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Il perdono sociale e il perdono giuridico

Un solo diritto umano di risocializzazione
perdono
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Indice

1. Cum recte vivis ne cures verba malorum et dimitte deceptio

2. Il punto di vista cristiano

3. L’approccio democratico sensibile ai diritti

4. Il perdono inteso come diritto umano

5. Perdono e giustizia non configgono tra loro

6. Perdono e giustizia: misura sociale della giustizia

7. Il perdono giuridico e metagiuridico umano

8. Ipotesi di perdono, conclusioni

 

 

Cum recte vivis ne cures verba malorum et dimitte deceptio

Il perdono è un termine coniato dal latino medievale: il combinato di due parole: per, particella che indica una attuazione, e donare che sta per favorire o conferire.

Perdonare, in nuce nella radice del vocabolo vuol dire donare in maniera gratuita sine condiciones. Ciò che è oggetto di donazione non ammette restituzione.

Nel diritto antico[1], sotto la vigenza della lex talionis,[2] in uso presso le diverse popolazioni si cercava di porre limiti concreti alle vendette private, che spessissimo degeneravano in faide; sotto l’influenza dei testi sacri o sacre scritture si definivano legge del contrappasso[3], casi di contrappasso per “analogia”. Colui che sostanzialmente subiva un torto si trovava nella condizione di esigere un credito reale. La satisfazione creditoria poteva avvenire per il tramite del tribunale, quindi “giudizialmente” poiché veniva comminata in capo al debitore una pena generica, ovvero, in termini di intimazione al versamento di una somma monetaria.

Nel periodo antico, il “perdonare” qualcosa o qualcuno voleva significare annullare un credito, e in capo al debitore ossia invocando per lui o di lui il perdono stava a dire chiedere l’annullamento e al contempo il condono di quanto dovuto ex legem o pacta conventa.

Nella preghiera cristiana del Padre nostro (in latino Pater Noster e in greco antico Pàter hemòn) così chiamato dalle parole di introduzione, detto anche Preghiera del Signore ovvero Oratio Dominica[4], la formula per ottenere e dare il perdono è così esposta: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Matteo 6,10-12); ciò si trova nel diritto romano antico come anche nel diritto germanico e a tutt’oggi nel diritto islamico.

Se dovessimo applicare alla lettera la legge del taglione, occhio per occhio, nessuno sarebbe in grado di mantenere integra la vista[5]. E ancora, il perdono concesso comporta l’esclusione del risentimento, del livore e di ogni forma di ruggine nei rapporti personali e sociali, evita la sedimentazione dell’ira tutti stati d’animo che annodano i pensieri e li lasciano sprofondare nelle ombre di un animo inquieto.

Essendo una elargizione del tutto liberale e volontaria, il perdono non contempla sinallagmaticità, ovverosia controprestazioni dello stesso segno generoso in cambio. Qualsiasi condizione non rende reale perdono, anche se può configurarsi come uno degli elementi per ottenerlo pienamente; a differenza dello scopo che può avere diversa natura, la più alta dal punto di vista etico o semplicemente la più funzionale per il quieto vivere o assoluta esaltazione del proprio esempio di persona altruista con spirito sacrificante di qualcosa. Azzerando il personalismo, l’acrimonia e il rancore, implica abbracciare la personale fragilità per stendere le stesse braccia alle debolezze altrui con dedizione e premura.

Il profondo apporto contributivo nonché di significato massimo del perdono del genere umano sia come singolo sia come espressione di una collettività, deriva indubbiamente dal cristianesimo.

Perché se voi perdonate agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Matteo 6,14-15).

Il perdono è un concetto teologico e pratico della dottrina cristiana fra i più rilevanti. Il perdono è un aspetto caratteristico del vero cristianesimo biblico ed è fra gli argomenti che rendono speciale la via e il credo tracciati dal Signore Gesù Cristo.  Quanto supra riportato è contenuto nel discorso più eloquente di Gesù, Il Sermone sul Monte.

John Stott[6] ha così definito detto discorso: Il Sermone sul Monte ha un fascino unico. Sembra presentare la quintessenza dell’insegnamento di Gesù: rende attraente la bontà, ci fa vergognare del nostro comportamento ignobile, evoca sogni di un mondo migliore”. Non possiamo non provare una santa attrazione per le verità espresse e ogni più totale ripugnanza verso ciò che potrebbe rovinare la piena comprensione di queste verità bibliche. Per dirla con le parole di John Stott: questo pensiero “… evoca sogni di un mondo migliore”.

Tutto questo è vero e pieno di meraviglia, ma l’esercizio pratico del perdono rimane per molti credenti solo un sogno. Dio ci ha salvati e lo ringraziamo per questo, conosciamo la Parola e la insegniamo agli altri, ma quando viviamo i conflitti tra i fratelli, quando ci viene fatto un torto e ci sentiamo offesi, non riusciamo a perdonare. Perché risiede tanta contraddizione tra pensiero ed azione di perdono?

