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La delinquenza giovanile

delinquenza giovanile
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La delinquenza giovanile

 

Il ruolo/il non-ruolo della famiglia

Giustamente, sin dagli Anni Settanta del Novecento, Bandini & Gatti (1972)[1] mettono in evidenza che “nella letteratura criminologica minorile, l'ambiente familiare occupa un posto di notevole considerazione ed interesse, data la grande importanza ed influenza che la famiglia esercita nello sviluppo del soggetto e nella formazione della sua personalità, e la sua funzione di filtro tra l'individuo ed il resto della società”. Come si può notare, Bandini & Gatti (ibidem)[2] hanno il coraggio di negare l'odierno processo di de-istituzionalizzazione del nucleo familiare; nel bene o nel male, la famiglia è il primo luogo pedagogico nonché la prima agenzia di controllo nei confronti del minore e del giovane adulto. Anzi, negli ormai lontani Anni Quaranta del Novecento, Ashely (1940)[3] giungeva a postulare che “per fornire una lettura ed una spiegazione della devianza minorile [bisogna passare] attraverso l'individuazione di caratteristiche particolari relative all'ambiente familiare, alle sue dinamiche ed alle figure parentali”. Naturalmente, l'affermazione di Ashely (ibidem)[4] non va ipostatizzata, in tanto in quanto le cause della criminogenesi non risiedono esclusivamente all'interno del focolare domestico. Tuttavia, come precisato da Ferguson & Horwood & Lynskey (1992)[5], è fuor di dubbio che “la carenza e/o l'assenza di cure materne nella prima infanzia [è] un aspetto spesso determinante nella genesi di atteggiamenti e comportamenti delinquenziali”.

Nella Criminologia anglofona, il ruolo materno, nella formazione delle devianze giovanili, costituisce un fattore eziologico basilare; ovverosia, come rimarcato da Erickson (1982)[6], “l'importanza di una buona madre [è la] base indispensabile per l'integrazione dell'Io, per la formazione dell'identità, per la capacità di tollerare le frustrazioni, per il costituirsi di quella fiducia di base essenziale per uno sviluppo psicosociale”. Diverso, invece, è il ruolo della figura paterna. Il cui ruolo criminogenetico è sovente determinato da una permanenza “tossica” e non da un'assenza più o meno dolorosa per la figliolanza. In effetti, Spitz (1969)[7] asserisce che “per quanto concerne la figura paterna, ciò che è sembrato e che sembra ancor oggi rilevante, da un punto di vista criminologico, non è tanto il problema della privazione paterna, quanto, piuttosto, quello dei rapporti perturbati, disturbati o inesistenti in presenza di tale figura”. Probabilmente, Spitz (ibidem)[8] esalta una lettura affettivo-familiare ginocentrica che rischia di privare il bambino del giusto equilibrio tra la figura maschile del padre e quella femminile della madre. In ogni caso, la Criminologia occidentale, con Cashwell & Vacc (1996)[9] pertinentemente ed oggettivamente mettono in risalto che “tra i giovani delinquenti, esiste più frequentemente un rapporto affettivamente molto intenso con la madre, spesso invischiante, anche confusivo; e, contemporaneamente, si osserva un'assenza, una perifericità della figura paterna, od un sentimento, da parte del ragazzo [infrattore] di essere respinto, di non essere attaccato al padre”. Nuovamente, quindi, Cashwell & Vacc (ibidem)[10] ripropongono, da un lato, la centralità controllante della madre e, dall'altro lato, l'insignificanza o, financo, la nocività pedagogica ed affettiva del paterfamilias.

