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Il   minorenne   “capace   d'intendere   e   di   volere”

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Il   minorenne   “capace   d'intendere   e   di   volere”

La nozione di “capacità d'intendere e di volere”

L'Art. 85 CP afferma che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. E' imputabile chi ha la capacità d'intendere e di volere “. Frosali (1958) propone un'interpretazione eminentemente psicologica del predetto Art. 85 CP, ovverosia “si ha imputabilità psichica quando esiste autonomia psichica, intesa come processo volitivo che ha il normale decorrere comune alla media degli uomini, esclusa quella necessità psichica determinata da cause psico-patologiche“. Viceversa, Antolisei (2000) propone una visione più sociologico-giuridica della capacità d'intendere e di volere ex Art. 85 CP, la quale va intesa come “l'idoneità del soggetto a rendersi conto del valore sociale dell'atto che compie, con la precisazione che il rendersi conto del valore sociale del proprio comportamento non ha nulla a che fare con la coscienza [tecnica] della illiceità penale del fatto. Per cui, non è necessario che l'individuo sia in grado di giudicare che la sua azione è contraria alla legge: basta che possa genericamente comprendere che essa contrasta con le esigenze della vita in comune“. Dunque, Antolisei (ibidem) concentra la propria esegesi dell'Art. 85 CP sulla c.d. “capacità di autodeterminarsi“, che è la capacità di reprimere uno stimolo istintivo anti-sociale e, per conseguenza, anti-ordinamentale.

Dal canto loro, Fiandanca & Musco (1989) postulano una radicale unitarietà della capacità d'intendere e di quella di volere, in tanto in quanto il normale soggetto imputabile sa “intendere“ la negatività dell'atto, ma è anche capace di “voler“ evitare l'infrazione, dominando, quindi, i propri impulsi. Pure secondo Sabatini (1946), l'individuo sano intende volendo, e viceversa, poiché “la capacità d'intendere e la capacità di volere sono facoltà mentali strettamente connesse fra di loro, per cui, sebbene, in teoria, i due concetti possono essere distinti uno dall'altro, in concreto difficilmente la compromissione dell'una non si rifletterà sull'altra“. In effetti, la persona normodotata è capace sia d'intendere il potenziale errore, sia di evitarlo interrompendo l'impulso. L'individuo capace sia d'intendere sia di volere comprende di non poter volere per ragioni di opportunità sociale, pur se taluni, nella fattispecie della semi-infermità mentale “vogliono“ a causa della mancanza di freni auto-inibitori. Rimane, tuttavia, il problema della variabile kantiana del “sentimento“, che trova la sua espressione tipica nel “carattere“. L'Art. 90 CP stabilisce che “gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l' imputabilità“. Analoga è la ratio dell'Art. 108 CP in tema di “una speciale inclinazione al delitto, che trovi la sua causa nell'indole particolarmente malvagia del colpevole“. Analogamente, nei Lavori Preparatori al Codice Rocco (1929) si distingue, nell'ottica degli Artt. 90 e 108 CP, tra la capacità d'intendere e di volere e la diversa nozione di “pericolosità“ del reo spiccatamente e caratterialmente incline alla criminalità, ancorché psicologicamente imputabile.