La Chiesa di Gesù Cristo è l’assemblea dei salvati. È l’insieme dei peccatori perdonati. Le due priorità di Davide anticipano profeticamente le priorità di un credente che vive la Chiesa nel modo giusto: Ho detto al Signore: «Tu sei il mio Signore; non ho bene alcuno all’infuori di te». Quanto ai santi che sono sulla terra, essi sono la gente onorata in cui ripongo tutto il mio affetto (Sl 16:2-3). Conosciamo bene queste parole, le amiamo, si prova ammirazione, ma quanta fatica facciamo a vivere l’amore fraterno quando subiamo qualche offesa! Il tema del perdono è un punto debole per tutti.

 

Il punto di vista cristiano

Per comprendere in modo opportuno la verità biblica riguardante il perdono l’unica fonte corretta è rivolgere l’occhio alla Scrittura.

L’esercizio del perdono viene esternato nell’insegnamento orale del Signore in modo del tutto peculiare: “[…]rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori.

Per il Signore il perdono tra uomini dovrebbe avvenire in modo del tutto spontaneo e naturale, senza ricerca o impegno pensato.

Nell’insegnamento del Signore, ogni essere umano dovrebbe domandare il perdono a Dio per gli errori commessi così come lo concediamo ai nostri fratelli che errano. Il perdono nasce dalla preghiera più profonda ed in essa nella volontà più veritiera. Il perdono non è solo qualcosa che riguarda solo gli uomini, ma va preparato in meditazione innanzi a Dio. Perdoneremo se pregheremo. Non vedrai mai di buon occhio il fratello che ti avrà fatto un torto se non avrai prima contemplato il volto di Dio.

Ma non è tutto finito con la preghiera. Per Gesù l’esercizio del perdono fraterno era un concetto che doveva essere compreso molto bene. Dopo la preghiera modello segue una nota esplicativa che riprende e approfondisce ciò che il Signore aveva detto da sempre: Perché se voi perdonate agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”.

Il perdono ha dunque inizio con la preghiera meditata, contemplativa con la volizione piena.

Un dovere umano-cristiano ma anche un patrimonio soggettivo.

Il problema di fondo, quello sempre presente, il più grande che abbiamo quando siamo chiamati a perdonare, consiste nel non aver compreso il significato puro del perdono. Quasi sempre il perdono viene visto come un dovere che il cristiano deve compiere. Nulla d’altro! Ma apriamo ancora l’occhio:

Perdonare (nel suo significato teologico) assume un valore intenso. Perdonare vuol dire “coprire”, “portare via”, “togliere la colpa”, “lasciare andare”.

Nel perdonare la creatura pentita, Dio compie queste azioni positive. Egli va oltre i peccati e le colpe umane e lo fa in virtù della grazia. Nell’Antico Testamento ciò avveniva mediante i sacrifici che prefiguravano quello perfetto di Cristo. Il Nuovo Testamento presenta Cristo come sacrificio sufficiente e definitivo per i salvati.

È con  la poesia, più che  con la teologia  che è tangibile quasi con mano ciò che Dio aveva in mente quando parlava di perdono.

Il linguaggio poetico interpreta bene quello teologico, per esempio nel Salmo 103:12Come è lontano l’oriente dall’occidente, così ha egli allontanato da noi le nostre colpe”; oppure in Michea 7:19, Egli tornerà ad avere pietà di noi, metterà sotto i suoi piedi le nostre colpe e getterà in fondo al mare tutti i nostri peccatiQuesto è l’atteggiamento che dovremmo avere quando qualcuno agisce in torto contro di noi: decidiamo di allontanare i peccati o gli stessi torti del fratello come  l’oriente è lontano dall’occidente e li gettiamo nel fondo del mare.

Se osserviamo il testo di Matteo 6:14-15 con minuziosità pedante osserveremmo tre piccoli e semplici passaggi che ci farebbero comprendere la natura e il significato del perdono fraterno; il perdono per gli uomini e tra essi.

Punto Primo: perdonare è la chiamata di Dio per noi: [… ]se voi perdonate…”.

In questa breve frase vediamo concretizzarsi il perfetto amore di Dio nelle deboli e imperfette relazioni umane. L’amore di Dio raggiunge i fratelli e le sorelle per mezzo del perdono che concediamo. La cosa naturale che dovrebbe avvenire nei rapporti tra fratelli è la capacità di perdonare quando ciò si rende necessario.

Punto Secondo: perdonare è molto più che un semplice dovere: “Se voi perdonate agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi”.

Il perdono è un dovere cristiano, ma è soprattutto una ricchezza. La successione dei fatti qui enunciati tiene conto dei seguenti tre aspetti prioritari:

1. Dio ha perdonato giuridicamente il nostro peccato.

2. Noi perdoniamo le colpe dei fratelli.

3. Dio ci concede il perdono paterno ogni giorno.

La ricchezza del perdono consiste nel fatto che Dio perdona per primo, anche se non lo meritiamo.

Quando concedi il perdono al fratello che ha peccato contro di te non stai compiendo solo un dovere cristiano che ti è stato comandato. Tu stesso ricevi qualcosa di prezioso. Dio sta arricchendo la tua vita perdonandoti.

Punto Terzo: non perdonare è una grave perdita spirituale: “[…]ma se voi non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”.

