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Proporzionalità, volontà e motivi a delinquere nel Diritto Penale

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Proporzionalità, volontà e motivi a delinquere nel Diritto Penale

 

Il reo socialmente pericoloso

Sotto il profilo prettamente criminologico, Ferri (1929)[1] affermava che il c.d. “uomo delinquente” è mosso da irrefrenabili pulsioni animalesche che annichiliscono la sua libera volontà. Secondo i seguaci di Lombroso, il reo altro non è se non una bestia malata nei cui confronti va applicata una carcerazione neutralizzante priva di qualsivoglia finalità rieducativa e risocializzativa. Anche Tagliarini (1983)[2] critica negativamente l'eugenetica lombrosiana, ovverosia “i positivisti pongono al centro della loro attenzione non il reato, ma il reo, o, meglio, l'uomo delinquente. Essi muovono da convinzioni deterministiche e dal principio di pericolosità, in contrapposizione al classicismo, fondato sul libero arbitrio e sul principio di colpevolezza”. Del pari, Spirito (1932)[3] reputava, ancora negli Anni Trenta del Novecento, “improduttivo” focalizzarsi sulle presunte “tare ereditarie” del condannato, al quale non si può negare quella rieducatività della pena carceraria posta a fondamento del comma 3 Art. 27 Cost. . Negli Anni Quaranta del Novecento, si comprese l'inutilità di una pena disumana e degradante. Pure Carrara (1889)[4] non aveva compreso la necessità di un trattamento penitenziario pedagogico ed asseriva che “l'autore del reato, più che una persona a cui si imputa un fatto di reato in base ad un coefficiente di colpevolezza soggettiva, è un deviante, la cui pericolosità va arginata, a prescindere dal grado di riprovevolezza della sua condotta”.

Come fa notare Veneziani (2000)[5] è profondamente erroneo e, oltretutto, contrario all'Art. 3 CEDU sottoporre l'infrattore “a torture [o] a pene o a trattamenti inumani o degradanti”. La grande conquista, nell'Ordinamento italiano, del comma 3 Art. 27 Cost è stata quella di negare l'irrecuperabilità del responsabile sulla base di più o meno sussistenti difetti mentali congeniti. Veneziani (ibidem)[6] ribadisce che il recluso reca l'inalienabile diritto ad un piano riabilitativo personalizzato in grado di umanizzare la sanzione penitenziaria. L'”uomo delinquente” di Lombroso e, in parte, di Ferri è un ricordo criminologico incompatibile con le Carte Costituzionali del secondo dopoguerra, sempre ammessa e non concessa la reale credibilità scientifica della teoria incentrata sulle cc.dd. “tare ereditarie”.

Anti-democratico ed eccessivamente retribuzionista risulta pure Grispigni (1920)[7], a parere del quale la Criminologia “va incentrata sul problema della pericolosità del reo […] [ossia] sul giudizio prognostico sulla capacità dell'individuo di commettere nuovi reati”. Grispigni (ibidem)[8], negli Anni Venti del Novecento, ribadiva la solita e distorta immagine lombrosiana di un reo eugeneticamente incorreggibile ed irrecuperabile, in tanto in quanto affetto da turbe psicofisiche che lo renderebbero anormale e socialmente destabilizzante. Torna, dunque, il fuorviante mito del “mostro” perennemente ed irreversibilmente proteso alla delinquenza eterolesiva. Torna una visione “animalizzante” che nega l'odierno comma 3 Art. 27 Cost. . D'altra parte, il determinismo delle neuroscienze, prima dell'avvento del regime repubblicano, era condiviso da quasi tutti i Dottrinari, con tutte le proprie ripugnanti conseguenze, manifestatesi appieno nel nazionalsocialismo tedesco. P.e., con sfrontatezza anti-democratica ed anti-umanitaria, Lombroso (1897)[9] osava asserire che “il centro di imputazione di un giudizio [penale e criminalistico, ndr] dev'essere fondato non sul rimprovero per la colpevolezza dell'azione, ma sulla sola necessità di prevenire la commissione di ulteriori reati, […]. Bisogna intervenire sui fattori genetici del crimine”. Provvidenzialmente, alla barbarica eugenetica di Lombroso (ibidem)[10], l'odierna Costituzione giustamente risponde che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (comma 3 Art. 27 Cost.).