Anche negli Anni Duemila, si assiste ad un pericoloso squilibrio del ruolo educativo combinato di tutti i due genitori, il che apre la strada all'inquietante deminutio della compresenza del maschio e della donna nel contesto dello svolgimento delle funzioni genitoriali. A parere di chi redige, l'infra-18enne necessita di impulsi pedagogici tanto maschili quanto femminili. Lo sviluppo personale del soggetto in età infantile non può tollerare la presenza di un solo genere parentale. Infatti, provvidenzialmente, De Leo (1998)[11] specifica che la monosessualità genitoriale è disturbante, in tanto in quanto “il padre ancor oggi rappresenta il modello normativo per la coscienza etico-sociale [pertanto] la rottura del rapporto ragazzo-padre mette in crisi questo modello di identificazione e ciò è spesso alla base di comportamenti devianti e della ripetitività deviante”. A parere di chi scrive, il merito di De Leo (ibidem)[12] consta nella riaffermazione, non politicamente corretta, della necessità ontologica tanto di un genitore maschio quanto di una controparte femmina. Nella pedagogia infantile, la sola mascolinità o, del pari, la sola femminilità genitoriale genera squilibri psicologici che facilmente sfociano in devianze borderline antigiuridiche. Similmente, Deval & Stoneman & Brody (1986)[13] mettono in guardia dagli effetti, sull'istituzione familiare, da parte delle “profonde trasformazioni che hanno investito la sfera delle relazioni familiari e sociali, i costumi e gli stili di vita”. Deval & Stoneman & Brody (ibidem)[14] hanno coraggiosamente ed anti-conformisticamente ribadito la necessità ontologica della famiglia tradizionale quale primaria agenzia di controllo in grado di prevenire e/o reprimere la delinquenza giovanile. La famiglia matriarcale mediterranea impedisce la criminogenesi, benché essa presenti, come normale, difetti e deficienze che non la rendono affatto un luogo perfetto o paradisiaco. Nel bene o nel male, la coppia etero-sessuale pone pur sempre dei limiti educativi che riducono i danni cagionati da fonti pedagogiche alternative come il gruppo dei coetanei del quartiere o un'esperienza scolastica fallimentare.

E' innegabile che la Criminologia contemporanea può analizzare ancorché non arrestare l'odierna crisi della famiglia, che oggi certamente non brilla in fatto di potenzialità educative nei confronti della figliolanza in età infantile o adolescenziale. In maniera assai progressista, Ponti (1995)[15] evidenzia la “nuova” moralità dei nuclei familiari dissociati, ovverosia “le trasformazioni nell'ambito della famiglia monoparentale, per esempio, e la famiglia che unisce parti di nuclei diversi non può essere considerata semplicisticamente una famiglia patologica o una famiglia spezzata o disgregata”. Del pari, Aebi (1997)[16] invita alla contestualizzazione di ogni singola fattispecie, nel senso che “seppure numerosi studi scientifici dimostrino che le broken homes abbiano un'incidenza notevole sul comportamento delinquenziale dei giovani che in esse vivono […] ciò non vuol dire che vi sia una relazione di tipo deterministico tra la famiglia disgregata ed il comportamento antisociale dei loro figli”.

Anche Junger-Tas & Ribeaud & Cryyff (2004)[17] negano un legame eziologico lombrosiano tra la disgregazione familiare e la delinquenza dei figli di coppie separate e/o ricostituite in forme non tradizionali. Pure a parere di chi commenta, la prole di genitori “a-tipici” tende a manifestare spesso devianze antisociali ancorché non antigiuridiche. P.e., la figliolanza di genitori patologici tende maggiormente ad approcciarsi al mondo degli stupefacenti, ma quasi sempre per un uso esclusivamente personale nonché limitato all'età dell'adolescenza. Dunque, di nuovo, la Criminologia seriamente scientifica esorta all'analisi di ciascun singolo episodio. Ottimista, fors'anche eccessivamente, è pure Mucchielli (2000)[18], a parere del quale “in una prospettiva antropologica, la famiglia sta manifestando un rapido mutamento, fino a sviluppare forme di convivenza assenti solo pochi anni fa. Le nuove relazioni intrafamiliari non sono necessariamente patologiche o disfunzionali, ma rappresentano nuovi sistemi familiari, all'interno dei quali le persone sperimentano nuovi modi di vivere, in qualche caso con difficoltà molto gravi, in altri senza particolari problemi, in altri ancora riuscendo a ricostituire un equilibrio migliore rispetto alla famiglia precedente”. Di nuovo, è necessario analizzare ciascun nucleo affettivo, pur se, come rimarcato da Lagazzi (1994)[19], “spesso la presenza di entrambi i genitori all'interno del nucleo familiare costituisce [rectius: può costituire, ndr] un fattore preventivo sull'attività deviante dei giovani rispetto a strutture familiari alternative”.