Se perdonare è una  vera ricchezza, non perdonare è una perdita immensa. La ricchezza del perdono che Dio ci accorda dipenderà dal perdono che noi concederemo ai nostri simili. Se tu non perdoni il fratello, neppure il Padre perdonerà te[7].

 

L’approccio democratico sensibile ai diritti

Nel comune pensiero vige una visione del perdono come “debolezza comportamentale”, una sorta di mortificazione dell’agire ma, citando ad esempio Ghandi, possiamo capirne l’essenza: “i deboli non perdonano mai. Il perdono è l’attributo dei forti[8].

Più l’uomo si sente forte ed in linea con i propri pensieri e di conseguenza compie azioni positive per gli altri, meno ricorre l’esigenza di tenere comportamenti “bellicosi” e reattivi; di conseguenza ricorre una maggiore disponibilità alla comprensione e al perdono.

Ghandi ha ottenuto l’indipendenza dell’India nel 1947 con un movimento di resistenza non violenta; dimostrando la reazione non aggressiva a violenze e abusi degli inglesi con compassione e determinazione superando l’avversità storica.

Nelson Mandela ha intuito che col perdono era più efficace la lotta all’apartheid in Sudafrica e si poteva ottenere, come avvenne, il diritto di voto e venne identificato tale diritto con il motto: “un uomo un voto” sostenuto poi nelle moderne democrazie: il perdono libera l’anima, rimuove la paura. È per questo che il perdono è un’arma potente(Mandela 2013).[9]

 

Il perdono inteso come diritto umano

Il Pontefice attuale, Papa Francesco, ha suscitato di recente stupore e critiche per aver parlato di un “diritto umano al perdono”.

L’obiezione sollevata è che il perdono è una grazia di Dio e l’uomo non può esigere da Dio come fosse un diritto ciò che Egli elargisce in modo totalmente gratuito e senza corrispettivi. V’è da sottolineare che le intenzioni pontificie non erano quelle di affermare un diritto presso Dio, ma di sostenere un diritto umano ossia, presso gli uomini, presso la società civile, presso le istituzioni dello Stato, presso l’autorità giudiziaria, in senso generale, ovvero presso un altro uomo che è stato offeso.

Si noti bene che la “condicio” per essere perdonati (sia in senso cattolico presso Dio, che dagli uomini) è quella di riconoscere un personale errore e fallimento, di essere pentiti del male ingiusto arrecato e di essere predisposti alla riparazione del danno e subirne la giusta pena.

Indubbiamente il perdono è un concetto puramente evangelico ma che si innesta in un discorso che riguarda l’autorità civile; evangelicamente esso comporta la virtù della misericordia e la remissione del debito. Il perdono cristiano è un per-dono, è un donare due volte. Il perdonante, infatti, dona nuovamente ciò che ab origine aveva donato. Una prima volta aveva donato la sua disponibilità d’amore fraterno, respinto e messo nella condizione di essere ridonato la seconda volta si dona amore pervenuto dall’atto penitenziale dell’offensore.

La Sacra Scrittura e anche il linguaggio comune paragonano il torto o il peccato commesso contro qualcuno, sia esso uomo o Dio, ad un debito che dobbiamo pagare per esigenza di giustizia, affinché sia ricostruito il rapporto interrotto tra offensore ed offeso. Tale debito va pagato per giustizia ma è rimesso dal perdono. Nel rapporto dell’uomo con l’uomo o con Dio avviene sia l’una che l’altra cosa anche se appare strano e assurdo.

In sostanza l’attuale Pontefice  Francesco[10] ha chiesto all’ordinamento giudiziario e di governo statuale di annoverare il diritto al perdono nel “mosaico dei diritti umani” e della Costituzione interna ed internazionale, supposte naturalmente le condizioni già sopra espresse.

Fuori discussione che v’è un distinguo netto tra perdono umano e perdono divino: Sia Dio che l’uomo possono rimettere la pena, ma solamente Dio può rimettere il peccato inteso come offesa diretta a Dio (tramite l’uomo), che è un male umanamente irreparabile se non vi fosse l’intervento misericordioso divino.

Anche per lo Stato moderno di matrice laica, a prescindere dall’etica cristiana, basato sulla ragione traslata dalla concezione illuminista del settecento, è considerevolmente opportuno pensare ad un perdono sociale-giuridico ricostruttivo di rapporti e diritti umani.

San Tommaso d’Aquino nel “De regimine principium” affermava palesemente che il fondamento etico delle direttive del principe non è la fede cristiana, ma la semplice ragione, avendo invece lo Stato quale scopo non ciò che riguarda la salvezza delle anime, ma il bene collettivo temporale quindi fini terreni, si nota, che la ragione se è retta e rispetta i diritti dell’uomo, non può essere contraria alla fede, provenendo da Dio tanto la luce della ragione quanto quella derivante dalla fede, lo scopo terreno non retto, cade nell’infedeltà ed esce dal diritto umano.

