È tutta colpa del tossicodipendente?

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È tutta colpa del tossicodipendente?

 

Il ruolo dei genitori

Nel bene o nel male, la famiglia è pur sempre la prima agenzia di controllo; ciò vale non soltanto nelle Civiltà mediterranee, bensì anche a livello meta-geografico e meta-temporale. Spetta ai genitori, infatti, reprimere le prime esperienze tossicomaniche dell'adolescente, ivi compreso l'abuso di bevande alcoliche. A tal proposito, gli italiofoni Bignamini & Bombini (2003)[1] affermano che “è fondamentale, per il nostro equilibrio psicofisico ed emozionale aver avuto, nella prima infanzia, un caregiver capace di sostenerci con affetto e sensibilità, di darci attenzione e riconoscimento”. In effetti, piaccia o non piaccia, una famiglia tossica o disattenta altro non fa che moltiplicare le occasioni di devianza nel/nella ultra-13enne, che necessita di una figura maschile e di una femminile di riferimento. P.e., abituare il minore alla vita notturna al di fuori delle mura domestiche incentiva le esperienze tossicofiliache e reca alla frequentazione di gruppi amicali ispirati alla ratio della violenza e della devianza etero-lesiva. Quasi tutti gli abusatori di sostanze riferiscono di aver avuto una vita familiare di scarsa qualità. Tuttavia, è sempre più frequente rinvenire nuclei familiari disfunzionali ove i coniugi/conviventi/compagni non si sono adeguatamente preparati alla genitorialità, la quale viene accolta in maniera irresponsabile o superficiale. Su tale tematica, Boffo 2011)[2] sottolinea che la genitorialità va appresa e che essa comporta necessariamente un cambiamento dello stile di vita pregresso della coppia. Essere genitori richiede il sacrificio di apprendere tecniche pedagogiche mai sperimentate prima; ciononostante, in epoca contemporanea, viene presentata una visione semi-pornografica della famiglia, in cui non v'è spazio per ciò che supera la genitalità esasperata. Sicché, la gravidanza è vissuta alla stregua di un incidente di percorso che mortifica la libertà dei coniugi/conviventi/fidanzati.

La coppia si limita ad una sessualità sfrenata che rifiuta l'apertura fisica e psicologica all'accoglienza della prole. Come messo in evidenza da Ravenna (1997)[3], il padre e la madre di un futuro tossicodipendente dimenticano spesso che “nella genitorialità e, quindi, nell'espressione di affetto e nel dare punti di riferimento, si possono individuare due diversi livelli di coinvolgimento presenti normalmente nel padre e nella madre in proporzioni diverse. In particolare, il divenire genitori richiede alla madre la capacità di stabilire, inizialmente, un rapporto a due col bambino, la cosiddetta relazione simbiotica o duale, ed in un secondo momento di inserire un terzo, ovvero il padre, all'interno della relazione”. Di nuovo, ritorna l'essenzialità del rapporto padre/madre/bambino, ovverosia il mancato equilibrio tra il riferimento femminile e quello maschile genererà un adolescente problematico, aperto a trovare rifugio negli stupefacenti e/o nell'alcol. Trattasi di dinamiche assai delicate, la cui eventuale disfunzionalità sta alla base di quasi tutte le carriere tossicomaniche, ove la sostanza offre un rifugio dalle frustrazioni provocate da un nucleo familiare squilibrato. Analogamente, Vaccari (2002)[4] asserisce che “la funzione paterna è rappresentata, essenzialmente, dal fatto che il padre costituisce una sorta di protezione della diade madre-bambino e, nel contempo, l'elemento intermediario tra questa e la realtà esterna, che, successivamente, entra nella diade, creando la possibilità di separazione”. Come si può notare, anche questo Autore evidenzia l'ormai dimenticata necessità di equilibrio tra le spinte educative centripete della madre e quelle centrifughe del padre; all'opposto, una perenne e prolungata disarmonia familiare spingerà la figliolanza, subito dopo la pubertà, a trovare consolazione nel mondo artificiale degli stupefacenti. Anzi, la basilarità della famiglia quale agenzia di controllo primaria è postulata in forma esplicita dallo stesso Vaccari (ibidem)[5], a parere del quale “molte ricerche ci dicono che il comportamento dei figli può venire influenzato da quello dei genitori, chiarendo come la famiglia sia uno dei fattori protettivi più efficaci nella vita dei figli per prevenire l'avvicinamento alle droghe. Le famiglie, infatti, sono in grado di proteggere i figli da molti comportamenti a rischio e problemi di salute mentale, compresa la tossicodipendenza, fornendo loro sicurezza emotiva ed economica, un giusto orientamento, ponendo limiti precisi, supervisionandoli, soddisfacendo i bisogni di base, di sicurezza, stimolando lo sviluppo e la stabilità”.

