Il nuovo reato di femminicidio. L'apoteosi del diritto penale simbolico

Il nuovo reato di femminicidio. L'apoteosi del diritto penale simbolico
Il disegno di legge n. 1433 del 2025, relativo all'introduzione del nuovo reato di femminicidio, già approvato dal Senato all'unanimità, si trova adesso al vaglio della Camera.
La novella normativa si innesta in un panorama socio politico, all'interno del quale il tema della violenza di genere è stato oggetto di numerosi dibattiti tra coloro i quali invocavano una netta presa di posizione in materia da parte delle istituzioni e del legislatore in particolare e chi, soprattutto tra dottrina e avvocatura, continuava ad affermare che di una nuova legge per contrastare un odiosissimo fenomeno, già ben individuato seppur non ancora definito all'interno del nostro codice penale, proprio non se ne sentiva il bisogno.
L'art. 577 bis I comma c.p. così dispone: "Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l'esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l'espressione della sua personalità, è punito con l'ergastolo. [...]".
Il reato di femminicidio denuncia e descrive il legame tra la singola condotta criminale ed una struttura sociale oppressiva, spesso di stampo patriarcale, da cui ha avuto origine.
Esso muove dal verificarsi di condotte analoghe compiute da soggetti diversi realizzate in nome di un medesimo schema culturale e comportamentale.
Confrontando i dati statistici in materia, emerge che il femminicidio e la violenza di genere, più ampiamente intesa, rappresentano inevitabilmente un'emergenza nazionale.
L'età anagrafica dei presunti rei e delle presunte vittime si è notevolmente abbassata negli ultimi anni e le risposte che il legislatore è riuscito a mettere in campo, nella maggior parte dei casi, si sono rivelate essere insufficienti.
Difatti, i reati di omicidio ai danni delle donne se da un lato non sono aumentati, dall'altro non sono neppure diminuiti, nonostante le misure varate negli ultimi anni dal cosiddetto “codice rosso”.
Ciò dimostra che gli strumenti penali da soli, per quanto aspri, non sono idonei nella prevenzione di un fenomeno che non è d'emergenza, ma connaturato alla struttura stessa della nostra società civile e culturale.
In merito alla nuova legge sul femminicidio, il Presidente del Senato, recentemente, ha affermato che la stessa rappresenta un "risultato di grande valore che dimostra come su temi fondamentali le istituzioni sappiano andare oltre l'appartenenza politica", riferendosi al fatto che la norma è frutto di un compromesso di un lavoro svolto congiuntamente tra maggioranza ed opposizione.
Di parere diametralmente opposto la senatrice Ilaria Cucchi, la quale recentemente ha affermato che "i buoni propositi che si erano creati in Commissione Giustizia sono stati disattesi e la promessa di un lavoro comune totalmente mancata".
Ebbene, nominare un fenomeno significa conferirgli un'identità, un significato inequivocabile, permettendo così di riconoscerlo e di farlo esistere.
Tuttavia, la domanda che dobbiamo porci è la seguente: c'era davvero bisogno di una legge sul femminicidio? Avevamo davvero la necessità di una norma che definisse un fenomeno già chiaramente riconosciuto e condannato da tutta la comunità? Ma soprattutto, l'art 577 bis c.p., così formulato, rispetta i principi fondamentali del diritto penale e della nostra Costituzione?
A parere di chi scrive, la risposta non può che essere negativa.
Ai sensi dell'art. 132 c.p. si prevede che "nei limiti fissati dalla legge, il giudice applica la pena discrezionalmente", opportunamente motivando la scelta effettuata.
Tale norma si pone all'interno di una più ampia cornice rappresentata dal principio generale del libero convincimento del giudice, in virtù del quale, lo stesso possiede un inviolabile diritto all'autonomia di giudizio dei fatti e delle risultanze probatorie, pur sempre supportato da un'adeguata motivazione.
Nel nostro sistema penale il giudice è libero di decidere quale sia la pena più idonea da comminare in concreto.
Lo stesso art. 575 c.p., nel normare il reato di omicidio, prevede, come noto, un unico limite di pena in negativo: "Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni 21", lasciando il giudice libero di muoversi all'interno della cornice editale.