Il moderno Stato democratico seppur laico (avendo abbandonato il cattolicesimo come religione di Stato a favore della libertà religiosa) non ha alcun problema né potrebbe averne ad accogliere l’istanza pontificia considerando che dai tempi di Costantino lo stesso Stato è stato condizionato dall’etica evangelica come gli stessi diritti umani[11].

Lo stesso diritto romano era intriso del concetto e pratica della “clementia” e della “misericordia” e in peculiar modo quello di “gratia” intesa tanto quanto dono gratuito, quanto come reale perdono, cioè come “remissio criminum[12]; tale concetto laico di grazia è comunque rapportabile al concetto cristiano ed è rimasto nel linguaggio giuridico odierno come la grazia prevista dalla Costituzione repubblicana concessa dal Presidente della Repubblica[13].

In Virgilio noto è il concetto del “parcere subiectis” dove i subiecti non sono sottomessi con la forza o d’imperio ma desiosi e bramosi di tutela incoraggiati dalla civitas romana, volontariamente si assoggettavano a Roma per fruire della romanitas[14]. Al riguardo si nota uno spirito universalistico senza entrare nel credo religioso forzatamente né giudicare le pratiche religiose.

Il Vangelo, indiscutibilmente, comanda di attuare la  misericordia[15]: “Signore, che io sia giusto, ma giusto con misericordia […] non giusto coperto dalla casistica”. Il cammino proposto è dalla casistica alla verità e da essa alla misericordia come imprescindibile dovere di giustizia; tra questi passaggi si pone il perdono alle offese.

Il Vangelo distingue il diritto al perdono presso gli uomini – come diritto umano naturale, ed è di ciò che il Pontefice parla – dal diritto cristiano soprannaturale al perdono presso Dio. Nell’uno e nell’altro caso l’offensore può avere il diritto di essere perdonato a patto che sia pentito del suo atto, lo riconosca e sia pronto a farne ammenda e a riparare.

Nel caso della riconciliazione con gli uomini, per poter esigere il perdono, è sufficiente che l’offensore compia un atto riparatore di merito naturale.

Nel caso invece dell’offesa a Dio, occorre che l’atto riparatore sia compiuto in grazia appoggiandosi ai meriti di Cristo, così che l’offensore pentito ed emendato o con l’intento di emendarsi avanza verso Dio un diritto al perdono che è fondato sui meriti di Cristo, grazie ai quali egli, in stato di grazia e libero dalla colpa del peccato, si rende meritevole del perdono divino e quindi lo può esigere a norma di giustizia, come compenso per il pentimento e la fiducia nei meriti di Cristo redentore[16].

 

Perdono e giustizia non configgono tra loro

Prima facie, tra misericordia e giustizia sembra innescarsi una non conciliazione sia verbale che concettuale: perdonare vorrebbe dire fare come se un atto – rilevante giuridicamente – non tanto non sia esistito, quanto non porti ad esplicare la serie dei suoi effetti. E questo per il diritto vuol dire la negazione: se al diritto si toglie la prevedibilità sicura di una serie di effetti necessariamente innescati da un fatto o – ancor più – da un atto, se ne nega la stessa struttura, lo stesso metodo come supporto necessario di efficacia o – a un altro livello – di credibilità.

Nella tesi che sostiene la netta inconciliabilità dei termini, si ritiene che nel Vangelo vi sia un mero disprezzo per il diritto, e una decisa sottolineatura, di contrapposto, della giustificazione secondo Dio: non è un caso che la traduzione interconfessionale di Mt 5,6 e 10 e 6,33 ridona la misericordia e la iustitia della Vulgata come «volontà di Dio», «ciò che Dio vuole», piuttosto che come tradizionalmente s’è detto: «giustizia».

D’altra parte nello stesso Vangelo di Matteo (10,28) Gesù Cristo esorta radicalmente a non aver paura di coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima. V’è un conflitto apparentemente insanabile tra diritto e perdono: e Gesù Cristo tende a superare (talvolta anche sprezzantemente) la legge nel perdono, la giustizia degli uomini nella giustizia di (o secondo) Dio[17].

Quale giustizia degli uomini, oltre a una intermittente e non sempre rispettosa osservanza, alla luce e  piccola finestra  della misericordia? Che spazio resta rimane per il perdono nella giustizia  concepita dagli uomini? Questo chiede la natura umana spesso contraddittoria nella fede, regole e predisposizione verso gli altri.

Nella relazione perdono / giustizia degli uomini richiama l’attenzione e obbliga a una filologia letterale-contenutistica. Special modo se essa chiede l’attenzione del giurista, per il quale le parole debbono avere una precisa descrizione valoriale: tecnica, concettuale e di fine eziologico-esegetico. Che cosa vuol dire ‘perdono’? «remissione della colpa e del relativo castigo», recita il vocabolario; l’etimologia – con quel valore enfatico ed accrescitivo di per – ci rende il significato di ‘dare di più’, ‘dare nel massimo grado’, oppure anche di ‘restituire’[18].

Il significato di perdono si è caricato attraverso la riflessione religiosa di ulteriori valori, che le altre relazioni hanno bene indicato e bene indicheranno.