Gli asserti or ora esposti dimostrano il ruolo necessario di quella che il comma 1 Art. 29 della Costituzione italiana definisce “la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Sotto il profilo criminologico, non esiste, in Dottrina, la certezza di un eguale ruolo protettivo delle “nuove” famiglie, nelle quali la genitorialità è vissuta in maniera superficiale, sottovalutando la criminogenesi di un'educazione alternativa che potrebbe spingere l'ultra-13enne verso l'esperienza negativa della tossicomania non occasionale. Anche sotto il mero profilo empirico, è evidente che un bambino non inserito nella triade madre/figlio/padre tenderà, in adolescenza, ad avvicinarsi all'assunzione spensierata di stupefacenti, in tanto in quanto il gruppo dei pari si sostituirà al mancato ruolo pedagogico dei genitori. L'assenza del controllo genitoriale cagiona un vuoto necessariamente riempito da “consolazioni” alternative quali l'alcol e le droghe. Togliere centralità alla sinergia genitori prole significa aprire la porta a modelli educativi non convenzionali che, nella maggior parte dei casi, avvicinano l'adolescente alla trasgressività del consumo di sostanza illecite o semi-lecite.

Da menzionare è pure il problema dei genitori che, a loro volta, presentano dipendenze patologiche. Con afferenza a questa tematica, Borgioni (2007)[6] osserva che “parlando di famiglie con problemi di dipendenza da sostanze, il primo dato che emerge dalla Letteratura è l'iniziale scarsa visibilità del problema: il problema della genitorialità nelle persone tossicodipendenti, fino ad un certo momento, non viene visto dagli operatori dei servizi sociali, probabilmente nascosto dalla patologia più manifesta del genitore, ma anche a causa di una visione del tossicodipendente che lo considera più come figlio che come genitore a sua volta”. In effetti, l'eventuale tossicofilia della coppia provoca effetti devastanti nella prole. Nei genitori uncinati da sostanze d'abuso, la triade madre/bambino/padre viene completamente sconvolta e il diventare genitori si trasforma in un'esperienza intrisa di disinteresse ed apatia nei confronti della figliolanza; ciò vale pure nella fattispecie della ludopatia.

Provvidenzialmente, come rimarcato da Vetere & Dal Medico (2004)[7],”soltanto agli inizi degli Anni '80, comincia una riflessione sulla tematica [dei genitori tossicomani]: dal riconoscimento della negazione del problema da parte degli Operatori, inizia un percorso di ricerca e di formazione indirizzato a comprendere l'entità del fenomeno e di ampliare le conoscenze da un punto di vista biologico, psicologico e sociale. Da questo percorso nasce anche un diverso approccio alla persona tossicodipendente, più complesso ed articolato, che lo vede meno schiacciato nel ruolo di figlio dei propri genitori e con più responsabilità verso i propri figli”. D'altra parte, Vetere & Dal Medico (ibidem)[8] si riferiscono, come pocanzi specificato, agli Anni Ottanta del Novecento, ovverosia al periodo di esordio dell'eroinomania su scala globale. Erano gli anni in cui è esploso il problema mondiale della tossicodipendenza. Infatti, come precisato da Vaccari (ibidem)[9], dal 1980 circa, “nella maggior parte dei Paesi europei si è cominciato a registrare un aumento del numero di donne consumatrici di sostanze, di cui molte risultavano essere madri o donne incinte”. D'altra parte, come prevedibile, la tossicodipendenza delle madri ha un effetto devastante e destabilizzante sulla prole, giacché, come notano Bernardi & Jones & Tennant (1989)[10] “[la madre tossicomane] ha una certa rigidità delle rappresentazioni mentali di sé, del bambino, del partner e dei propri genitori […] [e si manifesta] un comportamento anomalo del bambino, che sembra comportarsi in modo da appagare i desideri ed i bisogni di completezza della madre”. Nuovamente, pertanto, torna in parola l'effetto negativo dell'abuso di sostanze sulla diade madre/bambino, dunque sulla cellula primordiale di una famiglia con prole. Anzi, la madre abusatrice di sostanze accoglie il bambino come una fasulla esperienza di catarsi dalle droghe.