Per la prima volta, nella storia della Scuola criminologica positiva, Garofalo (1880)[11] utilizzò i lemmi “capacità a delinquere” ed ammise il ritorno al concetto illuministico di proporzionalità delle pene. Inoltre, siffatto Dottrinario ottocentesco fu il primo ad ipotizzare “un criterio di difesa preventiva” che edulcorasse la ratio di una “difesa repressiva” assoluta ed assolutizzante. Garofalo (ibidem)[12]umanizzava la sanzione criminale ammettendo che “la penalità deve commisurarsi non alla gravità del delitto, ma alla temibilità del delinquente”. Pertanto, detto Autore invitava la Giuspenalistica ad analizzare, anzitutto e soprattutto, la personalità dell'infrattore. Si trattava di un primo, timido tentativo di porre al centro il carattere del reo, che può modificare la propria “temibilità” eterolesiva affrancandosi dalla eventuale carriera criminosa intrapresa.

Anche Romagnosi (1791/1996)[13] ammetteva che le Scienze del crimine non debbono sottovalutare “i motivi che determinano l'uomo ad agire […] e che rappresentano la spinta criminosa”. Dunque, Garofalo (ibidem)[14] e Romagnosi (ibidem)[15], per la prima volta, mettono o, perlomeno, hanno tentato di mettere al centro dell'attenzione l'osservazione personologica dell'imputato. Tuttavia, nell'Ottocento, la ratio garofaliana della “temibilità” e dei correlati motivi non ebbe fortuna, giacché prevaleva l'analisi oggettivo-materiale del solo reato non soggettivisticamente compreso ed analizzato. Tuttavia, a voler ben guardare, anche Carrara (ibidem)[16] non nega il “pericolo” derivante dall'uomo delinquente, ma si tratta di una pericolosità materiale che si disinteressa ai motivi soggettivi connessi alla personalità del reo. Per quanto tale differenza sia quasi impercettibile, pure Rocco (1913)[17] distingue tra un pericolo oggettivo, che è il danno antisociale ed un pericolo (rectius: una pericolosità) soggettiva data dai motivi a delinquere, rimovibili attraverso una corretta rieducazione carceraria. Parimenti, nei primi Anni del Novecento, anche Impallomeni (1908)[18] metteva in evidenza che “la funzione giuridica del criterio del pericolo si restringe soprattutto alla misura della pena da [comminare] da parte del giudice, in quanto, appunto, il pericolo viene rilevato come elemento di diversa gravità oggettiva del delitto”. Come, dunque, si può notare, Impallomeni (ibidem)[19], anticipando quello che sarebbe stato l'Art. 133 CP, afferma che al grado oggettivo del pericolo corrisponde una proporzionalità della pena, la quale crea e valuta la sanzione sulla base di una non casuale o sbrigativa “scala di gravità” del reato. Il grado di pericolo cagionato provoca una reazione punitiva adeguata e non ipertrofica.

Interessante è pure Ferri (1929)[20], che giunge a sottovalutare la non punibilità dei reati a pericolosità astratta; più nel dettaglio, tale Autore precisa che “si deve sempre parlare [anche in caso di pericolosità astratta, ndr] di temibilità o pericolosità del delinquente, [poiché] [questa pericolosità] è spesso indipendente dal pericolo oggettivo. [La pericolosità] può sussistere, infatti, non solo quando non vi è danno, ma anche quando manca il pericolo oggettivamente considerato, come nel caso [ex Art. 56 CP, ndr] del tentativo di delitto, che sia impossibile, o per i mezzi adoperati o per il fine propostosi dal delinquente. Diviene, quindi, moralmente e giuridicamente evidente la necessità di una sanzione repressiva contro [il pericolo], la quale si applica al delinquente secondo la sua pericolosità”. Viceversa, negli Anni Duemila, la Suprema Corte ha sempre ribadito a chiare lettere la non perseguibilità dei delitti a pericolosità astratta o a pericolosità meramente simbolica. Ambiguo è pure De Asua (1923)[21], il quale fa prevalere la “pericolosità soggettiva del delinquente” sulla ratio del “criterio classico oggettivo dell'entità del danno”.