Qui preme sottolineare il termine nella portata autentica: «remissione (totale o parziale) della colpa e del relativo castigo». Esso, nel campo della storia del diritto, non può che essere inteso come atto, cioè come provvedimento di chi ha il potere di farlo, di non tenere conto di un determinato comportamento rilevante nell’ambito del diritto (rilevante con una prevalenza negativa), o di rimettere – ferma la illiceità e rilevanza penale del comportamento - in tutto o in parte la pena conseguente, o di sospenderla o – anche – di commutarla.

Esso ha rilievo in relazione al cosiddetto elemento soggettivo del reato e – nel piano delle conseguenze giuridiche – alla punibilità, alla determinazione della pena, alle cause di una sua eventuale estinzione o modificazione, alle conseguenze amministrative.

Esso non attiene al cosiddetto elemento oggettivo del reato, e pertanto non ha nulla a che vedere con le cause oggettive di esclusione del reato (l’adempimento del dovere, l’esercizio del diritto, il consenso dell’avente diritto, la legittima difesa, lo stato di necessità e altre cause di giustificazione non codificate).

Se si può parlare, dunque, di perdono (e, in senso molto più lato, di misericordia) lo si può fare in relazione con la persona del reo in quanto tale, perché persona e perché in determinate personali condizioni, e non già in relazione alle circostanze del reato.

Bisogna considerare, dunque, due filoni: un primo - che chiameremo per comodità oggettivo - che riguarda la considerazione, il concetto, il valore della pena; un secondo - che chiameremo per comodità soggettivo - che riguarda la considerazione per la persona singola del reo, per la sua condizione particolare e la sua dignità in generale (dignità della persona) che funge da tratto di collegamento tra questi due filoni e a ben vedere, tra una considerazione oggettiva e una soggettiva dell’intero diritto penale. Ma non precorriamo i tempi. Perdono, da ultimo, che non modifica o estingue il reato – che, come fatto, non infectum fieri potest – ma che interviene sulla pena, orientandola, caratterizzandola nell’uno e nell’altro senso, modificandola, sospendendola, ed estinguendola.

In questo senso il perdono – nel caso che se ne stabilisca come concetto, come categoria di ragion pratica e di comportamento, il diritto di presenza nell’ordinamento – si posterebbe sensibilmente da un atto tutto affidato alla, e tutto dipendente, dalla volontà per così dire sovrana dell’autorità costituita (da sé o da altri), a una necessità della coscienza collettiva – impersonata dall’autorità – di fronte alla dignità multiforme – sia in sé sia storicamente – della persona umana.

Si traslerebbe dalla sfera del voluto a quella del dovuto, dalla sfera del discrezionale a quella del necessario, fondamentale, motivata non già da un atto di volontà interiore o interna al sistema, quanto da un fatto per così dire storico preesistente al, e condizionante il, sistema.

Si intuisce elementarmente che cosa tutto ciò vuol dire, quali premesse culturali e quali conseguenze strutturali e pratiche possa avere sullo svolgersi dell’esperienza giuridica, sia nella sua pratica, sia nella analisi su di essa, sia nel suo momento normativo, sia nella sua valutazione, e per considerare se ciò sia potenzialmente possibile dovremo estendere lo sguardo e considerare qualche elemento più generale, specie per quel che riguarda plausibili definizioni di giustizia e diritto, collegati al pluriconcetto di perdono umano.

La nozione “giustizia degli uomini” può presentare labirinti comprensivi ed equivocabili deduzioni.

Per prima cosa va fugato l’equivoco della svalutazione o, se si preferisce, del disprezzo: “giustizia degli uomini” come giustizia di genere rispetto ad altre, superiori imparzialità e rettitudini. Ma la “giustizia degli uomini” – se esiste una dignità per la giustizia tout court – ha una sua autonoma dignità storica e metastorica, da inserire in maniera corretta nel contesto del tempo e dello spazio;  ha una sua obbligatorietà essenziale storica e, come sostiene l’illustre prof. G. Garancini provvidenziale, proprio perché concernente gli uomini, fatta da essi e per loro stessi, meglio dire le necessità variabili dell’uomo.

Giustizia, autorità, potere, e beninteso il diritto non sono fattori da considerare indegni né  tantomeno destinati o confinati in un limite proprio: sono semmai da far cadere ed abborrirne le interpretazioni che se ne danno; ma la ricerca dei criteri per la loro analisi di valore e la loro misura nel tempo, ci incammina verso la necessaria estensione dei ragionamenti di concetto.

D’altro canto appare essenziale porre una distinzione che può chiarificare assai il cammino: quella tra giustizia e diritto.

Il termine “Giustizia” indica la virtù eminentemente sociale che consiste nella volontà di riconoscere e rispettare i diritti altrui attribuendo a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo la ragione e la legge.

Secondo la Chiesa, è una delle virtù cardinali, per la quale si riconosce e si opera il bene, posseduta in sommo e perfetto grado da Dio di cui costituisce uno degli attributi: Dio stesso, in quanto giudica l’operato di ogni uomo, sulla base di questo, lo premia o lo punisce[19].  

E ancora il termine “Diritto. Complesso di norme legislative o consuetudinarie che disciplinano i rapporti sociali o facoltà e pretesa tutelata dalla legge.

