Tossicodipendenza ed incapacità d'intendere e di volere

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Tossicodipendenza ed incapacità d'intendere e di volere

 

La nozione di “incapacità naturale”

Nei Lavori Preparatori del Codice Civile del 1942, l'incapacità naturale è decritta come una “inettitudine” della persona a gestire la sfera dei propri beni materiali ed immateriali. A tal proposito, l'Art. 428 CC giuridifica le conseguenze degli “Atti compiuti dalla persona incapace d'intendere e di volere”. In Dottrina, Pescara (1982/1984)[1] distingue tra l'incapacità naturale e quella legale, ovverosia “l'incapacità naturale si differenzia dall'incapacità legale, in quanto quest'ultima è una situazione di diritto cui consegue l'annullabilità di tutti gli atti posti in essere dall'agente, mentre l'incapacità naturale viene considerata dal Diritto come situazione di fatto, nell'ottica di una protezione occasionale. [Nella Prassi] l'incapacità legale corrisponde ad un istituto giuridico fondato sull'interdizione, che tutela il soggetto inidoneo alla cura dei propri interessi, prevedendo [ex Art. 428 CC] l'annullabilità di tutti gli atti compiuti senza l'assistenza del tutore. Viceversa, l'incapace naturale dovrà, volta per volta, provare le sue condizioni psicofisiche”.

Sotto il profilo storico, Rescigno (1950)[2] osserva che “il Codice [civile] del 1865, che per le donazioni e per il testamento prevedeva norme specifiche (Artt. 763 n. 3 CC e 1052 CC), non conteneva una disciplina generale dell'incapacità naturale; gli atti compiuti dal soggetto incapace, ma non interdetto, venivano considerati assolutamente invalidi per difetto del requisito essenziale del consenso”. Viceversa, come messo in evidenza da Meo (1957)[3], “il Legislatore del 1942 ha inteso sopperire alle carenze del vecchio Codice, ri-disciplinando l'intera materia e prevedendo, in via generale, l'annullabilità, anziché la nullità, degli atti compiuti in stato di incapacità naturale, volendo così contemperare la tutela dell'incapace con quella dei terzi che intrattengono rapporti giuridici con un soggetto delle cui incapacità psichiche siano ignari”. E' utile pure sottolineare che l'Art. 428 CC invita il Magistrato alla tassativa e costante “contestualizzazione” degli atti negoziali dell'incapace. Più nel dettaglio, Cass., sez. civ. I, 20 febbraio 1984, n. 1206 afferma che “l'Art. 428 CC, relativamente alle cause generatrici dell'incapacità naturale, con una previsione assai ampia, dice che a determinarla possa essere una qualsiasi causa, anche transitoria, sempre che incida sulle facoltà di discernimento e di volizione. E' devoluto [pertanto] al giudice il compito di delimitare, caso per caso, tale previsione, che potremmo definire in bianco, in relazione alla concreta e complessa personalità del soggetto”.

Ecco, di nuovo, il ruolo fondamentale del Magistrato, che, lungi dall'essere un calcolatore automatico, è tenuto a valutare l'intero contesto in cui si è svolta la fattispecie negoziale. P.e., sempre ex Art. 428 CC, Cass., sez. civ. II, 25 ottobre 1986, n. 6 precisa che “poiché [ex Art. 428 CC] l'incapacità richiesta può essere anche transitoria, si differenzia da quella necessaria ai fini dell'interdizione, che risulta, invece, qualificata dall'attributo abituale”. In effetti, in tema di infermità mentale permanente, l'Art. 414 recita che “il maggiore di età ed il minore emancipato i quali si trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, devono essere interdetti”. Dunque, torna il binomio incapacità necessaria ex Art. 414 CC ed incapacità facoltativa e non abituale ex Art. 428 CC. Tale minore incisività precettiva dell'Art. 428 CC rispetto alla necessarietà permanente dell'Art. 414 CC è rimarcata anche da D'Innella (1987)[4], in tanto in quanto “l'infermità richiesta dall'Art. 428 CC necessita di un'analisi [del Magistrato, caso per caso, ndr] che vede la vita del soggetto in una sezione trasversale, essendo superflua un'indagine sul futuro. Tutt'al più, può rilevare l'immediato passato e l'immediato futuro, al solo fine di stabilire se il soggetto, al momento del compimento dell'atto, era incapace d'intendere e di volere, qualora non sia possibile dimostrare tale incapacità nel preciso momento dello svolgimento dell'attività giuridica”.