La posizione di De Asua (ibidem)[22], nuovamente, soggettivizza la pericolosità, mentre l'attenzione del Magistrato deve concentrarsi sulla dannosità oggettiva dell'azione o del tentativo. All'opposto, torna l'ombra sinistra della punibilità dei reati (solo) astrattamente pericolosi. D'altronde, Delitala (1927)[23], nell'Avamprogetto del Codice Penale Rocco, mette in risalto che l'Art. 203 CP, in tema di misure di sicurezza, deve punire un danno concreto e non una pericolosità soggettiva puramente potenziale e non vincolata ai criteri ex Art. 133 CP, poiché “la qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell'Art. 133” (comma 2 Art. 203 CP). Pertanto, non genera “danno” un pericolo astratto o estremamente tenue ex Art. 131 bis CP. Tuttavia, Ferri (1928)[24] non è insensibile alla tematica della proporzionalità della pena e, infatti, con un sottile rimorso anti-giustizialista, giunge a correggersi asserendo che “la pericolosità contiene in sé, come proprie conseguenze, da una parte, la maggiore o minore temibilità e, dall'altra, la maggiore o minore riadattabilità alla vita sociale. La temibilità ha una portata più diretta nella polizia di sicurezza, mentre la riadattabilità si attiene più strettamente alle finalità pratiche della giustizia penale”. Come si può notare, Ferri (1928)[25], seppur non direttamente, combatte una Giuspenalistica avulsa dai principi della proporzionalità della pena e della rieducatività trattamentale del carcere. Di più, Ferri (1929)[26], nei Lavori Preparatori al Codice Rocco, sgancia la ratio della pericolosità antisociale dall'eugenetica di Lombroso, ovverosia egli afferma che “la funzione giuridica della pericolosità non è quella di dare il fondamento all'imputabilità ed alla responsabilità legale; piuttosto, la pericolosità criminale è il criterio fondamentale per adattare la sanzione penale alla personalità del delinquente. Ma l'imputabilità o la responsabilità di questi dipende unicamente dal fatto che egli vive in società e che quindi deve rispondere delle violazioni della legge penale da lui commesse, ossia di avere commesso un delitto”.

Quindi, Ferri (1929)[27] anticipa quella che, nella Costituzione del 1948, sarà la ratio della proporzionalità della pena, successivamente ribadita dall'Art. 3 CEDU. Inoltre, mancando, nel delitto, una pericolosità materiale ed intensa, manca pure l'irrogabilità di una sanzione criminale, come dimostra l'odierno Art. 131 bis CP. Viceversa, orribilmente contrario a duecento anni di Illuminismo è Grispigni (1909)[28], a parere del quale “nel nome della polizia di sicurezza, il fondamento giuridico dei provvedimenti preventivi è la pericolosità sociale, con la relativa anormalità fisio-psicologica, che rende inadatti alla vita libera, anche prima della commissione di un delitto ed indipendentemente da essa […]. Il violatore di una norma penale è punibile se e per quanta anormalità fisio-psicologica (pericolosa) esso ha dimostrato nell'atto criminoso”. Grispigni (ibidem)[29], nel proprio delirio giustizialista, arriva al punto di invocare una extra-penalità preventiva delle misure di sicurezza. Detto Dottrinario propone un triste ritorno alla Criminologia lombrosiana, dunque al razzismo ed alla neutralizzazione anti-pedagogica del detenuto. Per il vero, anche Ferri (1926)[30] talvolta è troppo disinvolto nell'ammettere che la pericolosità sociale e quella criminale determinano una compressione della libertà personale anche prima o, comunque, al di fuori di un giusto processo conforme ai canoni dell'attuale Art. 111 Cost. .

Negli Anni Dieci del Novecento, Antolisei (1914)[31] manifestava un lungimirante garantismo, che lo spinse ad affermare lodevolmente quanto segue: “non esistono delinquenti pericolosi e delinquenti non pericolosi, ma tutti i delinquenti, per il solo fatto di aver commesso un delitto [o una contravvenzione, ndr] si dimostrano socialmente pericolosi. Solo, la pericolosità può avere un grado diverso: da un massimo, il quale esige una sanzione che elimini il delinquente dal consorzio civile, ad un minimo che può permettere la condanna condizionale ed anche il perdono […]. Se tutti o quasi tutti i delinquenti fossero considerati pericolosi, il criterio della pericolosità perderebbe ogni valore, poiché la sua importanza nel Diritto criminale […] dipende dal fatto che esso serve a distinguere una categoria di delinquenti, la quale richiede speciali provvedimenti da parte dello Stato, da un'altra categoria per la quale bastano le ordinarie sanzioni”. Antolisei (ibidem)[32] anticipa quelli che sarebbero stati, di lì a due decenni, i criteri di proporzionalità soggettiva ed oggettiva ex Art. 133 CP. Tale Dottrinario introduce una “scala di gravità” nel giudizio della “temibilità” antisociale ed antigiuridica del reo.