Di diverso parere, invece, è Albamonte (1974), il quale tende ad attenuare la categoricità apodittica dell'Art. 90 CP, in tanto in quanto “gli stati emotivi e passionali, seppur, di norma, non influenti sull'imputabilità, possono [tuttavia], in alcune circostanze, provocare perturbazioni tali da raggiungere l'intensità di un'alterazione psichica idonea a scemare o ad escludere la capacità d'intendere e di volere“ Anche in Giurisprudenza, nel Novecento, si reputava invalidante soltanto lo “stato emotivo o passionale“ che coincidesse con una vera e propria “infermità mentale“. Ciononostante, l'inadeguatezza empirica dell'Art.  90 CP, in Dottrina, è stata denunziata apertamente da Ciannavei (2009), a parere del quale “bisogna ammettere che gli stati emotivi e passionali devono essere considerati anche ai fini di un accertamento dell'imputabilità, nel senso che quando da un tale stato emotivo sia derivato un vero e proprio sconcerto psichico, esso va considerato come una forma di infermità suscettibile di influenzare la capacità d'intendere  e di volere“. Un'apertura alla parziale contestazione dell'Art. 90 CP si rinviene pure in Cass., sez. pen. II, 22 gennaio 1973, in cui si stabilisce che “gli stati emotivi o passionali possono influire sull'imputabilità, quando, esorbitando dalla sfera psicologica, provochino una infermità mentale, anche transitoria, così da eliminare o attenuare la capacità d' intendere e di volere“. Tale rilevanza problematica ed ambigua degli stati “emotivi“ o “caratteriali“ compare pure nell'Art. 108 CP, giuridificante la figura del “delinquente per tendenza“. A tal proposito, i Lavori Preparatori al Codice Rocco (ibidem) precisano che “l'Art. 108 CP afferma la [piena] imputabilità di quei soggetti malvagi in cui l'assenza di disturbi dell'intelletto e della volontà si accompagna ad una profonda alterazione, che giunge alla soppressione del senso morale e sociale“. Ciononostante, tale “malvagia inclinazione al delitto“ non toglie la capacità d'intendere  e di volere, ex Art. 85 CP, poiché, come asserito da Cass., 29 ottobre 1965, “dal momento che il delinquente per tendenza [ex Art. 108 CP] è considerato dal nostro Codice Penale pienamente imputabile […] se ne deduce che il Legislatore non attribuisce alcun rilievo, ai fini del giudizio di imputabilità [ex Art. 85 CP], ad una insensibilità morale che [ex Art. 90 CP] non sia dovuta ad una vera e propria malattia mentale, confermando, in questo senso, anche [il vecchio, ndr] orientamento della Giurisprudenza“.

Di nuovo, il “carattere“ e la “malvagità d'animo“, negli Artt. 90 e 108 CP, non incidono sul grado della capacità d'intendere e di volere dell'imputabile. Nell'Art. 108 CP, la “carenza di senso morale“ è ininfluente al pari degli “stati emotivi o passionali“ ex Art. 90 CP. Pertanto, per usare la terminologia di svariati Precedenti di legittimità, nell'ottica del comma 2 Art. 85 CP, è imputabile, quindi reca in sé la capacità d'intendere e di volere, chi ha “maturità psichica“ unita a “sanità mentale“. La Giurisprudenza di Cassazione parla spesso anche di “adeguato sviluppo intellettivo“  e di “assenza di gravi anomalie psichiche“. Più dettagliatamente, sotto il profilo codicistico, dall'Art. 88 CP all'Art. 96 CP sono indicate le seguenti cause di esclusione dell'imputabilità: vizio totale di mente (Art. 88 CP), vizio parziale di mente (Art. 89 CP), ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore (Art. 91 CP), fatto commesso sotto l'azione di sostanze stupefacenti (Art. 93 CP), cronica intossicazione da alcol o da sostanze stupefacenti (Art. 95 CP) e sordomutismo (Art. 96 CP).


La ratio della “maturità“ del minorenne infrattore.

Molti interpreti reputano che l'espressione “capacità d'intendere e di volere“ rechi una valenza diversa, da un lato, nell'Art. 85 CP e, dall'altro lato, nel comma 1 Art. 98 CP, il quale disciplina una fattispecie specifica ed assai problematica e, quindi, non si limita alla generalità definitoria e sintetica di cui all'Art. 85 CP. D'altronde, anche Ciannavei (ibidem) sostiene che l'Art. 98 CP costituisca una norma speciale, mentre l'Art. 85 CP sarebbe una norma di natura generale, in tanto in quanto “se la capacità d'intendere e di volere richiesta dall'Art. 98 CP per l'imputabilità del minore fosse la stessa richiesta dall'Art. 85 CP, per l'imputabilità dell'adulto, l'Art. 98 CP sarebbe superfluo.