Del pari, Cass, sez. civ. II, 16 marzo 1990, n. 5240 mette in risalto l'abitualità della turba psichica nell'Art. 414 CC e, dall' altro lato, l'occasionalità della mancanza d'intendere e di volere di cui all'Art. 428 CC. Similmente, anche Cass., sez. civ. II, 6 agosto 1990, n. 7914 nonché Cass., sez. civ. II, 16 marzo 1990, n. 2212 evidenziano che, nell'Art. 414 CC, è richiesta la “abituale [ed irreversibile, ndr] infermità”, mentre, nell'Art. 428 CC, è il Magistrato a valutare, caso per caso, la presenza o l'assenza della “capacità di provvedere autonomamente ai propri interessi”. Infatti, sempre con afferenza all'Art. 428 CC, Cass., sez. civ. II, 4 novembre 1983, n. 6506 asserisce che l'Art. 428 CC risulta meno drastico e pesante dell'Art. 414 CC, poiché “[ex Art. 428 CC] ai fini dell'annullamento di un atto o di un contratto, non è necessaria un'incapacità totale ed assoluta, ma è sufficiente che le facoltà intellettive risultino scemate, in modo da impedire ed ostacolare una seria valutazione dei propri atti o la formazione di una volontà cosciente”.

Siffatta differenza tra l'infermità “abituale” (Art. 414 CC) e quella “occasionale” (Art. 428 CC) è ribadita pure da Cass., sez. civ. II, 16 dicembre 1983, n. 7421, Cass., sez. civ. II, 12 ottobre 1985, n. 4955, Cass., sez. civ. II, 25 ottobre 1986, n. 6271, Cass., sez. civ. II, 6 aprile 1987, n. 3321, Cass., sez. civ. I, 18 febbraio 1989, n. 969 nonché da Cass., sez. civ. II, 12 luglio 1991, n. 7784. Viceversa, in epoca attuale, la Giurisprudenza di legittimità ha rigettato l'ipotesi di Cass., sez. civ. II, 10 febbraio 1995, n. 1484, secondo cui l'Art. 428 CC andrebbe applicato anche in caso di “infermità mentale abituale”.

Parimenti, in Dottrina, Di Cagno (1955)[5] specifica che “nell'Art. 428 CC non rientrano solo i casi di totale soppressione della capacità di determinarsi coscientemente, ma anche quelli in cui il soggetto presenti un'insufficiente capacità di autodeterminarsi a causa di un anormale stato psichico. Torna, quindi, quella ratio di infermità “non abituale” che sta alla base della necessaria distinzione tra la “assolutezza” dell'Art. 414 CC e la “relatività” dell'Art. 428 CC, la cui applicazione dipende, di volta in volta, dall'analisi “contestualizzatrice” del Magistrato. Nell'Art. 428 CC, l'handicap non è totalizzante e va giudicato fattispecie per fattispecie. L'occasionalità, nell'Art. 428 CC, della turba psichica transitoria è messa in risalto pure da Cass., sez. civ. I, 17 marzo 1969, n. 853, giacché “[grazie all'Art. 428 CC] si dà rilievo, oltre che alle vere e proprie infermità patologiche della psiche, anche agli stati di offuscamento psichico dovuto ad ipnosi o sonnambulismo, e l'elenco delle cause si allunga se consideriamo che anche un turbamento della sfera emozionale ed affettiva del soggetto può essere rilevante se comporta un'alterazione psichica tale da condizionare gravemente la facoltà d'intendere e di volere”.