In un approccio omnicomprensivo, si vede che la parola giustizia è immediatamente collocata nella categoria dei fini, la parola diritto si innesta nella categoria dei mezzi atti a conseguire tali fini.

La giustizia, quindi, come ipotesi di società, come prospettiva valoriale, come mosaico di “valori” da conseguire; il diritto come ordinamento giuridico, come strumento e insieme di norme per conseguire, nel tempo e nello spazio, quei valori, realizzare quella prospettiva, verificare (nel senso di avverare, “render attuale e concreta”) quella diretta ipotesi.

Vi sarà, dunque, distinzione: un conto collocare il perdono nel terreno della giustizia, un conto collocarlo nel terreno del diritto.

In tale ultima scelta si tratterà di un’opera di ricostruzione storica: di vedere come – nel corso dei secoli e qui e ora nell’ordinamento vigente – la misericordia e il perdono siano stati e siano presenti, abbiano operato e operino negli ordinamenti e nelle leggi degli uomini (oltre che nel loro pensiero riflesso) e quali conseguenze essi abbiano avuto e abbiano, sia formali sia sostanziali.

Nel primo caso, invece, si tratterà d’un più sottile opus, nella prova di far comprendere se, e – nel caso – come, l’idea di giustizia che hanno gli uomini o che il pensiero riflesso sull’esperienza giuridica in senso ampio ha elaborato, accolgano misericordia e perdono, o quanto meno con essi reagiscano; e quali eventuali conseguenze (o novità) da tale reazione derivino. Un discorso sui concetti e sui valori, dunque, mentre per quanto riguarda il diritto è necessario un discorso sui fatti, sui fatti culturali e sui fatti normativi.

 

Perdono e giustizia: misura sociale della giustizia

Allora Pilato gli disse: «Non dici nulla? Non sai che io ho il potere di liberarti e il potere di farti crocifiggere?». Gesù replicò: «Non avresti nessun potere su di me se non ti fosse dato da Dio. Perciò chi mi ha messo nelle tue mani è più colpevole di te» (Gv 19, 10-11).

Non si tratta, qui, di sostenere la positivistica separazione tra diritto e giustizia, relegando quest’ultima nella dimensione del complesso emotivo, dell’ideologico e quindi del non scientificamente decifrabile e verificabile[20], e riconoscendo esclusivamente a quello il carattere dell’oggettività – sempre, comunque, nello spazio dell’efficacia vincolante e della dignità scientifica.

Un conto è separazione  e un conto è distinzione, nel senso di un rapporto e di una continuità non sovrapponibili, collocandosi giustizia e diritto (come ordinamento) a livelli diversi e comunque comunicanti dell’esperienza umana.

Occorre fare una valutazione in termini di giustizia, perché il diritto (come ordinamento) e la politica che lo produce non siano ridotti a mero arbitrio e potere del più forte ovvero prepotente.

Qualsiasi definizione generale del diritto qualsiasi definizione in termini di diritto non può essere meramente descrittiva, ma è sempre l’espressione formale di una valutazione pratica dei comportamenti umani, e avremo a che fare perciò con definizioni e proposizioni in sé valutative «che non hanno carattere direttivo perché esprimono, in quanto tali, la tendenza a influenzare i comportamenti e, precisamente, a suscitare l’assenso delle persone alle quali la definizione è proposta»[21]. È in questo senso che una prospettiva in termini di giustizia non solo è possibile, ma è necessaria, per sottrarre all’arbitrio – o al formalismo, che è una forma più sottile di arbitrio intellettuale – l’intero svolgersi dell’esperienza giuridica.

Tutte le disquisizioni sulla misericordia e sul perdono nel contesto giuridico dell’uomo non possono prescindere dalla fondazione della giustizia come complesso di giudizi di valutazione.

Nel lessico evangelico e teologico trovano forma due accezioni della parola giustizia o iustizia: l’una  nel quadro delle beatitudini, che ha riguardo alla giustificazione (Rchtfertigung) per il regno e davanti alla volontà di Dio, l’altra di segno squisitamente giuridico, criterio di giuridicità (Gerchtigkeit) di un comportamento, di una attività normativa, amministrativa, giudiziale. Il perdono deve essere indagato nei suoi rapporti con questa seconda accezione, e d’altro canto è quest’ultima che fa “disordine”, essendo l’atteggiamento di perdono parte integrante del “fare la volontà di Dio”, dell’essere giusti secondo Dio.

Vari profili ha la giustizia.

V’è un aspetto processuale , quello del rispetto delle “regole del gioco” il fine dell’ordinamento ed il criterio di giuridicità di un comportamento posto in essere; è una concezione della giustizia piuttosto privatistica (nel senso che coinvolge e richiede l’assenso della coscienza individuale e considera l’uomo nella sua qualità singolare e monodimensionale).

