Alcune riflessioni sulla riforma della separazione delle carriere: tra autonomia e rischio di eterodirezione

Magistrati
Magistrati

Alcune riflessioni sulla riforma della separazione delle carriere: tra autonomia e rischio di eterodirezione

 

La riforma della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, approvata dal Parlamento e destinata a referendum confermativo, viene presentata dal Governo come un passo avanti verso un processo più equo, nel quale accusa e difesa possano dirsi davvero “pari” davanti ad un giudice terzo. È un principio che, in astratto, appare nobile e razionale, ma che, osservato nel suo concreto impianto normativo, rivela contraddizioni profonde.

Secondo i promotori, l’attuale modello – in cui giudici e pubblici ministeri appartengono allo stesso ordine, accedono tramite il medesimo concorso e condividono formazione e carriera – comprometterebbe l’immagine di terzietà del giudice. La riforma, dunque, mira a garantire una distanza istituzionale tra chi accusa e chi giudica, restituendo ai cittadini la fiducia in una giustizia più equidistante.

Tuttavia, l’intervento normativo appena approvato poggia su un presupposto fragile. L’imparzialità del giudice non discende dall’assetto formale delle carriere ma dall’indipendenza della magistratura, tutelata dagli artt. 104 e seguenti della Costituzione. La nuova architettura, così come delineata, rischia invece di spezzare l’unità della giurisdizione, trasformando il pubblico ministero in un organo “ibrido”, esposto a pressioni esterne e potenzialmente eterodiretto dal potere politico.

Il termine non è eccessivo: “eterodiretto” descrive un assetto che non risponde più a logiche interne di autonomia, ma subisce indirizzi provenienti dall’esterno. La separazione delle carriere, per come concepita, non è accompagnata da adeguate garanzie di autogoverno per la magistratura requirente, aprendo un varco all’influenza dell’esecutivo. Quis custodiet ipsos custodes? Chi controllerà i controllori, se gli stessi controllori dipendono dal potere che dovrebbero controllare?

Ancora più allarmante è la nuova disciplina del Consiglio Superiore della Magistratura, che prevede il sorteggio dei membri togati tra magistrati giudicanti e requirenti e quello dei membri laici da un elenco predisposto dal Parlamento in seduta comune. In altri termini, i componenti di un organo costituzionale di garanzia non vengono più scelti per competenza o esperienza, ma in base alla sorte o, più realisticamente, all’elenco che la politica decide di offrire alla dea bendata. Una "lotteria istituzionale" che svuota di senso la rappresentanza e l’autonomia interna alla magistratura.

Non meno problematico è l’assetto della nuova Alta Corte Disciplinare, chiamata ad esercitare il potere di vigilanza sui magistrati, composta anch’essa mediante sorteggio tra elenchi di giuristi e magistrati predisposti dalla legge ordinaria. Un meccanismo che, lungi dall’assicurare terzietà, attribuisce alla politica la facoltà di delimitare i confini del controllo disciplinare. Summum ius, summa iniuria: quando la pretesa di perfezione normativa trascura la sostanza delle garanzie, il diritto rischia di divenire strumento d’ingiustizia.

Il vero nodo, dunque, non è la separazione tra giudici e pubblici ministeri, ma la separazione tra giustizia e politica. Ogni intervento sull’ordinamento giudiziario dovrebbe ispirarsi al principio dell’art. 101, comma 2, Cost.: “i giudici sono soggetti soltanto alla legge.” Non al governo di turno, non al Parlamento, e tantomeno alla sorte.

Ed è proprio su questo punto che appare evidente l’occasione mancata della riforma. I problemi che si imputano alle correnti non derivano dalla libertà associativa – che è un diritto costituzionale – ma dal fatto che le stesse controllino le leve della carriera. Sarebbe bastato intervenire chirurgicamente sui tre snodi decisivi: nomine direttive, valutazioni di professionalità e sistema disciplinare.

Un rimedio serio, lineare e rispettoso dell’equilibrio costituzionale sarebbe stato quello di istituire un organismo terzo, stabile e non rieleggibile, incaricato di gestire tali funzioni in luogo del CSM. Un organo composto non per sorteggio ma per competenza: magistrati di legittimità selezionati secondo criteri oggettivi, tre avvocati con almeno vent’anni di esperienza già presidenti dei rispettivi ordini, tre professori ordinari nelle principali aree del diritto e un membro laico designato dal Presidente della Repubblica. Un collegio tecnico, dunque, realmente sottratto sia alle logiche correntizie sia alla discrezionalità politica.

Una soluzione semplice, non invasiva e perfettamente praticabile, che avrebbe spezzato la circolarità del potere senza intaccare l’unità della giurisdizione e senza esporre il pubblico ministero al rischio di eterodirezione. Un modello già prefigurato in altri ordinamenti europei, capace di restituire trasparenza alle carriere senza ricorrere a una “lotteria istituzionale” che mortifica la responsabilità delle istituzioni.

Perché se l’indipendenza può talvolta degenerare in autoreferenzialità, la sua perdita genera soltanto sudditanza.
Fiat iustitia, ne pereat libertas: si faccia giustizia, ma non a prezzo della libertà. Il problema non è dividere i magistrati tra loro ma impedire che, sotto il pretesto dell’equilibrio, si divida la giustizia dal suo senso più profondo, riducendola a mero strumento del potere. Una magistratura svuotata della propria indipendenza non è più garante dei cittadini ma ancella di chi dovrebbe controllare. Iustitia sine libertate est iustitia vana