Anzi, a parere di chi redige, gli “stati emotivi e passionali” di cui all'Art. 90 CP[6] possono provocare infermità mentali transitorie, a prescindere dall'ormai inutilizzabile disposizione enunziata dal medesimo Art. 90 CP. Analoga osservazione vale pure per quei gravi disturbi del carattere che, ai sensi del DSM-V, cagionano incapacità giuridica. Dal canto suo, invece, Cass., sez. civ. I, 17 marzo 1969, n. 853 non riconosce precettività al disturbo del carattere  ed afferma, erroneamente, che “le alterazioni che non attengono alle capacità intellettive e volitive, ma solo alla sfera del carattere, non assumono rilievo autonomo, salvo che incidano sull'attitudine del soggetto a determinarsi in base ad atti di volontà cosciente”.

Oggi, tali asserti sono stati completamente superati dall'odierna psichiatria forense. All'opposto, pionieristica e controcorrente è stata Cass., sez. civ. II, 25 febbraio 1959, n. 2702, la quale ammette la sospensione temporanea della capacità d'intendere e di volere anche “nel caso di gracilità di mente e suggestionabilità”. D'altra parte, non solo gli Artt. 414 e 428 CC, ma anche gli Artt. 85[7], 88[8] ed 89[9] CP impiegano una nozione “allargata” di infermità/seminfermità mentale. Ciò alla luce delle neuroscienze, le quali riconoscono l'incapacità d'intendere e di volere non soltanto a motivo di gravi patologie psichiche palesemente invalidanti. Esistono pure “spinte emozionali” che fanno “scemare grandemente” la capacità di autodeterminarsi, soprattutto in età adolescenziale. Oppure ancora, nella Giurisprudenza di merito, Tribunale di Padova, 31 dicembre 1987 ha sentenziato che “tra le cause dell'incapacità, la Dottrina civilistica suole, ormai comunemente, annoverare l'uso di alcolici o di stupefacenti”.

Attualmente, anche il DSM-V riconosce senza remore il potenziale invalidante del Disturbo da Uso di Sostanze (DUS), connesso, spesso e volentieri, al Disturbo Antisociale di Personalità (DAP). Anzi, Venchiarutti (1939)[10], in un'epoca dominata dal determinismo lombrosiano, giungeva a predicare “una sorta di correlazione meccanica fra tossicodipendenza [ed alcoldipendenza, ndr] ed incapacità d'intendere e di volere”. Torna, pertanto, una visione “larga” dei fattori psicofisici cagionanti un'invalidità mentale abituale, ma pure solamente transitoria. Con lodevole lungimiranza, Venchiarutti (ibidem)[11], in piena epoca fascista, ha avuto il coraggio di sostenere che, alla luce dell'Art. 428 CC, ma anche degli Artt. 85, 88 ed 89 CP, “l'incapacità transitoria […], nella vita di un individuo, può tornare alla luce, anche a distanza di tempo e in un momento di assoluta normalità psichica”. In effetti, nella Criminologia contemporanea, sono ammessi momenti di non-lucidità psichica nascosti entro una routine comportamentale dalla quale non emergeva alcun segnale di squilibrio. Dunque, la devianza auto-/etero-lesiva potrebbe manifestarsi a causa di patologie nascoste che si esternano in modo improvviso ed imprevedibile.

 

Tossicodipendenza vs. incapacità d'intendere e di volere

Tendenzialmente, sotto il profilo tossicologico-forense, il tossicomane acuto, al pari dell'alcolista cronico, “porta meglio” la sostanza e, quindi, sarà meno confuso ed alterato, dopo l'assunzione, rispetto ad un tossicofilo meno uncinato. A tal proposito, in Dottrina, De Vincentis & Bazzi (1969)[12] specificano che “la scienza medica ritiene senz'altro ammissibile una compromissione dei processi dell'intendere e del volere nell'eventualità di un'intossicazione acuta da qualsiasi sostanza essa dipenda, mentre non si mostra tanto sicura nel caso di dosi consuete in assuntori abituali. Al contrario, ritiene più probabile un coinvolgimento della sfera intellettiva negli assuntori occasionali, che, data la mancanza di assuefazione, presentano una maggiore recettività”.