Molti, sia in Dottrina sia in Giurisprudenza, parlano di una “specifica“ capacità d'intendere e di volere del “minorenne“, il cui spazio di volizione è assai diverso da quello tipico dell'“adulto“ maggiorenne . A tal proposito, i Lavori Preparatori al Codice Rocco (ibidem) sostengono che “la capacità d'intendere e di volere del minore fra i quattordici ed i diciotto anni viene solitamente individuata nel concetto di maturità. Si tratta di un concetto molto vago, e anche molto controverso“. Provvidenzialmente, esistono svariati Precedenti di legittimità che, a partire dagli Anni Trenta del Novecento, hanno fornito una concreta fisionomia qualificatoria al lemma “maturità“. Si consideri pure, ad ogni buon conto, che il Codice Rocco ha, finalmente, soppiantato la ratio del “discernimento“ imposta dal Codice Zanardelli. Anzi, nel Lavori Preparatori al Codice Rocco (ibidem) si giunge ad asserire che la pregressa nozione di discernimento “va ritenuta come un elemento incerto, vago, al punto di fornire argomento a molte discussioni per fissarne il contenuto e l'estensione“.

Meno entusiasmati e più realisti, negli Anni Ottanta del Novecento, sono Ponti & Gallina Fiorentini (1983), a parere dei quali “nonostante le buone intenzioni, la Giurisprudenza e la Dottrina, individuando nel concetto di maturità il contenuto della capacità d'intendere e di volere, hanno riportato la situazione nella stessa indeterminatezza sussistente già con il Codice Zanardelli, rivelandosi tale termine [maturità] altrettanto vago e impreciso“. Ciononostante, la Suprema Corte, in oltre mezzo secolo, ha tentato egualmente di predisporre definizioni di matrice giurisprudenziale, nelle quali il lemma “maturità“ è associato ad espressioni molto efficaci, come “armonico sviluppo della personalità, … capacità di valutare adeguatamente i motivi degli stimoli a delinquere … dominio acquisito su se stessi … assimilazione delle regole morali e sociali in base ad un' autentica convinzione, e non per un processo d'imitazione formale“.

Pure nella Giurisprudenza di merito, non mancano apporti definitori pregevoli. P.e., Tribunale per i minorenni di Torino, 24 febbraio 1978 sostiene che la mancanza di “maturità“ coincide con una “difficoltà di autocontrollo unita ad un'aggressività collegata a sindrome abbandonica per precoce e lunga istituzionalizzazione“.

Molto utile è pure Tribunale per i minorenni di Firenze, 4 giugno 1975, a parere del quale la “non maturità“ è indice di “una estrema fragilità e labilità dell'io“. Come si può notare, anche l'esegesi della ratio della “maturità“ è quasi interamente delegata alla Giurisprudenza, che, purtroppo, attribuisce al Magistrato l'atipico ruolo di fonte di produzione del Diritto; sicché, le lacune del Legislatore vengono colmate, come sempre, da una Magistratura cui, formalmente, non dovrebbe competere tale ruolo. Ancor più numerose e variegate sono le interpretazioni di rango dottrinario, con afferenza al parametro della “maturità“. Anzitutto e giustamente, Bandini & Gatti (1999) respingono un approccio esclusivamente o prettamente medico, in tanto in quanto “il concetto di immaturità è altra cosa rispetto al vizio di mente: il minore può essere immaturo, ma perfettamente sano di mente“.

Viceversa, vi sono Dottrinari troppo legati alle Neuroscienze, i quali fanno prevalere gli apprezzamenti psichiatrici del CTU sulle decisioni di matrice giuridica spettanti solo e soltanto al Magistrato del merito. Purtroppo, specialmente negli Anni Duemila, non pochi Autori, in Dottrina, “medicalizzano“ l'infra-18enne imputato proponendo di continuo la tesi finale della (semi)infermità di mente. Svariati CTU pretendono di “psichiatrizzare“ il minorenne infrattore, sino al punto di voler totalmente vincolare il giudizio alla perizia psichiatrica, come se la Medicina potesse o, financo, dovesse, sostituirsi al Diritto Penale. Un argine al potere ipertrofico della psicopatologia forense è stato posto da Cass. pen, 19 novembre 1984, in cui si rimarca che la Psichiatria non deve acquisire un ruolo predominante, perché “l'Art. 98 CP fa riferimento alla situazione di un ragazzo clinicamente normale, dato che una deficienza clinica della personalità rientra nella diversa ipotesi del vizio di mente. L'eventuale incapacità d'intendere e di volere va distinta dall'infermità mentale e prescinde da una patologia nell'ambito intellettivo e volitivo […]. La realtà più recente ha mostrato l'insufficienza del paradigma psicologico a coprire tutte le ipotesi in cui un adolescente può o non può considerarsi imputabile. Ci sono infatti delle situazioni in cui il ragazzo, benché non sia rilevabile […] alcuna disfunzionalità della personalità, non ha raggiunto quel grado di coscienza morale che lo possa far ritenere imputabile. E' il caso del ragazzo cresciuto in un ambiente difficile, per esempio, a causa di una situazione familiare gravemente disgregata“. Finalmente, Cass., pen. 19 novembre 1984 ha avuto il coraggio di contrastare la dittatura della Psichiatria nel Procedimento Penale Minorile.