Ossia, come osservano Bignamini & Bombini (ibidem)[11], “per quanto riguarda la rappresentazione di sé come donna, nelle madri tossicodipendenti appare l'esistenza di due differenti rappresentazioni: da un lato, si percepiscono in modo abbastanza negativo come donne, mostrando una scarsa stima di se stesse; dall'altro, esiste un aspetto di idealizzazione del sé come madre, legata probabilmente al desiderio di voler realizzare, attraverso la maternità, un senso del proprio sé maggiormente gratificante”. Naturalmente, come dimostra l'esperienza quotidiana, si tratta di proiezioni mentali fuorvianti, in tanto in quanto il figlio  non possiede una valenza “purificatrice”, bensì richiede un implemento esponenziale di maturità e di salute mentale. Egualmente, Boffo (ibidem)[12] riconosce anch'egli una “identità materna” fraintesa e non idonea, nel senso che la madre tossicodipendente “tende ad investire sul bambino il proprio progetto di riscatto dal passato. Il minore sembra svolgere una funzione vicariante rispetto ai bisogni della madre, colmando, con la propria nascita, il vuoto esistenziale e relazionale, arricchendo il futuro di una progettualità positiva, ma essendo anche, sin dall'inizio, invischiato nella problematica materna”.

Di nuovo, si nota l'errore di percepire la genitorialità come un momento di distacco e di purificazione, ma la prassi mostra che l'esistenza della prole non reca un potere di “guarigione”; il diventare genitori richiede una pregressa maturità ben solida ed incompatibile con le esperienze di abuso di sostanze. Ravenna (ibidem)[13] precisa molto bene che la madre tossicofila “non riconosce il bambino reale, la madre resta ancorata al bambino idealizzato durante la gestazione”. Infine, non va dimenticato che la madre che fa uso di droghe avrà quasi sicuramente un rapporto difficile con il compagno/marito/fidanzato, il quale verrà idealizzato durante la gravidanza, per poi essere reputato inidoneo dopo il parto. Tale conflittualità sarà un ulteriore elemento negativo che avrà ripercussioni disfunzionali sulla prole.

 

L’“attaccamento” del tossicodipendente al genitore e, viceversa, del bambino al genitore tossicomane

Il ruolo dei genitori è e rimane basilare, soprattutto in individui psicologicamente fragili come i tossicodipendenti. L'approccio pedagogico messo in atto dalla madre e dal padre lascia un segno indelebile, specialmente dopo la sessualizzazione adolescenziale. In effetti, come mettono in risalto Scabini & Cigoli (2000)[14], “la genitorialità è parte fondante della personalità di ogni individuo ed inizia a formarsi nell'infanzia, quando, a poco a poco, vengono interiorizzati i comportamenti, i messaggi verbali e non verbali, le aspettative, i desideri, le fantasie dei propri genitori”. Tuttavia, le problematiche psichiche e caratteriali sortiscono allorquando il genitore proietta sul bambino o sull'ultra-13enne aspettative narcisistiche che opprimono la personalità del/della figlio/a e che aprono la strada al rifugio nel mondo alternativo degli stupefacenti e delle bevande alcoliche.