Detto in altri termini, sarà più facile osservare un'infermità mentale in un 18enne alle sue prime esperienze che non in un c.d. “vecchio ubriacone” ormai abituato alla “sbronza”. Tuttavia, a prescindere dalla summenzionata distinzione, non v'è dubbio che la tossicodipendenza acuta sia qualificabile alla stregua di una patologia invalidante, sia sotto il profilo civilistico sia dal punto di vista penale. Ossia, come asserito da De Caro (1980)[13], “l'intossicazione cronica [anche dall'alcol, ndr], che rappresenta l'ultimo stadio della tossicomania, determina lo sfacelo della personalità del drogato, al punto da considerarlo come un vero e proprio malato mentale. Infatti, è bene non dimenticare che la tossicomania, lì dove sia conclamata, può dar luogo ad un'infermità mentale abituale, tale da richiedere l'interdizione o l'inabilitazione [o l'amministrazione di sostegno, ndr], in quanto, da un lato, può causare l'incapacità di provvedere ai propri interessi (Art. 414 CC) e, dall'altro, l'abuso abituale di sostanze stupefacenti può esporre il tossicomane e la sua famiglia a gravi pregiudizi economici (Art. 415 CC) per l'elevato costo della droga e per la scarsa attitudine lavorativa dei tossicomani”. Anzi, De Caro (ibidem)[14], senza mezzi termini, afferma, a ragion veduta, che “i tossicodipendenti hanno una tendenza alla fuga dalla realtà ed una debolezza della volontà che, implicitamente, rivelano una certa instabilità nel carattere”. Che la tossicodipendenza cronica sia una “malattia invalidante” è ribadito più e più volte dal medesimo De Caro (ibidem)[15], nel senso che “l'alterazione caratteriale precede di gran lunga il rifugio nella droga […] e, fra i tratti caratteriali abnormi, v'è, in primo piano, un'estrema gracilità dell'Io, che è immaturo, esposto alla dipendenza ed alla passività […]. Alcuni test della personalità diretti a tossicodipendenti hanno tracciato un quadro corrispondente a quello comune agli psicopatici ed ai sociopatici. Sebbene questi dati non siano sufficienti per creare una corretta tipologia del tossicomane, vi è accordo sul carattere nevrotico e, tendenzialmente, psicopatico di tali soggetti”.

Torna, dunque, la conferma circa la correttezza del DSM-V, che annovera il DUS (Disturbo da Uso di Sostanze) tra le malattie mentali. Anzi, spesso il DUS è connesso a disturbi del carattere reputati non influenti sino ad una ventina d'anni fa. Per non parlare, poi, dello stretto legame tra DUS ed agenzie di controllo non funzionali. Tuttavia, non sempre la tossicomania azzera totalmente la capacità d'intendere e di volere. P.e., sul tema, Carrieri & Greco & Catanesi (1989)[16] fanno notare che “il cocainomane non solo rimane costantemente lucido, ma subisce, addirittura, un aumento dell'attenzione e della memoria, un innalzamento del tono dell'umore ed una diminuzione del senso della fatica fisica”. Parimenti, Giusto & De Sica (1979)[17] mettono in risalto che “l'eroinomane che abbia raggiunto una certa stabilizzazione nell'assunzione della sostanza, lì dove usi dei dosaggi non troppo elevati ed osservi determinate precauzioni igieniche, è in grado di mantenere una condotta di vita più o meno normale, non risultando compromesso nella sfera intellettiva”. Nuovamente, il DUS si presenta come una patologia psichica non sempre incidente sulla capacità d'intendere e di volere. Specularmente, Ferracuti (1988)[18] invita il Giurista ed il Criminologo a non reputare “infermo/seminfermo di mente” il tossicofilo senza approfondire la specificità di ciascuna singola fattispecie individuale.