La Medicina non è la chiave universale ai fini di una corretta e compiuta applicazione dell'Art. 98 CP. Il Magistrato è tenuto ad impiegare anche altri ulteriori criteri in grado di fornire una spiegazione della criminogenesi minorile. Semmai, l'intervento dello psicoterapeuta sarà utile in fase di trattamento  penitenziario post judicatum. Pure Ciannavei (ibidem), in Dottrina, ha sfatato il mito fuorviante di una Psicologia onnipotente ed onnipresente, in tanto in quanto “l'uso di paradigmi sociologici è in grado di estendere la ricerca delle cause della devianza anche alle strutture socio-ambientali in cui il minore è cresciuto e la sua personalità si è sviluppata“ Ciannavei (ibidem) intende ricordare che il Magistrato di merito può e deve mantenere un suo margine di autonomia dal CTU. Il lemma “immaturità“ non necessariamente coincide con il parametro della “psicopatologia“. Secondo la Psicologia evolutiva, esistono almeno quattro livelli della “maturità“, ossia quello biologico, quello intellettivo, quello affettivo e quello sociale. Tali variabili sono tra di loro disgiunte, sicché è frequente, nell'infra-18enne, rinvenire una maturità biologica iper-sessualizzante, senza, però, che tale sessualizzazione precoce sia accompagnata dalla debita maturità affettiva. Fornari (1997) sottolinea che, nell'adolescente, la maturità biologica è quasi scontata, dal momento che, soprattutto nelle  infra-18enni femmine, essa consta “in un armonioso sviluppo del corpo“. Sempre secondo Fornari (ibidem), altrettanto diffusa è la maturità intellettiva, soprattutto nel caso dei nativi digitali, che assorbono discretamente bene gli stimoli culturali.

Più difficile, invece, è il raggiungimento della maturità affettiva, che non coincide con al sessualizzazione, bensì con “la capacità che i/ la ragazzo/a sviluppa nel controllare le pulsioni  e nell'integrare le emozioni“ Infine, il predetto Autore reputa che “la maturità sociale può essere misurata attraverso la capacità di adattamento (non di conformismo) alla realtà“. L'essenziale, nella valutazione personologica dell'infrattore minorenne, è non confondere la maturità “erotico-pulsionale“ con quella “affettiva“ e con quella “sociale“. P.e, nelle infra-18enni femmine, la sessualizzazione precoce non si accompagna mai ad uno sviluppo serio e concreto degli altri livelli di maturazione non-fisica. Anzi, per la verità, lo stesso Fornari (ibidem) riconosce, in tutta sincerità, che l'accertamento della eventuale “immaturità“ non è una formula matematica e sfugge di continuo a definizioni pre-costituite. Molto, infatti, dipende dallo specifico e concreto vissuto scolastico, sociale e familiare del minorenne. In effetti, anche Palomba (2002) conclude che “si ha l'impressione che ogni Tribunale agisca con suoi propri criteri particolari […] La mancata convergenza interpretativa su quanto richiesto come condizione di imputabilità ha reso discrezionale, in modo abnorme, tutto il percorso valutativo, dando alle tendenze culturali di ogni singolo Magistrato il compito di definire in concreto il significato e gli elementi indice della maturazione adeguata del minore“.