 

Il difficile periodo dell'adolescenza

Secondo Palmonari (1997)[20] “l'adolescenza è quella fase della vita umana […] nel corso della quale l'individuo acquisisce le competenze ed i requisiti necessari per diventare adulto. Le fasi di maturazione specifiche, in particolare lo sviluppo fisico, sessuale, cognitivo ed emotivo, sono processi potenzialmente stressanti per l'adolescente, che si trova immerso in un gioco di pulsioni, energie nuove, tensioni ed aspirazioni”. Ora, entro tale fase s'innesta il pericolo della commissione di atti devianti antigiuridici. Tale eventuale criminogenesi è ben evidenziata da Romano (2009)[21], a parere del quale, durante l'età post-puberale, “l'emotività risulta vincente sulla razionalità, l'energia sull'esperienza, il desiderio sul controllo delle situazioni, l'impulso sull'efficacia e l'idealità sulla concretezza. Nell'affrontare la realtà, inoltre, molti adolescenti mettono in atto forme di trasgressione e di opposizione alle regole in ambito familiare, scolastico e socio-culturale. Comportamenti distruttivi di oggetti, servizi familiari, scolastici, comunitari o comportamenti devianti, da soli o in gruppo, arrivando fino a forme di microcriminalità”.

Tuttavia, il populismo demagogico cade in errore allorquando confonde bagatellari episodi di infrattività giovanile con lo sviluppo, assai raro, di una vera e propria carriera delinquenziale. In effetti, a tal proposito, Stella (2001)[22] nota che “molti comportamenti penalmente rilevanti non indicano sempre situazioni di antisocialità, ma possono configurarsi come sbandamenti occasionali durante l'adolescenza, periodo in cui i ragazzi tendono a ribellarsi e a mettere in discussione i valori trasmessi, in modo fisiologico, per acquisire la propria autonomia”. Detto in altri termini, la devianza antigiuridica del soggetto adolescente è, nella maggior parte dei casi, episodica, transitoria e non recante ad atti infrattivi seriali od abitudinari. La microcriminalità giovanile è soltanto un messaggio simbolico di ribellione verso il mondo degli adulti, le cui proibizioni vengono percepite alla stregua di diminuzioni immeritate della libertà.

Giustamente, la Criminologia invita a non ipostatizzare la gravità della delinquenza giovanile, la quale, di solito, è transitoria ed episodica. P.e., sotto il profilo psico-criminalistico, Costabile & Bellacicco & Bellagamba & Stevani (2011)[23] evidenziano che “uno dei compiti fondamentali che il percorso di crescita impone all'adolescente è proprio quello di oltrepassare i limiti imposti da quell'insieme di regole assimilate nel corso dell'infanzia e dal rapporto di dipendenza che lo lega ancora all'ambiente primario di riferimento. […]. Quando l'identità è fragile, l'adolescente può trovare un'identità vicariante in personaggi dello spettacolo o della musica ed in campioni sportivi, ma può anche optare per altre scelte, come quella di assumere droga, alcol, di cimentarsi in condotte a rischio ed in comportamenti devianti. Atti antisociali e delinquenziali più o meno gravi, possono essere messi in atto per una serie di motivazioni legate ad una situazione di disagio personale, come risposta ad un senso generalizzato di disorientamento rispetto a se stesso, come modo di sfuggire al senso di noia, o ancora come modalità per costruirsi una reputazione sociale riconosciuta all'interno del gruppo dei pari”. Di nuovo, come si può notare, Costabile & Bellacicco & Bellagamba & Stevani (ibidem)[24] negano che un singole episodio antinormativo giovanile possa ipotecare l'intera vita futura. La “carriera criminale” è un fenomeno assai raro, che, in ogni caso, può non essere connesso all'infrattività adolescenziale, come, d'altra parte, dimostra lo white collar crime, il quale nulla ha a che fare con l'età dello sviluppo. Parimenti, pure Cavallo (2002)[25] osserva che un atto illecito giovanile “non fa diventare un delinquente”, come, viceversa, affermato da demagoghi in cerca di consensi elettorali.