In terzo luogo, Antolisei (ibidem)[33] preannunzia il valore salvifico del comma 3 Art. 27 Cost e pure del più recente Art. 111 Cost. . Detto Autore rigetta la volgarità deterministica ed antidemocratica delle Teorie legate alla ratio assurda della c.d. “tare ereditaria”, poiché la pericolosità astratta del reato toglie pure il quid pluris della punibilità. All'opposto, l'ultra-positivista Grispigni (ibidem)[34] continuava a negare il concetto di una antisocialità “a gradi” ed asseriva che la persona antisociale tende sempre e comunque a “divenire con [assoluta, ndr] probabilità autore di [nuovi] reati”. Grispigni (ibidem)[35] segna l'apogeo del determinismo eugenetico, che non lascia, per logica, alcuno spazio alla regola illuministica della riabilitazione carceraria del condannato. Gli estremisti della Scuola Positiva hanno gettato alle ortiche le rationes pedagogiche di Beccaria, il quale sarebbe diventato il padre culturale dell'odierno comma 3 Art. 27 Cost. . Provvidenzialmente, non è mancata l'autorevole voce di Ferri (1926)[36], che mette in risalto la giustapposizione tra pericolo nel senso preventivo e temibilità nel senso e dal punto di vista repressivo. Il summenzionato Dottrinario novecentesco precisa che “per la giustizia penale, la pericolosità criminale consiste nell'aver commesso o tentato di commettere un delitto, sia questo doloso, colposo, cosciente od incosciente, ed esprime una pericolosità effettiva, a differenza, invece, di tutti quegli indizi che rivelano una pericolosità eventuale, come la capacità a delinquere, le molestie, gli atti minacciosi, il comportamento turbolento ed impulsivo, il genere di vita sregolato”. Di certo, Ferri (1926)[37] si dimostra ancora lontano dalla contemporanea ratio della non punibilità della pericolosità astratta e puramente borderline.

Parimenti, per Ferri (1926)[38]sarebbe inconcepibile la non punibilità per assenza o tenuità del pericolo, a norma dell'attuale Art. 131 bis CP. Assai più lucido è Grispigni (ibidem)[39] nel precisare che “è soltanto la pericolosità effettiva [dunque non potenziale, ndr] che ha una funzione giuridica nella giustizia penale, e che può definirsi come uno stato di antigiuridicità di un soggetto, che ha, per conseguenza giuridica, l'applicazione al medesimo di una sanzione criminale”. Anche Florian (1910)[40] anticipa le attenuazioni ex Artt. 56 e 131 bis CP affermando che “se l'atto fisico manca del tutto [o è alquanto lieve, ndr] non può ancora parlarsi di pericolosità criminale”. Florian (ibidem)[41] risulta perfettamente condivisibile, in tanto in quanto, nel Diritto Penale, è richiesta una materialità concreta del danno al bene giuridico protetto, come dimostra, ad esempio, il comma 5 Art. 73 TU 309/90 in tema di “lieve entità”. Una consumazione tenue o un tentativo meramente simbolico tolgono qualsivoglia legittima precettività alla sanzione penale. La concretezza del pericolo si manifesta, parimenti, nel rigetto dei delitti di mero sospetto, in cui non v'è una pericolosità ontologica e non eventuale o semplicemente temuta in via putativa.


Le motivazioni del delitto nel Positivismo storico novecentesco

Nella Scuola classica e positivista del Novecento, la ratio della pericolosità sociale toglieva vigore al criterio della proporzionalità della pena. In epoca attuale, invece, domina maggiormente un senso della misura che meglio si attaglia alle esigenze democratiche del garantismo accusatorio post-bellico, costituzionalmente sancito nell'odierno Art. 111 Cost. . Analoga critica negativa al “fine pena mai” è espressa pure da Grosso (1997)[42], il quale nota che “nella prospettiva della pena, al principio di proporzione in rapporto alla gravità del reato, uno dei cardini della Scuola classica, viene a sostituirsi una misura di difesa sociale addirittura priva di un termine prestabilito, destinata a durare finché non possa dirsi cessata la pericolosità del delinquente”. Tale estremizzazione apodittica della “difesa sociale” dal reo socialmente pericoloso ricorda da vicino l'oltranzismo giustizialista del Diritto Penale statunitense, in cui il trattamento penitenziario prevede durate abnormi, che l'Art. 3 CEDU definirebbe, se applicabile agli Stati Uniti, come “inumane e degradanti”.