Anche Ghezzi & Valdilonga (1996)[15] sottolineano che “la genitorialità rappresenta il momento più maturo della dinamica affettiva […] L'incapacità di svolgere in modo adeguato la funzione genitoriale non è, quindi, semplicemente la mancata capacità di rispondere in modo adatto ai bisogni dei figli, ma coinvolge delle dinamiche psicologiche più profonde, legate all'identità personale ed alla qualità delle relazioni che hanno segnato il proprio percorso di crescita”. Pertanto, anche i due summenzionati Autori italiofoni evidenziano che la famiglia costituisce un'agenzia di controllo insostituibile; l'educazione ricevuta dalla madre e dal padre sarà decisiva nella prevenzione dell'abuso di sostanze. Entro tale contesto, terminata la fase dell'infanzia, può inserirsi la tossicodipendenza, la quale frantuma le esperienze pedagogiche precedenti e concentra la vita del tossicomane intorno alla sostanza tossicovoluttuaria, la quale riempie le carenze affettive o, comunque, si propone come la più semplice evasione dalle problematiche quotidiane. Il tossicofilo trova nelle droghe e nell'alcol un'oasi di pace che estranea dalla vita reale, pur se tale beatitudine artificiale è limitata al breve periodo. Detta situazione si aggrava ancor di più nella complessa e drammatica fattispecie del genitore tossicomane.

Con afferenza a questa tematica, Cirillo & Berrini & Cambiaso & Mazza (1996)[16] precisano che “la trascuratezza genitoriale dei tossicodipendenti non è semplicemente un effetto diretto dell'assunzione di droga, ma rappresenta, invece, il drammatico segnale di un blocco evolutivo. L'incapacità genitoriale è dovuta al fatto che il mondo interiore del genitore è così condizionato da relazioni affettive insoddisfacenti , sperimentate in qualità di figlio, che non riesce ad assumere un ruolo adulto, né a dirigere le proprie energie emotive verso il proprio figlio. La qualità del mondo relazionale interno del genitore tossicodipendente deve quindi essere considerata come una parte integrante della costruzione e della interiorizzazione dell'attaccamento del figlio, all'interno del sistema diadico genitore-bambino”. Ora, in epoca contemporanea, la visione pornografica della coppia esclude la capacità dei coniugi/conviventi/compagni di accogliere in maniera responsabile il bambino, verso il quale non vi è un “attaccamento” ordinario e regolarmente pedagogico.

Anzi, la madre, qualora ella sia consumatrice di sostanze, percepisce la gravidanza come un errore di percorso incompatibile con il mondo degli stupefacenti. Oppure, la donna idealizza la nascita del bambino, ma, terminata la gestazione, si rende conto di non essere adeguata al ruolo genitoriale, che non svolge affatto un effetto di “purificazione” in grado di far uscire per sempre i genitori dalle proprie abitudini tossicofiliache. Dopo il tramonto della Civiltà rurale, si manifestano sempre più coppie oppresse dagli eccessi della tossicomania e non in grado di portare avanti la propria genitorialità. La figliolanza è reputata, seppur implicitamente, alla stregua di un ostacolo alla tossicodipendenza. Analogo è il parere di Knight (2007)[17], secondo cui “numerosi studi condotti su famiglie con problemi di dipendenza hanno messo in luce come questi genitori possano avere un rischio più alto, rispetto ai genitori non tossicodipendenti, di sviluppare uno stile genitoriale povero, ed i loro figli di avere conseguenze psicosociali negative derivate da questo tipo di relazione con loro”. D'altra parte, anche a parere di chi redige, una coppia di tossicomani tende ad un erotismo sfrenato, quasi violento e, senza alcun dubbio, non in grado di sostenere la pesante esperienza della genitorialità, la quale è incompatibile con l'assunzione di sostanze d'abuso. Essere genitori è un'esperienza etero-diretta, mentre la dipendenza da sostanze reca un carattere centripeto in cui non v'è spazio per coltivare adeguatamente e pazientemente l'”attaccamento” alla prole. Le droghe divengono un'ossessione quotidiana che toglie energie e tempo all'essere genitori.