Ebbene, all'interno dell'art. 577 bis c.p., si prevede che il presunto autore del reato, qualora venga accertata la propria responsabilità, venga punito con la pena "fissa" dell'ergastolo, senza alcun margine di scelta da parte del giudice. Proprio in violazione di quell'art. 132 c.p., sopraccitato.
L'ergastolo, la pena massima prevista dal nostro sistema penale.
Ci troviamo, forse, in presenza di un caso in cui il potere legislativo si sostituisce al potere giudiziario, attribuendosi facoltà che non gli spettano, proprio per dare alla comunità quell'idea di risposta forte e sanzionatoria che tutti stavano aspettando?
Questa diversità di trattamento da parte del legislatore, nei confronti di situazioni del tutto sovrapponibili tra di loro (sia l'omicidio che il femminicidio sono reati che realizzano l'offesa massima ai danni della vita umana), non rappresenta forse una chiara violazione dell'art. 3 della Costituzione?
Come noto, secondo il principio di uguaglianza formale, tutti i cittadini hanno pari dignità e sono uguali dinnanzi alla legge: per il legislatore vige il preciso divieto di creare norme discriminatorie, parimenti per il giudice vige il preciso divieto di favorire o discriminare i soggetti nel giudicare, applicando il medesimo trattamento sanzionatorio a chi abbia commesso i medesimi reati.
Per quale motivo, dunque, imporre una diversità di trattamento sanzionatorio per un medesimo fatto di reato? Solo per il fatto che la presunta vittima sia una donna? Quale tutela specifica, allora, dobbiamo invocare per le persone transgender, omosessuali, queer e più in generale della comunità LGBTQ+?
Evidentemente la legge sul femminicidio è stata pensata dal legislatore come una norma che idealmente offre una maggiore tutela al cosiddetto "sesso debole", cioè a tutte quelle donne vittime di un legame affettivo degenerato, all'interno del quale, in origine, le stesse avevano trovato conforto e sicurezza.
Volendo ragionare in termini un po' più ampi, potremmo pensare all'art. 572 c.p., al reato di maltrattamenti in famiglia: la norma prevede un'ampia ed effettiva protezione a favore di tutte quelle persone, tra cui evidentemente rientrano le donne, le quali si trovano ad essere maltrattate da un soggetto che fa parte della propria rete di relazioni personali.
Non sono forse "atti di odio, discriminazione, prevaricazione, controllo, possesso o dominio", quelli che contribuiscono alla realizzazione del reato di maltrattamenti in famiglia?
Certo, il reato in questione si perfeziona attraverso la realizzazione di una condotta reiterata nel tempo, tuttavia difficilmente, il femminicidio rappresenta un unicum, bensì spesso consiste in un evento preannunciato dal protrarsi nel tempo di comportamenti violenti di cui lo stesso rappresenta il loro apice.
Non si poteva, dunque, ripensare alla norma in questione, magari introducendo un'ipotesi aggravata che prevedesse una specifica tutela per tutti quei casi in cui dai maltrattamenti ai danni di una donna, si sfociasse poi nel reato di femminicidio?
Ebbene, a parere di chi scrive la novella in questione si pone come l'apoteosi del diritto penale simbolico, il quale si innesta all'interno di un sistema ben più ampio, che lo utilizza come strumento di consenso politico ovvero come mezzo pedagogico, senza dimenticare che un diritto penale "violento" contribuisce a moltiplicare la violenza nella società.
In una recente nota critica, il Prof. Fiandaca ha sottolineato come "In una democrazia costituzionale degna di questo nome, convertire i maschilisti dovrebbe costituire un obiettivo da perseguire solo con la cultura, l'educazione, la promozione di condizioni ambientali più evolute, nei contesti in cui perdurano visioni patriarcali".
Quindi perché, a fronte di un sempre crescente proliferare di nuove fattispecie criminose, non pensare a delle politiche sociali volte alla tutela della donna in senso lato, che prevedano centri di ascolto e antiviolenza sul territorio in numero adeguato a poter dare l'aiuto richiesto? Perché non ripensare l'insegnamento dell'educazione civica nelle scuole? Partendo proprio dalle nuove generazioni, per far sì che venga fattivamente contrastato questo maschilismo dilagante che non tollera la perdita di "proprietà" sul corpo femminile, in un contesto sociale che sempre più spesso appare improntato a rapporti di tipo patriarcale.