D'altronde, sotto il profilo statistico, è falso e fuorviante che la criminalità giovanile sia in una preoccupante fase di crescita. Altrettanto correttamente, De Leo & Patrizi & De Gregorio (2004)[26] mettono in risalto che “la devianza [estemporanea, ndr] può rappresentare, per l'adolescente, una particolare modalità attraverso cui rendere più evidente il proprio messaggio e richiamare l'attenzione dei sistemi di controllo formale ed informale, in quanto il soggetto invia determinati messaggi e riceve messaggi che danno una risposta sulla sua azione, quindi sul significato sociale del suo agire, e sulla sua persona”. Pertanto, De Leo & Patrizi & De Gregorio (ibidem)[27] abbassano anch'essi il grado di allarmismo sociale connesso alla (micro)criminalità degli adolescenti. La Criminologia autenticamente scientifica rigetta l'immagine di una gioventù perennemente ed irreversibilmente protesa verso una serialità delinquenziale grave ed immutabile. In effetti, su tale tema, Pietropolli Charmet (1997)[28] sottolinea che “l'adolescente reo può essere contemporaneamente autore del reato e vittima, in quanto soggetto deprivato di un ambiente educativo idoneo alla sua maturazione affettiva”. Pietropolli Charmet (ibidem)[29] non intende negare l'ineludibile personalità della responsabilità penale; ciononostante, è pur vero che l'infra-18enne ed il giovane adulto patiscono gravi carenze etico-valoriali. La famiglia dissociata o quella ricomposta, a parere di chi redige, non sono per nulla idonee a veicolare valori forti che proteggono la prole da potenziali esperienze infrattive, come dimostra l'odierna normalità dell'abuso di alcol e stupefacenti.

 Anche Baraldi (2002)[30] evidenzia la disfunzionalità delle agenzie di controllo tradizionali, ovverosia “oggi,il disagio giovanile viene sempre più spesso correlato alle carenze della società postmoderna, che offre molte opportunità di azione, ma non fornisce ai giovani né gli strumenti per affrontare tale complessità, né una guida educativa ed un efficace controllo normativo. La conseguenza è che al suo interno si produce una sorta di anarchia, con effetti distorcenti sulle nuove generazioni”. Alla luce di quanto sostenuto da Baraldi (ibidem)[31] v'è da chiedersi, a parere di chi scrive, se le “nuove” famiglie a-tipiche siano o meno in grado di ricoprire il ruolo ordinario di “agenzie di controllo primarie”. E' errata l'esaltazione nostalgica del patriarcato mediterraneo, me è altrettanto fuorviante la figura di un paterfamilias/patrigno pressoché assente e, soprattutto, privo di un normale ruolo pedagogico nei confronti della prole. Di più, secondo Pira & Marrali (2007)[32] la problematica va spostata dal piano familiare a quello sociale e mass-mediatico, in tanto in quanto “la società stessa […] alimenta incessantemente […] l'orientamento alla trasgressione, alla violazione delle norme, alla ricerca del rischio ed alla violenza nelle relazioni, con comportamenti che violano i diritti e le aspettative altrui”. Quanto rimarcato da Pira & Marrali (ibidem)[33] è ben evidente nella traumatofilia attiva (maschile) e passiva (femminile) veicolata dall'ormai libera pornografia online. I mezzi di comunicazione diminuiscono, nel giovane spettatore, la consapevolezza di ciò che è antisociale e/o antigiuridico.