Entro siffatto solco interpretativo si collocano pure Sroufe & Egeland & Carlson (1999)[18], ovverosia “la teoria dell'attaccamento ci spiega che le relazioni primarie stabiliscono il contesto in cui avviene lo sviluppo delle capacità di regolazione emozionale e di auto-regolazione del bambino. Quando, però, il caregiver è poco sensibile responsivo verso le richieste di cura e di benessere del bambino, quest'ultimo può interiorizzare un modello rappresentativo dell'altro come sprezzante, respingente ed inconsistente, e di sé come non degno di amore. Questo modello generalizzato di relazione meno sicura si pensa che abbia importanti implicazioni, sia come prototipo per le seguenti relazioni del bambino, sia come precursore di disadattamento psicologico”. Dunque, pure Sroufe & Egeland & Carlson (ibidem)[19] postulano l'incompatibilità tra il Disturbo da Uso di Sostanza (DUS) ed una corretta genitorialità. Né, tantomeno,  la nascita di un figlio rappresenta un nuovo inizio catartico, in tanto in quanto il divenire genitore comporta responsabilità maggiori che non migliorano o azzerano le tossicodipendenze.

P.e., pensando alla figura del giovane tossicofilo, Mikulincer & Florian (1999)[20] precisano che “un attaccamento sicuro è una risorsa importante che aiuta a gestire le esperienze in modo positivo, ad elaborare strategie di coping efficaci contro lo stress, ed a migliorare la propria capacità di adattamento. I comportamenti materni sensibili durante l'interazione col figlio sono considerati una componente cruciale nel promuoverlo. Al contrario, l'attaccamento insicuro, sia evitante sia ambivalente sia disorganizzato, può essere visto come un potenziale fattore di rischio che, nei periodi di stress, potrebbe ostacolare la resilienza individuale, portando ad utilizzare strategie di coping inadeguate o comportamenti non adattativi”. Nuovamente, anche nella Criminologia anglofona, il DUS è presentato alla stregua di un ostacolo alla genitorialità responsabile, giacché il tossicodipendente focalizza tutti i propri pensieri sulla dose giornaliera di stupefacente. Le droghe divengono una consolazione irrinunciabile e totalizzante.

Tutti i Dottrinari, nella Criminologia europea e nordamericana, sottolineano come l'eventuale disfunzionalità dell'agenzia di controllo familiare apre la strada a potenziali devianze tossicomaniacali dell'ultra-13enne. P.e., Sroufe & Egeland & Carlson (ibidem)[21] mettono in evidenza che “un attaccamento [sbagliato alle figure genitoriali, ndr] aumenta la probabilità di futuri disadattamenti comportamentali e socio-affettivi del bambino [che potrebbe diventare tossicodipendente, ndr]. Un pattern di attaccamento insicuro e disorganizzato è considerato come il più preoccupante, perché esso è spesso associato con alto stress, aggressività, comportamenti problematici di esternalizzazione e sintomatologia psichiatrica nella tarda infanzia”. Dunque, una famiglia disfunzionale è una delle con-cause della tossicofilia adulta, pur se si tratta di una probabilità non connotata in senso lombrosiano-deterministico. Anzi, Mayes (1995)[22] nota, giustamente, che “le madri che diventano dipendenti da droghe (come eroina e cocaina) rischiano di sviluppare un'ampia gamma di deficit nella genitorialità, che influenzeranno le loro interazioni con i figli dalla prima infanzia fino a quando essi non arrivano all'età scolare ed agli anni dell'adolescenza”.

Come si può notare, la tossicodipendenza dei genitori, specialmente della figura materna, genera, a sua volta, devianza, anche se, di nuovo, chi redige nega fermamente la sussistenza di presunte tare ereditarie. La tossicomania genitoriale non sempre di trasmette alla figliolanza in maniera automatica, giacché ciascun individuo mantiene la propria autonomia decisionale, pur nella sofferenza intima di avere o di avere avuto una madre che abusava di sostanze. Con attinenza al tema della tossicodipendenza dei genitori, Burns & Chethik & Burns & Clark (1997)[23] ribadiscono che “osservando molte diadi madre-bambino sono risultati chiari pattern comportamentali in cui le madri tossicodipendenti mostrano una sensibilità ed una capacità di risposta alle emozioni dei bambini estremamente ridotte, contrapposte ad un'aumentata attività fisica, provocatorietà ed intrusività”. Pertanto, è evidente, anche nella ricerca dei summenzionati Autori, che l'uso di droghe provoca un impatto devastante sulla prole, la quale potrebbe esternare, dopo la sessualizzazione, problematiche d'abuso di alcol e di altre sostanze. Non si tratta di una formula matematica, ma è ognimmodo evidente che la famiglia tossica non può esercitare alcun positivo influsso pedagogico. Il che non toglie, provvidenzialmente, l'altrettanto basilare intervento salvifico di altre agenzie di controllo, quali la scuola ed il gruppo religioso di riferimento.