 

Profili psico-forensi dell'incapacità del tossicodipendente

Taluni Dottrinari, nella psicopatologia forense, si attengono rigorosamente e, anzi, rigoristicamente al DSM; viceversa, altri Autori, di ispirazione “basagliana”, reputano che gli Artt. 85, 88 ed 89 CP vadano interpretati alla luce di criteri meno restrittivi. P.e., Fornari (1989)[19], ai tempi del DSM-III, affermava che “è necessario […] ancorare la nozione di infermità di mente ad un qualche tipo di nosografia, che io propongo restrittiva ed impostata su criteri i più rigorosi ed obiettivi possibili […]. E' utile sottrarre al massimo l'apprezzamento del significato di malattia alla sensibilità del singolo perito: e ciò si può ottenere solo adottando una nosografia chiara, semplice, ridotta, anche se di tipo aperto”. Dunque, Fornari (ibidem)[20] manifesta una cieca fiducia nel DSM; invece, a parere di chi redige, il DSM costituisce una codificazione medico-forense insufficiente e bisognosa di costanti integrazioni. Il DSM non è un testo sacro infallibile ed incontrovertibile. Analoghe osservazioni anti-nosografiche provengono da Ponti & Merzagora (1992)[21], secondo cui “in psichiatria forense, l'inquadramento nosografico non aiuta più di tanto, in quanto il termine di riferimento è un altro. Il giudizio in tema d'incapacità d'intendere e di volere non è, almeno nel nostro sistema, un giudizio solo tecnico, una mera diagnosi psichiatrica, bensì una valutazione attinente allo spazio della residua libertà del singolo”.

Come si può notare, Ponti & Merzagora (ibidem)[22] invitano il CTU a smarcarsi da un'applicazione integralista del DSM. In effetti, il perito è tenuto ad analizzare, specialmente in tema di infrattori minorenni, l'intero contesto di vita del tossicofilo, ivi compreso, ad esempio, il ruolo eventualmente disfunzionale delle agenzie di controllo, la precarietà abitativa ed un influsso potenzialmente criminogeno del gruppo dei pari. Quindi, la personalità dell'imputato dedito al consumo di sostanze stupefacenti va necessariamente contestualizzata e non limitata ai soli criteri patologici elencati nel DSM. Coloro che divinizzano le codificazioni psico-patologiche non hanno ancora abbandonato le categorie deterministiche ed organicistiche di Lombroso e di Ferri, per i quali il deviante sarebbe sempre e comunque affetto da patologie psichiche invalidanti.

Tale è anche il parere della Criminologia statunitense, secondo la quale il detenuto è un malato di mente da curare e non da preparare al reinserimento sociale. Sempre Ponti & Merzagora (ibidem)[23] parlano di “impero della criteriologia nosografica”, per la quale non esistono mai o quasi mai devianti anti-giuridici sani di mente, soprattutto quando l'infrattore è anche un tossicomane non occasionale. Anche Ponti (1999)[24] esorta il CTU a relativizzare e non ad ipostatizzare il DSM, poiché, in epoca odierna, “[occorre] un ancoraggio alla nosografia psichiatrica, [ma] [...] si tratterà di una nosografia non più dogmatica, come lo era un tempo, ma di una dimensione di riferimento aperta, che non circoscrive il malato in un parametro rigido e deterministico, ma incentrata sul divenire storico della persona e, pertanto, comprensiva delle infinite variabili individuali”. Ecco, nuovamente, l'importanza della “storia della persona”, la quale non è riducibile, ai sensi del DSM, ad una patologia psichica sempre e comunque invalidante, Necessita, infatti, da parte del CTU, una perenne e paziente “contestualizzazione” dell'intero vissuto del tossicodipendente, che è giunto alla delinquenza anche a causa di spinte sociali e familiari non analizzabili alla luce del solo DSM o di altre catalogazioni patologiche neuroscientifiche.