C’è, dall’altro canto, un profilo pubblico ovvero costituzionale o costituente della giustizia, e cioè che vede il criterio di giuridicità di un comportamento oltre le “regole del gioco”, ossia nell’adempimento e nella volontà di rispetto e di realizzazione di determinati “valori fondamentali” considerati pre-giuridici, nella assolutezza dei principi umani preliminari ad ogni determinazione di diritto positivo, i quali costituiscono nel loro complesso e presi singolarmente i criteri di giuridicità dell’ordinamento positivo. È debitamente la c.d. giustizia sociale, distributiva che dà la possibilità di ripartizione dei beni e dei mali secondo i meriti delle persone, ma con un significativo e incisivo intervento da parte dell’autorità, per assicurare la compensazione e la correzione delle diseguaglianze rispetto ai criteri direttiviin nuce dati”, della dignità della persona umana, dell’uguaglianza di tutti – in quanto persone umane – di fronte alla legge, della promozione e tutela delle comunità ‘naturali’ e dei ‘valori culturali, religiosi, morali, sociali delle aggregazioni sociali. Trattasi di giustizia sostanziale.

Come spiega intensamente il professor Garancini, Il positivismo legislativo (Gesetz ist Gesetz, Befehl ist Befehl) perde di vista proprio la storicità, appiattendosi su una esegesi vincolata o, peggio, su un culto della legge e di chi l’ha posta che non lascia cogliere lo spessore di storia umana e di uomini che costituisce il necessario supporto, la storica ragion d’essere ma, soprattutto, la fonte dei fini e il criterio di giuridicità di tutto l’assetto dell’ordinamento. Anche il miglior prodotto della concezione formale della giustizia, una sorta di ‘tutto nell’ordinamento’, e cioè lo stato di diritto, descrivibile solo in termini di ordinamento, non può fare a meno di contemplare al suo interno, (all’interno dell’ordinamento) delle norme per dir così “aperte” o in bianco, secondarie in senso tecnico, che attribuiscono ad organi determinanti lo scopo di produrre norme “novellate” e modificare quelle che nel contempo fossero ritenute sorpassate, non attuali.

Esplicitamente e non programmaticamente o surrettiziamente, non esiste dottrina giuridica che non implichi una considerazione dei rapporti tra giuridico e metagiuridico costituzionalizzato e comunque ritenuto fondamentale sopra e per l’esistenza umana.

Così come trova una spiegazione e una applicazione giuridica primaria e diretta il passo evangelico dei Rm 13,1-6 , che – con la sua insistenza sul concetto di ordine, sistema, progetto divino – consente di stabilire che a coloro che hanno ricevuto autorità è, sì, dovuta obbedienza, ma in quanto sono stabiliti da Dio: ma se si comportano in modo tale da dimostrare di non essere più ordinati da e a Dio, di non essere più al servizio di Dio non si deve dare loro più nessuna obbedienza, anzi li si deve osteggiare.

In tale cammino intellettuale  e metagiuridico si può innestare la “relazione di misericordia” (Dives in misericordia)  la quale “si fonda sulla comune esperienza di quel bene che è l’uomo, sulla comune esperienza della dignità che gli è propria”; e in questo orientamento seguito anche nella produzione di norme si può introdurre il perdono, come momento di bilanciamento e “umanizzazione” dei rapporti giuridici e politici[22].

 

Il perdono giuridico e metagiuridico umano

Abbiamo due specie di perdono: (1) un perdono quale atto interno alla coscienza, che può essere compiuto senza che vi sia la necessità di comunicarlo ad altri soggetti (ed in particolare al destinatario del perdono stesso), e che opera soltanto sul piano dei sentimenti interni alla coscienza;  (2) un perdono quale atto sociale, che si rivolge necessariamente ad un altro soggetto, e che opera non solo (o non tanto) sul piano dei sentimenti interni alla coscienza, ma anche (e soprattutto) sul piano di specifiche entità sociali e giuridiche (obblighi e pretese).

Che il perdono quale atto interno alla coscienza e il perdono quale atto sociale siano atti distinti significa che l’uno non implica necessariamente l’altro, che l’uno non è condizione dell’altro, che può darsi l’uno senza che si dia l’altro; ma non significa che tra l’uno e l’altro non possano darsi in concreto (e tendenzialmente) rapporti di condizionamento.

La distinzione tra perdono quale atto interno alla coscienza e il perdono quale atto sociale, della tipologia degli atti spontanei, ciò è da considerare;  vediamo quella proposta dal fenomenologo tedesco (allievo di Edmund Husserl) Adolf Reinach. 1.1. Atti spontanei interni e atti sociali nella fenomenologia di Adolf  Reinach [23].

Egli propone una tipologia degli atti spontanei “spontane Akte”, nella quale traccia una distinzione fondamentale per la fenomenologia dell’azione e per la fenomenologia degli atti giuridici: la distinzione tra atti spontanei interni “interne spontane Akte” e atti sociali “soziale Akte.