Analoghe sono le osservazioni di Mastropasqua & Pagliaroli & Totano (2008)[34], ossia “il disagio giovanile è sinonimo di un disagio esistenziale, causato dalle degenerazioni antropologiche della società moderna, caratterizzata dal cambiamento dei ruoli familiari e sociali. Questo malessere spesso rende incerto il confine tra forme di disagio sociale e disturbi mentali veri e propri […]. Comportamenti devianti e violenti e assunzione di droghe, oggi, non sono più fenomeni prevalentemente legati ad ambienti socio-culturali disagiati, ma talvolta sono associati a stati di benessere materiale e a mancanza di stimoli”. Dunque, come si vede, Mastropasqua & Pagliaroli & Totano (ibidem)[35] implicitamente (ri)propongono la tematica della disfunzionalità pedagogica della famiglia dissociata. Certamente, un nucleo familiare patologico non è automaticamente criminogeno, ma le problematiche psico-educative si pongono egualmente. L'assenza di un padre o di una madre non è un dettaglio da sottovalutare

 

Le teorie criminologiche in tema di delinquenza giovanile.

Nell'analisi criminologica della delinquenza adolescenziale e giovanile spesso capita che l'infra-18enne od il giovane adulto siano “etichettati” alla stregua di soggetti borderline incorreggibili ed irrecuperabili. Tale è pure l'orientamento neo-retribuzionista dell'esecuzione penitenziaria statunitense. Secondo Lemert (1981)[36], esiste, nel giovane infrattore, una “devianza primaria”, di natura episodica, la quale raramente sfocia in una “devianza secondaria”, ovverosia in una carriera criminale abituale o, financo, professionalmente organizzata. Del pari, Becker (1987)[37] invita la Criminologia occidentale a non sovrastimare, in maniera apodittica, quelle che altro non sono se non condotte bagatellari di ribellione simbolica, in tanto in quanto non esistono infrattori in età giovanile non trattabili o non emendabili. Una vigorosa negazione dell'etichettamento rigido e rigoroso dei delinquenti in età adolescenziale proviene pure da Goffman (1968)[38], a parere del quale “attraverso l'esperienza delle Istituzioni totali (strutture psichiatriche e carcere), l'etichettamento [del giovane] acquisisce un definitivo e generale riconoscimento sociale. L'esperienza dell'istituzionalizzazione determina un ulteriore rinforzo, facendo nascere concetti quale stigma e stereotipo del criminale. Ed è proprio lo stigma che stabilisce in maniera definitiva lo status di deviante, ancorando il soggetto ad una condizione sociale di cui è impossibile ripercorrere a ritroso le varie tappe attraverso cui vi è giunto”.

Dunque, Goffman (ibidem)[39] sostiene che l'etichettamento sociale dell'infrattore infra-25enne equivale ad una sentenza collettiva irrevocabile che sgretola pure l'affidabilità lavorativa e la reputazione futura del giovane etichettato. L'adolescente/il post-adolescente viene ingabbiato all'interno di una serie di pregiudizi falsi e non più modificabili. Anzi, Goffman (ibidem)[40] giunge ad asserire che “le ricerche socio-criminologiche [degli Anni Sessanta del Novecento], in forza della teoria dell'etichettamento, sono giunte a considerare l'intervento stesso del Giudice come causa o concausa di ulteriore devianza, non solo prodotta, ma anche inventata dal sistema”. Come si può notare, Goffman (ibidem)[41] ribadisce la preziosità della “reputazione” etico-sociale del reo in età adolescenziale. In effetti, l'etichettamento, secondo svariati Dottrinari, si trasforma, nel lungo periodo, in “auto-etichettamento”. A tal proposito, Matza & Sykes (2010)[42] precisano che “[vanno rigettate] le teorie subculturali della devianza, secondo le quali i delinquenti condividono valori e norme diversi da quelli degli individui normali […]. La realtà è molto più complessa della teoria […]. Quando i giovani delinquenti spiegano il proprio comportamento deviante, ne condividono spesso la condanna da parte dei rappresentanti dell'ordine che essi stessi hanno violato”. Inoltre, i summenzionati Matza & Sykes (ibidem)[43] evidenziano che i ragazzi responsabili di illeciti penalmente rilevanti “neutralizzano”, ossia “minimizzano” le proprie responsabilità. P.e., i giovani rei invocano, a propria discolpa, una presunta deficienza psichica. Oppure, viene negata l'acuta e diretta pericolosità antisociale del reato consumato. Oppure ancora, l'adolescente tenta di nascondere la gravità delle proprie azioni precisando che, in fondo, il proprio gesto non ha recato molti danni diretti o specifici. Altri ancora, tendono a non  riconoscere la piena legittimità delle Autorità costituite. Infine, non mancano infra-18enni o giovani adulti che tendono ad esaltare lo jato tra educazione ricevuta e valori collettivamente riconosciuti.

