, Torino, 1959

 

[35]Jansen, Pflichtenkollisionen im Strafrecht, Breslau, 1930

 

[36]Poulter, The Significance of Ethnic Minority Customs and Traditions in English Criminal Law, in New Community Vol. 16, 1989

 

[37]Torres Fernandez, El nuevo delito de mutilacion genital, in Estudios homenaje Cobo de Rosal, 2006

 

[38]Torres Fernandez, op. cit.

 

[39]Renteln, The Cultural Defense, New York, 2004

 

[40]De Maglie, op. cit.

 

[41]Lambelet Coleman, Individualizing Justice through Multiculturalism: the Liberal's Dilemma, in Columbia Law Review, Vol. 96, 1996

 

[42]De Maglie, op. cit.

 

[43]Bernardi, op. cit.

 

[44]Bellucci, Immigrazione, escissione e diritto in Francia, in Sociologia del diritto, 3/2006

 

[45]Bernardi, op. cit.

 

[46]Song, Majority Norms, Multiculturalism, and Gender Equality, in American Political Science Review, Vol. 99/4, 2005

 

[47]Song, op. cit.