Similmente, Hans & Bernstein & Henson (1999)[24] sottolineano che “le madri tossicodipendenti mostrano una grave incapacità nel comprendere i problemi di base nello sviluppo dei bambini, sentimenti ambivalenti verso il desiderio di avere e di tenere con sé i propri figli, ed una scarsa capacità di riflessione riguardo alle esperienze emozionali e cognitive dei minori”. Ciononostante, ancora una volta, chi scrive rimarca la necessità di negare un rapporto automatico e quasi inesorabile tra la tossicomania dei genitori e quella della prole. Predicare un nesso matematico tra il disagio genitoriale e quello filiale significa tornare alle orribili asserzioni di Lombroso e della pseudo-criminologia nazista. Le devianze non sono mai una questione di ereditarietà, in tanto in quanto l'adolescente può smarcarsi dagli esempi criminogeni ricevuti in età infantile. Ciò vale soprattutto per le figlie femmine, spontaneamente tendenti all'esogamia e ad una rottura più anticipata dell'attaccamento con i genitori e con le loro eventuali dipendenze patologiche.

Degni di menzione sono pure Mayes & Feldman & Granger & Haynes & Bornstein & Schottenfeld (1997)[25], a parere dei quali “comportamenti auto-riportati dalle madri tossicodipendenti hanno rivelato uno stile genitoriale duro, minaccioso, troppo coinvolto ed autoritario […] [oppure] permissività, negligenza, scarso coinvolgimento, bassa tolleranza alle richieste ed agli eccessi dei bambini ed inversione del ruolo padre-figlio”. A parere di chi commenta, le osservazioni or ora esposte valgono pure in tema di ludopatia; per non citare la dannosità altrettanto elevata dell'abuso di alcol. Anzi, Levy & Truman & Mayes (2001)[26] affermano che “i genitori tossicodipendenti, in generale, sembrano essere più predisposti nell'esibire aggressività verbale e fisica verso i loro figli ed hanno punteggi più alti nelle misurazioni del potenziale rischio di commettere un abuso sui figli, rispetto ai genitori non tossicodipendenti”. Parimenti, Mayes & Bornstein & Chawarska & Granger (1995)[27] mettono anch'essi in risalto che “le madri con dipendenza sembrano essere vulnerabili alla dis-regolazione emozionale nel loro ruolo di genitore; questo le porta, quindi, ad avere una scarsa capacità di auto-mentalizzazione e le rende incapaci nel dare senso alle loro emozioni negative. Queste donne hanno una scarsa abilità genitoriale, che impedisce loro di mostrare emozioni positive durante le interazioni con i figli e di evitare comportamenti troppo duri o punitivi con loro”.

P.e., nelle famiglie con problemi di eroinomania, non è infrequente che il bambino assista al rito del “bucarsi” dei genitori e che prepari pasti caldi per loro. Sicché, nella mente del figlio, la tossicodipendenza sarà percepita alla stregua di una condotta ordinaria e, per conseguenza, imitabile. Lo stupefacente diviene la norma, con tutte le conseguenze affettive ed economiche che tale inversione dei ruoli comporta. Inoltre, la tossicomania genitoriale comporta un azzeramento del controllo della prole, il che potrebbe recare a frequenti uscite criminogene dalla dimora familiare, specialmente durante le ore notturne. Utopisticamente, Suchman & Luthar (2000)[28] ipotizzano che “uno dei possibili interventi di aiuto alla genitorialità verso le madri ed i padri tossicodipendenti potrebbe essere il loro inserimento in network sociali più supportivi e soddisfacenti, poiché si è scoperto che ricevere un sostegno sociale attivo e responsivo nei primi anni di vita del bambino gioca un importante ruolo protettivo nei processi genitoriali”. Chi commenta diffida da servizi sociali onnipresenti che pretendono di sostituirsi alla famiglia disfunzionale, la quale, salvo in casi di grave emergenza, ha il diritto di mantenere la propria autonomia decisionale interna. Chi redige diffida dal paternalismo di un Pubblica Amministrazione perennemente intenta alla ricerca della famiglia perfetta. Molti Dottrinari, anche nel panorama criminologico italiofono, s'illudono di utilizzare i servizi sociali al fine di reprimere qualunque devianza; troppo spesso si dimentica che l'abuso di sostanze coinvolge pure nuclei familiari insospettabili, ove la figliolanza non manifesta apertamente sintomi di disagio comportamentale. P.e., si pensi all'uso di cocaina nell'ambito dell'alta borghesia. Si tratta di devianze socialmente non invalidanti ed impermeabili ad aiuti esterni.