Secondo il censimento criminologico ragionato di Glueck & Glueck (1950)[44] “esiste una forte correlazione tra età e crimine: quanto più precoce è l'inizio dell'azione deviante, tanto più lungo e persistente sarà il coinvolgimento in comportamenti devianti, [ma] quanto più il gruppo invecchia, tanto minore risulterà il coinvolgimento in attività criminali”. Pertanto, anche Glueck & Glueck (ibidem)[45] mettono in luce l'estrema rarità della c.d. “carriera criminale”, in tanto in quanto le ribellioni antinormative dell'adolescenza tendono a scomparire nel lungo periodo. Siffatta conclusione è confermata da Wolfgang & Figlio & Sellin (1972)[46], i quali hanno monitorato 9.945 soggetti maschi tra i 10 ed i 17 anni d'età, nati a Filadelfia nel 1945. I tre predetti Autori statunitensi hanno anch'essi potuto acclarare che “un esordio criminale precoce è correlato alla persistenza ed alla gravità criminale”, ma non conduce quasi mai ad una devianza perenne ed irreversibile, a differenza di quanto asserito dal populismo demagogico degli Anni Duemila.

Altrettanto preziosa è la Ricerca di Tracy & Wolfgang & Figlio (1990)[47], che mapparono 27.160 individui, donne comprese, nati sempre a Filadelfia, nel 1958. Anche in tal caso, venne “confermata la correlazione tra esordio criminale precoce e persistenza criminale”; tuttavia, di nuovo, vennero individuati pochi soggetti recidivi in età adulta. A sua volta, pregevole è lo Studio di Farrington (2003)[48] afferente a 411 infra-18enni nati a Londra nel 1953. A differenza dei propri Colleghi, Farrington (ibidem)[49] ha riscontrato nei giovani minorenni “un'ampia sindrome di comportamento antisociale […] la quale rimane costante tra i 18 ed i 32 anni […]. [Questi] giovani, condannati in età adulta per il reato commesso, manifestavano: comportamenti disonesti ed irrequieti ed erano fortemente coinvolti in attività rischiose e pericolose già all'età di 8-10 anni, iperattività, difficoltà di concentrazione e di attenzione, intelligenza limitata ed insuccesso scolastico, molto spesso seguito dall'abbandono degli studi in età scolare”.