P.e., già nel Novecento, Barsotti & Calcagno & Losana & Vercellone (1975) hanno evidenziato che “il dato preoccupante che interessa mettere in evidenza concerne la differenza di comportamento tra una zona territoriale e l'altra, tale che la maturità è stata definita da alcuni come una variabile geografica. Infatti, i giudici hanno assolto ex Art. 98 CP il 32 % dei ragazzi giudicati nell'Italia del nord, nell'Italia centrale il 5 %, nell'Italia meridionale l'8,5 % e nell'Italia insulare l'8 %. Si passa da un 60,3 % di assolti per incapacità d' intendere e di volere dal Tribunale di Milano allo 0,2 % di Napoli, differenza che mal si giustifica con una presunta immaturità dei ragazzi settentrionali rispetto ai loro più svegli fratelli meridionali“. Dunque, l'interpretazione del lemma “maturità“, nell'ottica del comma 1 Art. 98 CP, è assai controversa. Un approccio di tipo biologico comporterebbe il ritorno all'eugenetica anti-democratica di Lombroso; un approccio psicologico rischia di divinizzare, in modo apodittico, le perizie psichiatriche; infine, un approccio meramente socio-ambientale rischia di indebolire la personalità, seppur condizionata, della responsabilità penale ex comma 1 Art. 27 Cost. . D'altronde, è altrettanto erroneo imputare le colpe personali del minorenne ad una “società ingiusta“. Il rischio è quello di addivenire ad un abolizionismo non equo e non riparativo.


La valutazione giuridico-criminologica dell'imputabilità dell'infra-18enne.

Nella valutazione del binomio maturità/immaturità, si devono applicare sia parametri normativi sia criteri meta-normativi di matrice puramente criminologica. In particolar modo, Roli (1996) ha inteso precisare che “molteplici aspetti della vita e della psiche del ragazzo possono risultare idonei a farlo apparire un incapace. Di fronte all'ampiezza [eccessiva] sia concettuale sia interpretativa del concetto di maturità/immaturità, si è cercato di individuare […] dei parametri di riferimento […]. Vengono, in particolare modo, presi in considerazione l'età dell'imputato, la natura del reato, la dinamica dell'azione criminosa e il comportamento processuale“

Per quanto afferisce alla ratio della “età“ dell'imputato, come prevedibile, la non imputabilità è maggiore con il diminuire dell'età. A tal proposito, Cass., sez. pen. I, 23 marzo 1988, sostiene che “mentre gli imputati di 14 anni sono, in via generale, dichiarati [spesso] incapaci d'intendere e di volere, quelli che si trovano alla soglia dei 18 anni sono dichiarati immaturi solo in presenza di palesi carenze intellettive, affettive o sociali“. Trattasi di una regola empirica non assoluta, ancorché affidabile nella Prassi giudiziaria quotidiana. Parimenti, sotto il profilo psico-evolutivo, Cass., sez. pen. I, 10 novembre 1987 rimarca che “molto dipende a seconda che il reato sia stato commesso nella prima adolescenza o verso la seconda adolescenza […] L'esame della maturità mentale del minore va compiuto senza trascurare di considerare i tempi di commissione del fatto commesso e di cui il minore è imputato […] [Bisogna analizzare] l'arco evolutivo della personalità del soggetto, con un maggiore rigore valutativo, allorché il fatto si collochi nella fase finale dell'età evolutiva“.

Un secondo parametro è costituito dalla qualità, dunque dalla gravità, del reato. P.e., anche nel caso dell'infrattore maggiorenne, si tiene conto, ex comma 1 Art. 133 CP, dell'intensità del dolo, della gravità del delitto e della destrezza criminale dimostrata dal soggetto agente. Del resto, pure Bandini & Gatti (1987) esortano a “relativizzare“ il reato, a seconda della natura bagatellare o, viceversa, estremamente anti-sociale del delitto commesso o del pericolo provocato. Tale applicazione del comma 1 Art. 133 CP alle infrazioni minorili è reputata imprescindibile anche da Cass., pen., 9 aprile 1980, giacché “l'incapacità d'intendere e di volere ha carattere relativo, nel senso che, trattandosi di una qualificazione fondata su elementi non soltanto bio-psichici, ma anche socio-pedagogici, relativi all'età evolutiva, l'esame della maturità mentale del minore va compiuto con stretto riferimento al tipo di reato commesso“.