In effetti, anche Antolisei (1985)[25] nega la presunta onnipotenza ermeneutica del DSM in tema di vizio totale o parziale di mente, in tanto in quanto “i concetti clinici e scientifici implicati nella categorizzazione dei disturbi mentali possono essere del tutto irrilevanti in sede giuridica, ove, ad esempio, si debba tener conto di aspetti quali la responsabilità individuale, la valutazione della disabilità e l'imputabilità […]. Dalla nomenclatura classificatoria [del DSM] non possono [sempre] tarsi conclusioni medico-legali, sia in campo penale sia in campo civile […]. le considerazioni cliniche e scientifiche alla base delle classificazioni e dei criteri diagnostici del DSM possono non essere rilevanti per l'impiego del DSM al di fuori di ambienti clinici o di ricerca, ad esempio nelle valutazioni legali [ex Artt. 85, 88 ed 89 CP]”. Siffatte affermazioni recano alla conclusione che un conto è “curare” il delinquente tossicomane, un altro conto è “rieducare” chi infrange il Diritto Penale a causa del proprio stato di tossicodipendenza. Pertanto, il DSM ha sempre un valore medico-terapeutico, ma non anche giurisdizionale.

Il tossicofilo non è, in ogni caso e tassativamente, un malato psichico incapace d'intendere e di volere. All'opposto, si cade nell'errore aberrante della Criminologia statunitense, per la quale il detenuto soffre necessariamente e deterministicamente di patologie psichiatriche, il che preclude la via alla ratio occidentale della “rieducazione” del condannato. D'altra parte, nella Criminologia italiofona, molti Autori hanno fermamente contestato l'onnipresenza applicativa del DSM. P.e., Fornari (ibidem)[26] reputa che “occorre tener presente che non sempre è possibile stabilire una netta demarcazione tra un quadro psicopatologico ed un altro, e che esistono forme intermedie, di passaggio, marginali, miste, in fase di evoluzione o di remissione, forme che esordiscono attraverso il reato, e forme che rendono talvolta impossibile incasellare per lungo tempo il malato in una nosografia clinica sicura e ben determinata”. Come si nota, il predetto Dottrinario nega la perfetta applicabilità del DSM agli Artt. 85, 88 ed 89 CP, specialmente quando debba essere analizzata, in sede peritale, la capacità o, viceversa, l'incapacità d'intendere e di volere di un deviante tossicofilo, la cui storia personale vale assai di più di un incasellamento nosografico troppo rigido ed irrilevante sotto il profilo giuspenalistico. Sempre Fornari (ibidem)[27] riconosce che “le disarmonie del comportamento, di per sé, non possono costituire un vizio di mente”.

Dunque, di nuovo, la Criminologia anti-deterministica ed anti-lombrosiana nega che la tossicodipendenza cagioni una tassativa ed ineludibile incapacità d'intendere e di volere. Molto, infatti, dipende da “disarmonie” atipiche che sfuggono alle catalogazioni rigide e rigoristiche del DSM. Del pari, Ponti (ibidem)[28] non nasconde che molti CTU “ricercano a tutti i costi la compromissione della capacità d'intendere e di volere”, applicando il DSM in maniera scorretta ed attribuendo all'imputato tossicodipendente una deficienza mentale che, nei fatti, non sussiste. Torna il mito anti-basagliano del tossicofilo non rieducabile, bensì curabile a prescindere dalla ratio suprema di cui al comma 3 Art. 27 Cost.[29] . Ciononostante, non mancano Autori che divinizzano senza misura il DSM. P.e., Dell'Osso & Lomi (1989)[30] asseriscono, con grande entusiasmo filo-neuroscientifico, che “lo scopo fondamentale è stato raggiunto: quello di aumentare l'affidabilità delle categorie diagnostiche, così da ridurre al minimo la soggettività della diagnosi e da favorire l'allontanamento della psichiatria da quell'area non scientifica nella quale l'interpretazione e l'inquadramento sono tanti quanti i modelli teorici di riferimento e variano nel tempo a seconda della moda culturale”.