In maniera non del tutto condivisibile, Maguin & Loeber (1996)[50] ipotizzano che i fallimenti scolastici recherebbero un effetto criminogeno. Certamente orribile ed anti-democratica è la distorsione epistemologica di Gatti (2007)[51], il quale osa affermare che “premesso che, in linea generale, i licei sono frequentati da allievi che ottengono maggiore successo scolastico e provengono da famiglia che hanno buone condizioni economico-sociali, mentre gli istituti professionali sono, spesso, frequentati da allievi che hanno dimostrato scarsa capacità di apprendimento ed appartengono a famiglie più svantaggiate dal punto di vista economico e sociale, […] si evidenzia una maggiore frequenza di comportamenti devianti negli istituti professionali. Pertanto, la devianza potrebbe essere legata sia alla povertà della famiglia di appartenenza, sia all'insuccesso scolastico”. Chi redige si dissocia fermamente dalle predette oscenità pseudo-criminologiche di Gatti (ibidem)[52]. La cultura, infatti, rappresenta un fattore di protezione, tuttavia essa non va assolutizzata, come dimostra l'esempio dello white collar crime. Agito da soggetti recanti un notevole livello d'istruzione. Più moderati sono Volpini & Frazzetto (2013)[53], secondo cui “spesso, i minori autori di reato sono sì meno scolarizzati rispetto ai pari non devianti, ma è la compresenza di vari fattori problematici nello stesso individuo, non adeguatamente affrontati nel corso dello sviluppo, a determinare la messa in atto di comportamenti negativi da parte del minore”. A parere di chi scrive, Volpini & Frazzetto (ibidem)[54] sono maggiormente condivisibili rispetto a Gatti (ibidem)[55], in tanto in quanto non ipostatizzano il ruolo delle agenzie di controllo di matrice scolastica. Più dogmatico è Rutter (2002)[56], ovverosia “non è la delinquenza a causare il fallimento scolastico, ma è più probabile che vi sia un collegamento tra quoziente intellettivo basso e comportamento problematico relativo ad un'età precedente, che potrebbe diventare, in seguito, un fattore di previsione della delinquenza”. Ancora, chi commenta contesta il presunto legame eziologico tra “quoziente intellettivo basso” e criminogenesi. D'altronde, Elliott (1994)[57] sottolinea che l'abuso precoce di droghe e bevande alcoliche è assai più preoccupante e pericoloso di uno scarso rendimento scolastico. Anche Merzagora Betsos (2002)[58] reputa che “le droghe possono aumentare l'imprudenza, l'impulsività e l'aggressività e diminuire le capacità di critica e di difesa”. La scolarizzazione non costituisce una chiave interpretativa universale o decisiva, come dimostra la bassa incidenza della criminalità presso popolazioni afflitte dall'analfabetismo.

 

 

[1]Bandini & Gatti, Dinamica familiare e delinquenza giovanile, Giuffrè, Milano, 1972

 

[2]Bandini & Gatti, op. cit.

 

[3]Ashely, Male and Female Broken Home Rates by Types of Delinquency, American Sociological Review, 5, 1940

 

[4]Ashely, op. cit.

 

[5]Ferguson & Horwood & Lynskey, Family change, parental discord and early offending, Journal of Child Psychology and Psychiatry, 33, 1992

 

[6]Erickson, La mia voce ti accompagnerà. I racconti didattici di Milton Erickson, a cura di Rosen, astrolabio, Roma, 1982

 

[7]Spitz, Il primo anno di vita del bambino, Giunti Barbera, Firenze, 1969

 

[8]Spitz, op. cit.

 

[9]Cashwell & Vacc, Family functioning and risk behaviors: Influences on adolescent delinquency, The School Counselor, 44, 1996

 

[10]Cashwell & Vacc, op. cit.

 

[11]De Leo, La devianza minorile. Il dibattito teorico, le ricerche, i nuovi modelli di trattamento, Carocci, Roma, 1998

 

[12]De Leo, op. cit.

 

[13]Deval & Stoneman & Brody, The impact of Divorce and Maternal Employment on Pre-Adolescent Children, Family Relations, 35, 1, 1986

 

[14]Deval & Stoneman & Brody, op. cit.

 

[15]Ponti, Compendio di Criminologia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995

 

[16]Aebi, Famille dissociée et criminalité: le cas Suisse, Kriminologisches – Bulletin de Criminologie, 23, 53, 1997

 

[17]Junger-Tas & Ribeaud & Cryyff, Juvenile delinquency and gender, European Journal of Criminology, 1:3, 2004

 

[18]Mucchielli, Familles and Delinquances. Un bilan pluridisciplinaire des recherches francophones, Centre de Recherches Sociologiques sur le Droit et les Institutions Penales, Guyancourt, n. 86, 2000

 

[19]Lagazzi, La consulenza tecnica in materia di affidamento del minore. Il contributo del clinico alla tutela del minore nella vicenda giudiziaria della separazione e del divorzio, Giuffrè. Milano, 1994

 

[20]Palmonari, Psicologia dell'adolescenza, II Edizione, Il Mulino, Bologna, 1997

 

[21]Romano, Ciclo di vita e dinamiche educative nella società postmoderna, Franco Angeli, Milano, 2009

 

[22]Stella, Difesa sociale e rieducazione del minore, CEDAM, Padova, 2001

[23]Costabile & Bellacicco & Bellagamba & Stevani, fondamenti di psicologia dello sviluppo, Editori Laterza, Roma/Bari, 2011

 

[24]Costabile & Bellacicco & Bellagamba & Stevani, op. cit.

