L'atto dovuto" tra garanzia processuale e tutela dell'operatore di polizia

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L'atto dovuto" tra garanzia processuale e tutela dell'operatore di polizia

 

Nella quotidiana dialettica tra giustizia e sicurezza, pochi istituti hanno generato tanta confusione — e altrettanta frustrazione — quanto il cosiddetto atto dovuto, espressione che, nel lessico giornalistico e talvolta anche giudiziario, viene usata come sinonimo di “iscrizione obbligata” nel registro degli indagati.

In realtà, la formula non esiste nel Codice di procedura penale: è un’invenzione lessicale, un modo improprio di rappresentare l’obbligo, posto a carico del pubblico ministero dall’articolo 335 c.p.p., di iscrivere immediatamente ogni notizia di reato di cui venga a conoscenza. Ma — in claris non fit interpretatio — la norma è chiara: l’obbligo riguarda il registro delle notizie di reato, non quello delle persone indagate.

La differenza, solo in apparenza sottile, è invece sostanziale. Il comma 1-bis dello stesso articolo stabilisce che il nome dell’indagato venga iscritto soltanto “nel momento in cui emergano indizi di reità”. È qui che il sistema, nella prassi, si incrina.

La prassi, infatti, ha ribaltato la logica del Codice: laddove non vi siano ancora indizi, ma solo l’esigenza di compiere accertamenti irripetibili (autopsie, perizie balistiche, rilievi sul posto), il pubblico ministero, per autotutela, iscrive “per atto dovuto” chiunque sia coinvolto — compresi gli operatori di pubblica sicurezza che abbiano agito nell’adempimento del dovere o in legittima difesa.

Nasce così un paradosso tutto italiano: la legge non impone alcun automatismo, ma la prassi lo ha creato. E come spesso accade, ubi cessat ratio, cessat ius.

La ratio originaria era quella di assicurare il diritto di difesa: meglio un’iscrizione tempestiva — si dice — che un’accusa senza garanzie. Ma il risultato è divenuto l’opposto: un meccanismo che, anziché garantire equilibrio, rischia di esporre ingiustamente chi agisce per conto dello Stato a un immediato scrutinio giudiziario e mediatico.

È in questo contesto che si colloca la recente proposta di legge avanzata da alcuni parlamentari, volta a “sospendere” l’iscrizione per sette giorni, nei casi che vedano coinvolti gli operatori delle forze dell’ordine e sia ravvisabile una causa di giustificazione.

Letta frettolosamente, la norma parrebbe animata da buone intenzioni: introdurre una zona di riflessione, un tempus deliberandi che consenta al pubblico ministero di verificare se davvero vi sia materia di reato.

Tuttavia, come spesso accade nelle costruzioni normative nate più da impulso politico che da approfondimento tecnico, l’intento rischia di tradursi in un vuoto applicativo.

Il primo errore è concettuale: confondere il registro delle notizie di reato con quello degli indagati.

Il secondo è funzionale: fissare un termine di sette giorni per attività (si pensi a una perizia balistica o a un’autopsia) che raramente possono compiersi in tempi così stretti.

Il risultato è prevedibile: trascorsi i sette giorni, il pubblico ministero si troverà costretto a iscrivere comunque l’agente, con l’unico effetto di differire — non evitare — la formalizzazione dell’indagine. Fiat iustitia, pereat mundus, ma in differita di una settimana.

La vera anomalia, tuttavia, non è nel testo della proposta, bensì nella radice culturale del problema: una prassi che, nel tempo, ha trasformato l’iscrizione da strumento di garanzia in mezzo di cautela procedurale, spesso adottato anche in assenza di indizi effettivi.

Il legislatore avrebbe potuto — e dovuto — intervenire sull’avverbio “immediatamente” del primo comma dell’articolo 335, introducendo una deroga per i casi in cui appaia sin da subito evidente una causa di giustificazione. Si sarebbe così potuto contemperare il diritto di difesa con l’esigenza di evitare un discredito preventivo nei confronti di chi esercita funzioni di pubblica sicurezza, preservando nel contempo la libertà d’indagine del pubblico ministero.

Una soluzione ancora più razionale, e costituzionalmente equilibrata, sarebbe quella di consentire all’operatore coinvolto di partecipare agli accertamenti irripetibili tramite il proprio difensore e un consulente tecnico di fiducia, senza che ciò implichi l’immediata assunzione della qualità di indagato.
Una simile previsione — da accompagnare con l’estensione del gratuito patrocinio per le spese legali in tali casi — garantirebbe sia la genuinità dell’atto sia la serenità di chi opera nell’interesse della collettività, pro salute rei publicae.

Naturalmente, ciò non significa mettere in discussione la necessità di assicurare tempestività e trasparenza nell’iscrizione delle notizie di reato, principi che restano fondamentali per la tutela della persona offesa e per la corretta conduzione dell’indagine. Il punto è evitare che la garanzia si trasformi in automatismo, e che l’obbligo diventi un riflesso condizionato.

Il dibattito sull’atto dovuto, in fondo, non riguarda solo un tecnicismo processuale: tocca il nucleo del rapporto di fiducia fra lo Stato e chi lo rappresenta nelle funzioni di sicurezza.

In un ordinamento che ambisce a essere liberale e garantista, la giustizia non può trasformarsi in un meccanismo di sospetto preventivo verso chi tutela la sicurezza pubblica, né, al contrario, in uno scudo indiscriminato per chi sbaglia.

Il giusto mezzo — in medio stat virtus — sta nel ricondurre l’iscrizione nel suo alveo naturale: strumento di garanzia, non di timore. Solo così la legalità potrà tornare a essere percepita come un patto di lealtà reciproca, fondato sulla fiducia tra chi amministra la giustizia e chi ne assicura l’attuazione sul campo.