Dunque, tanto la Dottrina quanto la Giurisprudenza, impongono al Magistrato del merito un'instancabile e necessaria contestualizzazione del reato minorile. Ogni fattispecie processuale ha un proprio, specifico grado di gravità materiale. Anche l'Art. 111 Cost., in tema di “giusto processo“, prevede un esame accurato di tutte le concrete peculiarità oggettive del delitto commesso. Nessun Procedimento Penale, soprattutto se a carico di infra-18enni, reca una conclusione pre-definita o standardizzata. In Dottrina, Morello (1982) invita anch'egli a contestualizzare “la natura della trasgressione […]. Il processo di maturazione è variegato […] Esistono diversi livelli di maturità nello stesso individuo e nella stessa fase o stadio di sviluppo“. Come si può notare, Morello (ibidem) respinge l'idea di un Magistrato-calcolatrice che ometta di esaminare la soggettività del reo e la oggettività del reato ex Art. 133 CP. Del pari, nella Giurisprudenza di legittimità, Cass., sez. pen. I, 3 maggio 1979 nonché Cass., sez. pen. I, 12 gennaio 1979 precisano che il peso di un omicidio volontario o di una rapina non è eguale a quello di un reato bagatellare o di una semplice fattispecie contravventiva. Per conseguenza, il Magistrato del merito è tenuto a valutare il minorenne alla luce di tutti i parametri sia giuridici si a criminologici, idonei a spiegare il grado di gravità del reato commesso. Il giudice ha il dovere di esaminare la personalità dell'imputato infra-18enne nella sua integralità.

Nel caso del reo minore degli anni 18, l'operatore giudiziario deve esaminare tutti i fattori criminogeni che hanno condotto il soggetto agente ad infrangere la pacifica convivenza sociale. Soprattutto nel Diritto Penale Minorile, i Codici non sono sterili teoremi geometrici che prescindono dall'esame dell'intero vissuto dell'adolescente. P.e., si pensi alla fattispecie dell'ultra-13enne agiato e ben  educato, il quale manifesterà esigenze rieducative diverse da quelle del coetaneo proveniente da un quartiere periferico malfamato e ontologicamente diseducativo. Anzi, secondo Cass., sez. pen. I, 15 maggio 1979, l'immaturità si manifesta anche nella tipologia del reato consumato, giacché “l'imputabilità di uno stesso soggetto può essere ritenuta per alcuni reati ed esclusa per altri, in considerazione della maggiore o minore avvertibilità del disvalore etico-sociale del reato e dell'immoralità secondo il comune modo di sentire“. In effetti, la imputabilità per uno stupro, ad esempio, segue parametri di misurazione diversi da quelli utili per valutare un semplice atto di vandalismo. Oppure ancora, Cass., sez. pen. I, 11 luglio 1979 afferma che, nella fattispecie dell' omicidio volontario, l'ultra-13enne potrà, o, viceversa, non potrà manifestare una capacità d'intendere e di volere che nulla ha a che fare con la maturità richiesta dall'Art. 98 CP nel caso di un semplice furto. Ex comma 1 Art. 98 CP, non esiste mai “la“ capacità d'intendere e di volere, bensì “un grado“ di capacità d'intendere e di volere. Pure Barcellona (1973) ribadisce la costante, assoluta, necessaria indispensabilità di contestualizzare la condotta infrattiva minorile, nel senso che “sussiste l' esigenza che l'accertamento del giudice di merito, circa l'imputabilità del minore, non venga effettuato astrattamente, in base al semplice esame della personalità e della condotta, ma tenga anche, e soprattutto, conto del fatto commesso e della sua natura [bagatellare o meno]“.