 

 

[1]Bignamini & Bombini, Considerazioni sul pensiero e sul linguaggio delle tossicodipendenze, Medicina delle Tossicodipendenze, anno XI, n. 38, 2003

 

[2]Boffo, Relazioni educative, tra comunicazione e cura: autori e testi, Apogeo, Milano, 2011

 

[3]Ravenna, Aspetti della psicologia: Aggiornamenti, Il Mulino, Bologna, 1997

 

[4]Vaccari, Minori e genitori a rischio, in Salute e Territorio, Settembre-Ottobre, 2002

[5]Vaccari, op. cit.

 

[6]Borgioni, L'impasse nella relazione d'aiuto con la persona tossicodipendente, in Da Persona a Persona – Rivista di Studi Rogersiani, Novembre 2007

 

[7]Vetere & Dal Medico, L'approccio sistemico-relazionale nella cura delle dipendenze da sostanze, Carraio & Ricci, Modelli teorici e clinici a confronto nella cura delle dipendenze da sostanze, Tipolitografia Canova, Dolo, 2004

 

[8]Vetere & Dal Medico, op. cit.

 

[9]Vaccari, op. cit.

 

[10]Bernardi & Jones & Tennant, Quality of parenting in alcoholics and narcotic addicts, British Journal of Psychiatry, 154/1989

 

[11]Bignamini & Bombini, op. cit.

 

[12]Boffo, op. cit.

 

[13]Ravenna, op. cit.

 

[14]Scabini & Cigoli, il familiare. Legami, simboli e transizioni, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000

 

[15]Ghezzi & Valdilonga, La tutela del minore, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996

 

[16]Cirillo & Berrini & Cambiaso & Mazza, La famiglia del tossicodipendente, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996

 

[17]Knight, A resilience framework: perspective for educators, Health Education, Vol. 107, Iss.: 6, 2007ù

 

[18]Sroufe & Egeland & Carlson, One social world: The integrated development of parent-child and peer relationships, in Collins & Laursen, Relationships as developmental context: The 30th Minnesota symposium on child psychology, Hillsdale, NJ, Erlbaum, 1999

 

[19]Sroufe & Egeland & Carlson, op. cit.

 

[20]Mikulincer & Florian, The association between spouses' self-reports of attachment styles and representations of family dynamics, Family Process, 38/1999

 

[21]Sroufe & Egeland & Carlson, op. cit.

 

[22]Mayes, Exposure to Cocaina: Behavioral Outcomes in Preschool and School-Age Children, 1995

 

[23]Burns & Chethik & Burns & Clark, The early relationship of drug abusing mothers and their infants: An assessment at eight to twelve months of age, Journal of Clinical Psychology, 53/1997

 

[24]Hans & Bernstein & Henson, The role of psychopathology in the parenting of drug-dependent women, Development and Psychopathology, 11/1999

 

[25]Mayes & Feldman & Granger & Haynes & Bornstein & Schottenfeld, The effects of polydrug use with and without cocaine on mother-infant interaction at 3 and 6 months, Infant Behavior and Development, 20/1997

 

[26]Levy & Truman & Mayes, The impact of prenatal cocaine use on maternal reflective functioning, Paper presented at the meeting of the Society for Research in Child Development, Minneapolis, MN, 2001

 

[27]Mayes & Bornstein & Chawarska & Granger, Information processing and developmental assessment in three month-old infants exposed prenatally to cocaine, Pediatrics, 95/1995

 

[28]Suchman & Luthar, Maternal addiction, child maladjustement, and sociodemographic risks: Implications for parenting behaviors, Addiction, 95/2000