Chi scrive non concorda, in tanto in quanto l'abuso scientista del DSM rischia di “patologizzare” il tossciomane anche quando egli abbia mantenuto una sufficiente lucidità mentale. Il problema della tossicodipendenza va affrontato alla luce del comma 3 Art. 27 Cost e non equiparando necessariamente l'assuntore di sostanze ad uno psicopatico infermo/seminfermo dal punto di vista psichiatrico. D'altronde, come notato da Reda (1982)[31], “gli aspetti clinici delle tossicomanie sono vari e mutevoli e dipendono dalla sostanza usata, dalla dose, dall'incontro della sostanza con le caratteristiche psicofisiche di colui che la usa”. Nuovamente, viene qui ribadita la necessità di una contestualizzazione che tenga conto delle singole e personali specificità di ciascuna fattispecie. All'opposto, fare riferimento al solo DSM significa perdere di vista la “storia” del tossicodipendente, le cui fragilità vanno interpretate alla luce di variabili non nosografiche, come la famiglia, l'influsso della scuola, il ruolo del gruppo amicale e le esperienze lavorative.


[1]Pescara, I provvedimenti d'interdizione e inabilitazione e le tecniche protettive dei maggiorenni incapaci, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, UTET, Torino, 1982/1984

 

[2]Rescigno, Incapacità naturale e adempimento, Jovene, Napoli, 1950

 

[3]Meo, In tema di incapacità naturale, Giustizia civile, 1957

 

[4]D'Innella, Interdizione e inabilitazione: loro attuale significato e prospettive di riforma per una protezione globale dell'incapace, Giurisprudenza italiana, 1987

 

[5]Di Cagno, l'ipnosi e la capacità d'intendere e di volere, Rivista Trimestrale, 1955

 

[6]Art. 90 CP

      Stati emotivi o passionali

      Gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l'imputabilità

 

[7]Art. 85 Cp

      Capacità d'intendere e di volere

      Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile

      E' imputabile chi ha la capacità d'intendere e di volere

 

[8]Art. 88 CP

      Vizio totale di mente

      Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d'intendere e di volere

 

[9]Art. 89 CP

      Vizio parziale di mente

      Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d'intendere e di volere, risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita

 

[10]Venchiarutti, Nota di commento a Tribunale di Padova Sentenza del 31 dicembre 1987, Nuova Giurisprudenza Civile commentata, 1939

 

[11]Venchiarutti, op. cit.

 

[12]De Vincentis & Bazzi, La valutazione medico-legale e l'inquadramento clinico della tossicomania, Giuffrè, Milano, 1969

 

[13]De Caro, Tossicomanie nella società moderna, Edizioni Minerva Medica, Torino, 1980

 

[14]De Caro, op. cit.

 

[15]De Caro, op. cit.

 

[16]Carrieri & Greco & Catanesi, Le tossicodipendenze, Liviana, Padova, 1989

 

[17]Giusto & De Sica, Gli stupefacenti e le tossicomanie, CEDAM, Padova, 1979

 

[18]Ferracuti, Alcoolismo, tossicodipendenza e criminalità, Vol. XV, in Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, Giuffrè, Milano, 1988

 

[19]Fornari, Diagnosi psichiatrica e DSM-III-R, aspetti clinici e prospettive medico-legali, Giuffrè, Milano, 1989

 

[20]Fornari, op. cit.

 

[21]Ponti & Merzagora, Psichiatria e giustizia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1992

 

[22]Ponti & Merzagora, op. cit.

 

[23]Ponti & Merzagora, op. cit.

 

[24]Ponti, Compendio di Criminologia, IV Edizione, Raffaello Cortine Editore, Milano, 1999

 

[25]Antolisei, Diritto Penale, Parte generale, Giuffrè, Milano, 1985

 

[26]Fornari, op. cit.

 

[27]Fornari, op. cit.

 

[28]Ponti, op. cit.

 

[29]Art. 27 Costituzione comma 3

      Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato

 

[30]Dell'Osso & Lomi, Diagnosi psichiatrica e DSM-III-R, Giuffrè, Milano, 1989

 

[31]Reda, Trattato di psichiatria, Uses, Firenze, 1982