Secondo Barcellona (ibidem), l' unico caso pacifico di non imputabilità si verifica “nell' ipotesi in cui si scoprano anomalie psichiche“. Per il resto, la Dottrina insiste sul fatto che il “minore“ non è quasi mai un c.d. “minorato“. P.e., nella fattispecie dell'omicidio volontario, molti psico-pedagoghi reputano che anche l'infra-14enne è già in grado di porre freni inibitori allorquando il bene giuridico da tutelare è costituito dalla vita umana e dall'integrità fisica altrui. Quindi, la non-imputabilità non scatta in maniera automatica di fronte ad ordinarie turbe dell'umore di matrice adolescenziale. L'adolescente, nella maggior parte dei casi valutati, è già in grado di valutare, con molta lucidità, l'anti-socialità e l'anti-giuridicità dei delitti contro la persona e contro la proprietà privata. Tuttavia, Ciannavei (ibidem) evidenzia che “soltanto in riferimento ai delitti più gravi, come l'omicidio volontario, si nota [nella Giurisprudenza della Cassazione] una certa stabilità nel correlare il reato all'imputabilità [piena]. Nel caso, però, di omicidio volontario, tentato o consumato, nei confronti dei propri familiari, si riscontra una certa tendenza al proscioglimento per immaturità“ Meno indulgente è Cass., sez. pen. I, 13 febbraio 1981, nel senso che “la maturità di un soggetto può essere desunta anche dalla dinamica dell'azione. Certamente, infatti, l'attenta programmazione del reato e l'uso di strumenti di un certo tipo possono servire come indizi di imputabilità […]. [Ovverosia] è chiaramente indicativa del completo sviluppo psichico e dell'assoluta padronanza delle proprie facoltà, intellettive e volitive, l'insidiosità dell'azione, la perfetta preventiva organizzazione e la fermezza del comportamento“. Viceversa, Roli (1996) si dissocia dall'equazione scaltrezza delinquenziale = maggiore maturità; infatti, a parere di tale Dottrinario, “desumere il requisito della capacità [d'intendere e di volere] dalla professionalità nel delinquere risulta spesso gratuito e può, inoltre, dare adito ad affermazioni prossime al paradosso, specie qualora la maturità o l'immaturità dell'imputato [infra-18enne  sia esplicitamente correlata al parametro dell'abilità delinquenziale. E' solitamente considerato maturo l'adolescente con buone attitudini al reato, e immaturo il compagno meno abile, come se la più ridotta inclinazione a realizzare illeciti potesse, di per sé, assurgere a sintomo di una generale immaturità“. Gli asserti criminologici di Roli (ibidem) risultano particolarmente preziosi nella fattispecie dei/delle minorenni rom, sulla cui maturità,  a parere di chi redige, incidono svariati e complessi parametri socio-etnico-culturali.

Assai interessante, alla luce del comma 1 Art. 98 CP, è pure la variabile del comportamento processuale dell'imputato in età adolescenziale. Secondo Cass., sez. pen. I, 14 ottobre 1987, “ai fini del giudizio circa l'imputabilità può essere sufficient l' osservazione diretta del comportamento tenuto dal minore in aula […] Ogni aspetto della sua condotta processuale – sia la comunicazione verbale, sia i gesti, la posizione del corpo, l' espressione del viso, le pause, le cadenze della voce e simili – può essere valutato come sintomatico della sua personalità : impulsivo, controllato, timido, sfrontato“. Analogo è pure il parere di Cass., sez. pen. II, 28 marzo 1978.

Come prevedibile, ognimmodo, sono insufficienti i soli parametri dell'età, della gravità del reato, della dinamica dell'azione criminosa e del comportamento processuale. Infatti, giustamente, Pellegrino (2005) ricorda che “ciascun criterio non può valere come regola autonoma di accertamento della maturità [ex Art. 98 CP], dovendo, invece, essere valutato insieme agli altri parametri ed unitamente allo stato di crescita fisica e psichica del minore, e ad ogni altra circostanza del caso concreto che risulti significativa. Quindi, al fine di un'adeguata motivazione sul punto della capacità, il giudice deve valutare tutti gli indicatori ad essa correlati, collegandoli gli uni agli altri, e considerandoli in rapporto vai modelli comportamentali del gruppo e della famiglia del minore ed ai fattori biologici, psicologici e socio-culturali ed educativi“. Rimane, poi, il fattore psicologico, ma, di nuovo, chi scrive intende pronunziare il proprio, fermo “j'accuse“ nei confronti delle Neuroscienze contemporanee, le quali riducono l'anti-socialità e l'anti-giuridicità dell'infra-18enne ad una serie erronea di secrezioni ormonali nel cervello. E' assurdo ipostatizzare l'approccio medico senza poi analizzare altri parametri, come la precarietà abitativa o gli insuccessi scolastici infantili. L'ultra-13enne infrattore non è un malato da curare, bensì un giovane cittadino da re-inserire nella società. Lo psichiatra CTU deve assistere il Magistrato del merito, non sostituirlo. La colpevolezza giuridicamente intesa non è sempre e comunque epifenomeno di disagio mentale

B I B L I O G R A F I A

 

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