Alcune considerazioni de iure condito e de iure condendo sulla vicenda di “Zia Martina” e sulla tenuta dell’art. 609-quater c.p.

minorenne
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Alcune considerazioni de iure condito e de iure condendo sulla vicenda di “Zia Martina” e sulla tenuta dell’art. 609-quater c.p.

 

La recente vicenda giudiziaria della cosiddetta maestra dei quindicenni”, assolta con la motivazione che “il fatto non costituisce reato” in quanto i ragazzi coinvolti avevano più di quattordici anni e la donna non rivestiva un ruolo di autorità nei loro confronti, ha destato sconcerto nell’opinione pubblica e stimolato una riflessione, più etica che giuridica, sulla coerenza del sistema penale con i mutamenti dei costumi e delle relazioni sociali. Da questo caso nasce l’esigenza di interrogarsi non tanto sulla moralità della condotta – che resta estranea alla logica punitiva – quanto sulla tenuta assiologica di un impianto normativo che, nel suo equilibrio originario, pare oggi incapace di intercettare fenomeni sociali che ne erano, in origine, estranei.

Il codice penale, nella sua attuale formulazione, distingue in modo netto tra l’ipotesi del minore di quattordici anni, per il quale il consenso è giuridicamente irrilevante, e quella del minore infra-sedicenne, la cui protezione opera solo in presenza di un rapporto di educazione, vigilanza o custodia. Tale struttura discende direttamente dal Codice Rocco del 1930, il quale – pur risentendo della visione autoritaria e patriarcale del tempo – seppe trovare una soluzione “salomonica” tra l’esigenza di tutelare la libertà sessuale dei minori e quella di non criminalizzare i rapporti tra adolescenti. Nella società dell’epoca, l’ipotesi di una donna adulta che intrattenesse rapporti con un adolescente era socialmente inconcepibile: il legislatore immaginava il maschio adulto come autore e la giovane come vittima. La stessa tipizzazione delle fattispecie, d’altronde, si innestava in una cultura giuridica che concepiva la sessualità femminile come bene da proteggere e non come manifestazione di autodeterminazione. È solo in tempi recenti che la parità di genere – almeno sul piano formale – ha imposto un’interpretazione neutra dei reati sessuali, sicché la figura della donna autrice del reato non è più un’anomalia, ma una possibilità concreta.

Una parte della dottrina più autorevole – da Fiandaca e Musco a Mantovani – ha avvertito il limite storico di tale impostazione, suggerendo di valorizzare clausole elastiche quali “l’abuso di vulnerabilità” o la “disparità di forza relazionale” come criteri integrativi della tipicità. Tuttavia, tale prospettiva presta il fianco a un’obiezione radicale di sistema: il principio di legalità, nella sua accezione moderna di lex certa, non tollera che la punibilità dipenda da valutazioni ex post affidate alla discrezionalità giudiziale. Nullum crimen sine lege stricta: la norma penale deve offrire parametri prevedibili ex ante, consentendo al consociato di conoscere le conseguenze della propria condotta. Una clausola che affidi al giudice il compito di stabilire di volta in volta quando la vulnerabilità sia abusata” rischia di trasfigurare il diritto penale da sistema di garanzie a strumento di moralizzazione postuma.

Muovendo da queste premesse, la soluzione qui prospettata mira a coniugare certezza del diritto e tutela effettiva del minore, introducendo un meccanismo di consenso rafforzato. Si potrebbe prevedere, ad esempio, che qualora l’autore del fatto abbia compiuto i trent’anni, il consenso del minore infra-sedicenne si presuma mancante, salvo prova contraria della piena libertà e consapevolezza del minore. Tale costruzione mantiene la determinatezza normativa (la soglia d’età è chiara e predeterminata), ma riconosce che la notevole disparità d’età costituisce, di per sé, un indice di potenziale influenza o condizionamento. Peraltro la proposta de qua non implicherebbe una riscrittura integrale dell’art. 609-quater c.p., ma un suo completamento mediante l’introduzione di un comma aggiuntivo che preveda una presunzione legale di mancanza di consenso nei casi di marcata disparità d’età. Una simile impostazione trova conforto anche in esperienze sovranazionali: la legislazione tedesca (§182 StGB), quella austriaca (§207b StGB) e i modelli canadesi di age gap clause muovono tutti nella direzione di una presunzione legale di vulnerabilità. Né va dimenticata la Convenzione di Lanzarote del 2007, che sollecita gli Stati a introdurre misure volte a prevenire l’abuso sessuale dei minori anche quando il consenso appaia formalmente prestato.

Sul piano assiologico, tale proposta risponde all’esigenza di un diritto penale che, pur restando extrema ratio, non rinunci alla propria funzione di presidio dei valori fondamentali in una società in continua trasformazione. Il diritto non può cristallizzarsi in formule concepite per un mondo che non esiste più, né può diventare strumento di supplenza morale. Tempora mutantur, et nos mutamur in illis: spetta al legislatore, non al giudice, aggiornare il confine tra lecito e illecito, affinché la norma resti chiara, prevedibile e giusta. E affinché nessuna “maestra dei quindicenni” possa ancora rifugiarsi dietro un anacronismo normativo per giustificare ciò che, prima ancora che diritto o reato, è uno strappo nella coscienza civile. Sebbene la vicenda metta in luce i limiti della legge e l’imprevedibilità dei comportamenti umani, res ipsa loquitur: l’assoluzione in sede penale non annulla l’illecito disciplinare. La condotta resta gravemente incompatibile con i doveri di moralità e decoro che la funzione docente esige, come sancito dal codice deontologico del personale scolastico. Ne consegue che appare altamente improbabile che la protagonista possa reintegrarsi nei ranghi dell’amministrazione, e la tanto vituperata scuola pubblica può almeno considerarsi preservata da un ulteriore vulnus.

Bibliografia essenziale:

  • Fiandaca G. – Musco E., Diritto penale. Parte speciale, Vol. I, Zanichelli.
  • Mantovani F., Diritto penale. Parte speciale, Cedam.
  • Convenzione di Lanzarote, 2007.
  • Codice penale, art. 609-quater.