 

[25]Cavallo, Ragazzi senza. Disagio, devianza e delinquenza, Mondadori, Milano, 2002

 

[26]De Leo & Patrizi & De Gregorio, L'analisi dell'azione deviante, Il Mulino, Bologna, 2004

 

[27]De Leo & Patrizi & De Gregorio, op. cit.

 

[28]Pietropolli Charmet, L'adolescente nella società senza padri, Unicopli, Milano, 1997

 

[29]Pietropolli Charmet, op. cit.

 

[30]Baraldi, Il disagio e le azioni a rischio tra i giovani, in Baraldi & Rossi (a cura di), La prevenzione delle azioni giovanili a rischio, Franco Angeli, Milano, 2002

 

[31]Baraldi, op. cit.

 

[32]Pira & Marrali, Infanzia, media e nuove tecnologie: strumenti, paure e certezze, Franco Angeli, Milano, 2007

 

[33]Pira & Marrali, op. cit.

 

[34]Mastropasqua & Pagliaroli & Totano, Minori stranieri e Giustizia Minorile in Italia. I Numeri pensati, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 2008

 

[35]Mastropasqua & Pagliaroli & Totano, op. cit.

 

[36]Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, Milano, 1981

 

[37]Becker, Outsiders, Saggi di sociologia della devianza, Torino, 1987

 

[38]Goffman, Asylums. Le istituzioni sociali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza, Einaudi, Torino, 1968

 

[39]Goffman, op. cit.

 

[40]Goffman, op. cit.

 

[41]Goffman, op. cit.

 

[42]Matza & Sykes, Techniques of Neutralization: A Theory of delinquency, traduzione italiana di Capuano, La delinquenza giovanile. Teorie ed analisi, Armando, Roma, 2010

 

[43]Matza & Sykes, op. cit.

 

[44]Glueck & Glueck, Unraveling juvenile delinquency, Harvard University Press, Cambridge, MA, 1950

 

[45]Glueck & Glueck, op. cit.

 

[46]Wolfgang & Figlio & Sellin, Delinquency in a bith cohort, University of Chicago Press, Chicago, 1972

 

[47]Tracy & Wolfgang & Figlio, Delinquency careers in two big cohorts, Plenum, New York, 1990

 

[48]Farrington, Key results from the first forty years of the Cambridge Study in delinquent development, in Thornberry & Khron, Taking stock of delinquency. An overview of findings from contemporary longitudinal studies, Kluwer Academic/Plenum Publisher, New York, 2003

 

[49]Farrington, op. cit.

 

[50]Maguin & Loeber, Academic performance and delinquency, in Tonry & Farrington (Eds.), Crime and Justice, Vol. 20, University of Chicago Press, Chicago, 1996

 

[51]Gatti, La delinquenza giovanile autorilevata in Italia. Entità del fenomeno e fattori di rischio. Rassegna italiana di Criminologia, anno I, n. 2, 2007

 

[52]Gatti, op. cit.

 

[53]Volpini & Frazzetto, La criminalità minorile. Strategie e tecniche per l'intervento e l'orientamento, Maggioli, Rimini, 2013

 

[54]Volpini & Frazzetto, op. cit.

 

[55]Gatti, op. cit.

 

[56]Rutter, I disturbi psicosociali dei giovani, Sfide per la prevenzione, Armando, Roma, 2002

 

[57]Elliott, Presidential address – serious violent offenders: Onset Developmental course and termination, Criminology, 32, 1994

 

[58]Merzagora Betsos, Lezioni di Criminologia. Soma, psiche, polis, CEDAM, Padova, 2002