Del resto, anche il comma 3 Art. 27 Cost vieta di dilatare ad libitum le misure di sicurezza nei confronti di quei condannati che, all'inizio dell'esecuzione carceraria, presentavano una forte pericolosità eterolesiva. Anzi, come sopra descritto, i seguaci di Lombroso non escludevano una forma di compressione della libertà personale persino di fronte a condotte borderline non ancora sfociate nell'antigiuridicità e/o nell'antisocialità materialmente distruttiva e dirompente. Anche Ferri (1926)[43] ammette la precettività di una limitazione preventiva della libertà in via putativa; ovverosia egli sostiene che “il delitto commesso, assai più che nel suo aspetto casuale od oggettivo (gravità maggiore o minore secondo il diritto o il bene giuridico violato) interessa nel suo aspetto sintomatico soggettivo (rivelazione di una personalità criminale)”. E' evidente, purtroppo,  che in Ferri (1926)[44] predomina una valutazione prognostica ove l'antisocialità borderline viene confusa con le condotte autenticamente e pericolosamente antinormative. Detto in altri termini, non sempre l'antisocialità coincide o sfocia nell'antigiuridicità vera e propria. Di nuovo, il pensiero corre alla Giuspenalistica statunitense, onnipresente e, soprattutto, onnicomprensiva. In buona sostanza, la Scuola classica del Novecento ipostatizzava i cc.dd. “motivi a delinquere”, i quali costituiscono una variabile soggettiva spesso extra-penale o, ognimmodo, collocata ai limiti dell'intra-rilevanza penale. P.e., sempre Ferri (1926)[45] ammette la possibile sussistenza di “motivi [a delinquere] onorevoli” che annullano la responsabilità penale, ma, a parere di chi redige, l'ambito delle motivazioni del delitto rischia sempre di condurre in una zona grigia ove l'oggettività tecnica si dissolve nella soggettività meta-normativa.

Ferri (1926)[46] prosegue a camminare nell'ambiguità del soggettivismo e precisa che “l'uccisione volontaria di un uomo può essere assassinio o liberazione da un malvivente, o aberrazione politica o un atto di legittima difesa. Soltanto [tutto cambia] a seconda del motivo che determina quell'atto […] E' il motivo determinante che dà significato morale e giuridico ad ogni atto umano; sicché, innanzi ad ogni fatto esterno, occorre verificare se ad esso si ricolleghi un movente giuridico o antigiuridico, sociale od antisociale, morale od immorale. I motivi a delinquere rappresentano, infatti, l'elemento più caratteristico e decisivo della personalità del reo, che è, a sua volta, il perno del meccanismo punitivo”. Nuovamente, Ferri (1926)[47] si sforza di giuridificare i motivi extra-giuridici che hanno determinato l'atto delinquenziale. Il tentativo è quello di ricondurre la metanormatività alla giuridicità. Naturalmente, l'interpretazione dei motivi a delinquere, dunque la contestualizzazione soggettiva del reato sono compiti che spettano al Magistrato, grazie al quale ciascuna infrazione viene calata all'interno di uno specifico contesto personologico. In effetti, Ferri (1926)[48] asserisce che la contestualizzazione giurisprudenziale è fondamentale, in tanto in quanto “ciò che interessa al Legislatore [rectius: al Magistrato, ndr] è solamente la qualità del motivo determinante, che sia sociale o antisociale, utile o dannoso alle esigenze morali e materiali della convivenza civile”. Pertanto, ancora una volta, in Ferri (1926)[49] esistono, nell'applicazione del Diritto Penale, fattori nomogenetici che consentono di sussumere l'antimoralità nel campo precettivo dell'antinormatività; spetta al Magistrato il delicato compito di congiungere Diritto ed extra-giuridicità del fatto. Tuttavia, il predetto Dottrinario si spinge troppo in là e, lombrosianamente parlando, osserva che “il delitto è sempre l'effetto di una devianza a livello psicologico, le cause si possono ricondurre ad un difetto congenito, od immaturità psichica, ad una sopravvenuta condizione psico-patologica, ad un impulso improvviso, e così avanti”.

Dunque, negli Anni Venti del Novecento, la Criminologia era ancora immersa nelle pericolose acque dell'eugenetica e del determinismo caratteriale. Mancava una netta distinzione tra analisi del delitto e psicopatologia. Al detenuto non si offriva la rieducazione, bensì la cura da presunte malattie ereditarie e congenite. Provvidenzialmente, in Ferri (1926)[50] non manca una “scala di gravità” della/nella violazione delittuosa, poiché, come postula questo Autore, “il delinquente passionale, il quale […] commette un delitto per un motivo sociale, non recidiva mai; mentre, il delinquente istintivo, ossia colui che delinque per un motivo antisociale, reitera facilmente le sue azioni criminose […]. Il movente psicologico [di un reato] è ciò che vale maggiormente, sia per caratterizzare moralmente e giuridicamente l'atto che ne deriva, sia, appunto, per considerare la pericolosità dell'agente, a seconda che tale movente a delinquere sia sociale oppure antisociale e denoti, quindi, una minore o maggiore potenza e facilità offensiva da parte del delinquente”.

Come si può vedere, anche la Scuola classica dei primi del Novecento anticipa quello che sarebbe stato l'Art. 133 CP, il quale ammette una “gradazione” nella gravità del reato. Oppure ancora, si pensi all'attuale Art. 131 bis CP, che scrimina un pericolo o un danno tanto lieve da rendere inutile la comminazione di una sanzione penale. Dunque, entro tale ottica, valutare i motivi a delinquere significa obbligare il Magistrato ad una contestualizzazione soggettivistica che è l'anima stessa dell'intero Diritto Penale. Il Magistrato giudica sempre contestualizzando, in tanto in quanto la pericolosità sociale del reo dipende pure da profili soggettivistici che si traducono in circostanze attenuanti o, viceversa, aggravanti. La metanormatività, grazie a norme quali gli Artt. 133 e 131 bis CP, offre dei parametri valutativi al fine di misurare l'antisocialità. D'altronde, esistono delitti connotati da una volizione antisociale nulla o quasi nulla e di ciò bisogna tenere conto nella irrogazione di una pena equilibrata e, specialmente, proporzionata. All'opposto, si giunge agli eccessi retribuzionistici ed antidemocratici della Giuspenalistica statunitense. In altre parole, come affermavano gli esponenti più illuminati della Scuola classica positivista, la “difesa sociale” è direttamente proporzionale al grado di “pericolosità” manifestato dal reo, i cui “motivi a delinquere” si trasformano in un parametro di giudizio proporzionato e non apodittico.

Da menzionare è pure Florian (1926)[51], che invita il Magistrato all'analisi della “volontà, dell'intenzione e del motivo” senza scadere nell'orribile determinismo volitivo di Lombroso. Per tale Autore del 1926, non è detto che il delinquente manifesti sempre e comunque delle presunte tare mentali. Merita attenzione anche Ferri (1925)[52] che, un anno prima di Florian (ibidem)[53], ha messo in evidenza l'ulteriore ratio metanormativa dell'”effetto finale che il delinquente si è proposto di raggiungere”. A prescindere, ognimmodo, dalle sfumature, consta che la maggior parte dei Dottrinari della Scuola classica ha anticipato, più o meno consapevolmente, la mirabile ratio della contestualizzazione oggettiva e soggettiva ex Art. 133 CP.

 

La scelta del Codice Rocco in tema di “motivi a delinquere”

Giustamente, Ferri (1926)[54] sostiene che attribuire una centralità assoluta ai “motivi a delinquere” significherebbe “spiritualizzare e moralizzare la giustizia penale […] Il motivo non deve essere al centro di un soggettivismo estremo ed inaccettabile; bisogna attribuire ai motivi a delinquere una rilevanza circoscritta principalmente al piano della commisurazione della pena in senso stretto e circostanziale, escludendo che sul motivo possa fondarsi l'an della responsabilità penale”. Dunque, nel Codice Rocco, ex n. 1) comma 2 Art. 133 CP, “i motivi a delinquere ed il carattere del reo” non svolgono una funzione incriminante/scriminante, bensì i motivi del reato servono a “graduare” la pena comminata adeguandola alla maggiore o minore gravità delle circostanze che hanno accompagnato la commissione o il tentativo della commissione del fatto illecito.

Come afferma Malinverni (1977)[55], i motivi a delinquere altro non sono che una circostanza aggravante o, viceversa, attenuante; ovverosia “il Codice Rocco ha ritenuto di porre, a fianco del Diritto Penale del fatto, un Diritto Penale basato sull'autore. La commissione di un fatto punito dalle legge come reato è la condizione necessaria perché possa essere dichiarata la responsabilità di un soggetto; però, la qualità e la misura della pena vengono graduate, tra l'altro, in base ai motivi a delinquere, operanti anche quali indici della capacità criminale del reo (Art. 133 comma 2 n. 1) CP). L'Art. 133 CP, infatti, stabilisce che il giudice, nell'esercizio del potere di applicare discrezionalmente la pena nei limiti fissati dalla legge deve tener conto della gravità del reato e della capacità a delinquere del reo. Detta disposizione precisa, altresì, gli elementi in base ai quali dev'essere determinata la gravità del reato e la capacità a delinquere e fra essi, come indice di quest'ultima, menziona i motivi a delinquere”.

Pertanto, come asserito da Malinverni (ibidem)[56], i motivi a delinquere, nel n. 1) comma 2 Art. 133 CP, agevolano il compito “contestualizzativo” del Magistrato, per il quale le motivazioni del delitto vengono a porsi alla stregua di circostanze che aggravano o attenuano la responsabilità penale dell'infrattore. I motivi a delinquere, all'interno dell'Art. 133 CP, contribuiscono a rendere possibile quella “contestualizzazione” che rappresenta uno dei cardini del Diritto Penale, in tanto in quanto l'infrazione criminosa non è un monolita amorfo, bensì una serie di connotati che impongono una pena “a gradi”, fornita dal bilanciamento equo e prudente di tutte le circostanze che hanno accompagnato il fatto illecito. I motivi a delinquere, nell'Art. 133 CP, fanno anch'essi parte di siffatto “mosaico ermeneutico” composto da un insieme di aggravanti ed attenuanti.

Dal canto suo, Bucolo (1954)[57] distingue tra il motivo a delinquere ed il fine del reato. Più nel dettaglio, il summenzionato Autore precisa che “è necessario intendere bene il concetto di motivo adoperato dal nostro Codice Penale. Sotto un aspetto prettamente tecnico-giuridico, il motivo va tenuto distinto dalle espressioni fine o scopo […]. L' espressione motivi, invece, è stata usata per indicare le cause psicologiche, le ragioni interiori, il perché del reato, ossia quei fini che sono fuori dallo schema normativo, poiché non rientrano né nella nozione né tra le circostanze del reato”. Come si può notare, Bucolo (ibidem)[58], sebbene non esplicitamente, osserva anch'egli che, grazie al n. 1 comma 2 Art. 133 CP, nel giudizio sulla gravità del reato, fa il proprio ingresso un elemento di per sé metanormativo, quale la motivazione psicologica dell'atto delinquenziale. Di nuovo, dunque, il Codice Rocco invita il Magistrato a contestualizzare, ovvero a valutare l'illecito nella sua integralità, circostanziando e non ipostatizzando il solo profilo fattuale. P.e., si pensi alla ratio, talvolta totalmente scriminante, dei “motivi onorevoli”, presente anche nel Codice Penale svizzero. Oppure ancora, si ponga mente alla connessione eventuale tra i motivi a delinquere e lo “stato di necessità” o la “legittima difesa”. Trattasi di chiavi esegetiche che attenuano o aggravano la responsabilità del soggetto agente. Del pari, Fiandanca & Musco (2009)[59] soggettivizzano il grado della colpa e precisano che l'Art. 133 CP conferisce valore anche alla “causa psichica dell'azione [la quale è] lo stimolo, l'impulso, l' istinto o il sentimento che ha spinto l'uomo a delinquere”.

Quindi,  il n. 1 comma 2 Art. 133 CP non esclude l'analisi dei profili soggettivi del delitto, giacché l'elemento psicologico è una circostanza da non sottovalutare, soprattutto per contestualizzare appieno un atto che, in certi casi, risulta assai meno antisociale di quanto potrebbe apparire di primo acchito. Anche, del resto, Marinucci & Dolcini (2009)[60] rilevano che il motivo a delinquere rende l'idea del grado di antisocialità, o meno, del fatto; ovverosia “i motivi a delinquere dovranno essere analizzati sotto il profilo […] del valore etico-sociale, a seconda che il motivo produca […] comportamenti socialmente apprezzabili, ovvero riprovevoli […]. Buono sarà il motivo che normalmente, nei confronti della maggior parte degli uomini, induce a comportamenti considerati moralmente apprezzabili o socialmente utili, e per questo è idoneo ad orientare la commisurazione della pena verso il minimo edittale. Cattivo sarà quello che, sempre nella generalità dei casi, induce a comportamenti considerati moralmente spregevoli o socialmente dannosi e, quindi, giustifica un innalzamento in direzione del massimo edittale della pena”. Anche secondo Veneziani (ibidem)[61] il n. 1) comma 2 Art. 133 CP costituisce una sorta di porta d'ingresso che consente di valutare la conformità o meno del reato alla ordinaria moralità collettiva. Dunque, i motivi a delinquere sono parametri di anti-socialità/pro-socialità.

 

[1]Ferri, Relazione sul Progetto preliminare di Codice penale italiano, in Scuola Positiva, 1929

 

[2]Tagliarini, Pericolosità, in Enciclopedia del Diritto, XXXII, Giuffrè, Milano, 1983

 

[3]Spirito, Storia del diritto penale italiano da Beccaria ai giorni nostri, Fratelli Bocca, Torino, 1932

 

[4]Carrara, Programma del corso di diritto criminale (1859-1870), Parte generale, Canovetti, Lucca, 1889

 

[5]Veneziani, Motivi e colpevolezza, Giappichelli, Torino, 2000

 

[6]Veneziani, op. cit.

 

[7]Grispigni, La pericolosità criminale e il valore sintomatico del reato, in Scuola Positiva, 1920

 

[8]Grispigni, op. cit.

[9]Lombroso, L'uomo delinquente, Fratelli Bocca, Torino, 1897

 

[10]Lombroso, op. cit.

 

[11]Garofalo, Di un criterio positivo della penalità, Vallardi, Napoli, 1880

 

[12]Garofalo, op. cit.

 

[13]Romagnosi, Genesi del diritto penale (1791), a cura di Ghiringhelli, Giuffrè, Milano, 1996

 

[14]Garofalo, op. cit.

 

[15]Romagnosi, op. cit.

 

[16]Carrara, op. cit.

 

[17]Rocco, L'oggetto del reato, Fratelli Bocca, Torino, 1913

 

[18]Impallomeni, Istituzioni di diritto penale, opera postuma curata da Lanza, UTET, Torino, 1908

 

[19]Impallomeni, op. cit.

 

[20]Ferri, op. cit.

 

[21]De Asua, La pericolosità. Nuovo criterio per il trattamento repressivo e preventivo, traduzione italiana con prefazione di Ferri, Fratelli Bocca, Torino, 1923

 

[22]De Asua, op. cit.

 

[23]Delitala, Osservazioni intorno al Progetto preliminare di un nuovo codice penale, Vita e pensiero, Milano, 1927

 

[24]Ferri, Principi di diritto criminale, UTET, Torino, 1928

 

[25]Ferri 1928, op. cit.

 

[26]Ferri 1929, op. cit.

 

[27]Ferri 1929, op. cit.

 

[28]Grispigni, La odierna scienza criminale in Italia, in Scuola Positiva, 1909

 

[29]Grispigni, op. cit.

 

[30]Ferri, op. cit.

 

[31]Antolisei, Sul concetto di pericolo, in Scuola Positiva, 1914

 

[32]Antolisei, op. cit.

 

[33]Antolisei, op. cit.

 

[34]Grispigni, op. cit.

 

[35]Grispigni, op. cit.

 

[36]Ferri, Pene e misure di sicurezza, in Studi sulla criminalità, UTET, Torino, 1926

 

[37]Ferri 1926, op. cit.

 

[38]Ferri 1926, op. cit.

 

[39]Grispigni, op. cit.

 

[40]Florian, Trattato di diritto penale, Vallardi, Milano, 1910

 

[41]Florian, op. cit.

 

[42]Grosso, Le grandi correnti del pensiero penalistico italiano tra Ottocento e Novecento, in Storia d'Italia – Annali – 12 – La criminalità, a cura di Violante, Einaudi, Torino, 1997

 

[43]Ferri 1926, op. cit.

 

[44]Ferri 1926, op. cit.

 

[45]Ferri 1926, op. cit.

 

[46]Ferri 1926, op. cit.

 

[47]Ferri 1926, op. cit.

 

[48]Ferri 1926, op. cit.

 

[49]Ferri 1926, op. cit.

 

[50]Ferri 1926, op. cit.

 

[51]Florian, Trattato di diritto penale, Vallardi, Milano, 1926

 

[52]Ferri, Difese penali, UTET, Torino, 1925

 

[53]Florian, op. cit.

 

[54]Ferri 1926, op. cit.

 

[55]Malinverni, “Motivi” in Enciclopedia del Diritto, XXVII, Giuffrè, Milano, 1977

 

[56]Malinverni, op. cit.

 

[57]Bucolo, I motivi di particolare valore morale o sociale, in Giustizia Penale, 1954

 

[58]Bucolo, op. cit.

 

[59]Fiandanca & Musco, Diritto Penale. Parte generale, Zanichelli, Bologna, 2009

 

[60]Marinucci & Dolcini, Manuale di Diritto Penale, Parte generale, Giuffrè, Milano, 2009

 

[61]Veneziani, op. cit.