La tipologia degli atti spontanei proposta da Reinach si colloca in una più ampia tipologia tripartita dei “vissuti intenzionali”, Erlebnisse. Reinach distingue, in particolare: (1) Erlebnisse passivi [passive Erlebnisse]: ad esempio, l’Erlebnis di un rumore, di un dolore fisico, di un sentimento d’odio; sono Erlebnisse che si impongono all’io, e rispetto ai quali l’io risulta passivo; (2) Erlebnisse attivi [aktive Erlebnisse]: ad esempio, l’indignazione che proviene dall’io, l’avere un proposito [das Haben eines Vorsatzes], l’entusiasmarsi per qualcosa; sono Erlebnisse che provengono dall’io, e nei quali si manifesta una forma di attività dell’io: la Aktivität; (3) atti spontanei [spontane Akte]: ad esempio, il rivolgere l’attenzione a qualcosa, il perdonare [das Verzeihen].

Nelle menzioni di Reinach: “v’è un fare interiore [ein inneres Tun] del soggetto”. L’aggettivo ‘intenzionale’ [‘intentional’] è, in Reinach, terminus technicus del lessico della filosofia fenomenologica: esso non ha il senso di “fatto con intenzione”, ma si riferisce al concetto fenomenologico di “intenzionalità”, caratteristico di tutti gli Erlebnisse, in base al quale ogni coscienza è coscienza di qualche cosa: ogni Erlebnis intenziona un quid che è ad esso correlato, ogni Erlebnis si riferisce a una qualche oggettualità.

Per rendere in italiano la differenza tracciata da Reinach tra Aktivität e Tätigkeit, è stato proposto di tradurre ‘Aktivität’ con ‘attività’ e ‘Tätigkeit’ con un termine etimologicamente affine al tedesco ‘Tätigkeit’ ‘fattività’[24].

Sono atti spontanei interni [interne spontane Akte], secondo Reinach, quegli atti spontanei che possono compiersi in modo meramente interno. Sono esempi di atti spontanei interni, in Reinach, il rivolgere l’attenzione su qualcosa, il prendere una risoluzione [das Vorsatzfassen], l’invidiare, il perdonare [das Verzeihen]. Poiché gli atti spontanei interni possono compiersi in modo meramente interno, essi non necessitano di essere esternati, di essere resi noti, di essere comunicati ad altri. Anche quando un atto spontaneo interno è diretto ad un altro soggetto (è fremdpersonal, nel lessico di Reinach), come nel caso dell’invidiare e del perdonare, non è necessario, affinché l’atto sia compiuto, che l’altro soggetto abbia percezione dell’atto stesso, e dunque  l’atto non necessita di una esternazione, di una manifestazione verso l’esterno [Kundgabe nach außen], il soggetto al quale l’atto è diretto non ha alcun ruolo nel compimento dell’atto. Il perdono [das Verzeihen] è, secondo Reinach, un esempio di atto spontaneo interno, ed è, dunque, per Reinach, un atto che può compiersi in modo meramente interno, un atto che non necessita di essere percepito né di essere manifestato.

Agli atti spontanei interni, Reinach contrappone gli atti sociali [soziale Akte]. Negli atti sociali è essenziale il presupposto di un altro soggetto al quale essi si rivolgono, e al quale essi vogliono rendersi noti. In Nichtsoziale und soziale Akte (1911) Reinach afferma: Gli atti sociali sono atti che non riposano in sé stessi. Reinach illustra questo suo concetto di “atto sociale” attraverso l’esempio del domandare. Domandare è un atto, un fare interiore del soggetto. È anche intenzionale, ma è ancora una terza cosa. Questo ci introduce in una nuova classe di atti. È stato proposto di chiamare “eteroscopici” (dal greco ‘›teroj’ ‘héteros’ “altro” e ‘skopÒj’ ‘skopós’ “obiettivo, bersaglio”) gli atti che sono diretti verso un altro soggetto[25]. Essi hanno una direzione verso qualcuno per qualcosa.

Il verbo “perdonare” appartiene ad una categoria particolare di verbi performativi, la categoria di quelli che Amedeo Giovanni Conte (Pavia, 1934) ha chiamato verbi performativi thetici. I verbi performativi thetici designano degli atti (performativi) thetici, ossia degli atti i quali sono, in virtù del significato delle parole, immediatamente produttivi d’un nuovo stato-di-cose (o immediatamente modificano uno stato-di-cose precedente), degli atti i quali immediatamente àlterano il mondo. Esempi di atti performativi thetici: (a) consacrare; (b) sconsacrare; (c) proclamare; (d) promulgare; (e) abrogare. Il termine inglese “performative” è un neologismo del filosofo inglese John Langshaw Austin[26].

L’atto sociale del perdono è un atto performativo thetico: perdonare è dissolvere, è togliere, è aufheben, per rinuncia, una pretesa alla rivalsa o condanna. Performatività thetica anairetica del verbo “perdonare”. La natura thetica dell’atto sociale del perdono è, tuttavia, una natura thetica particolare: essa non consiste nel creare un nuovo stato-di-cose, ma nel dissolvere uno stato-di-cose esistente. Con il perdono, infatti, si toglie, si dissolve una pretesa alla rivalsa, pretesa che era venuta in essere in virtù di un offesa o di un torto subìti in precedenza da colui che perdona. Per la performatività thetica che non consiste nel creare, ma nel dissolvere uno stato-di-cose, Conte ha proposto il termine ‘performatività thetica anairetica’. Sono atti performativi thetici anairetici anche altri due atti affini al perdono: l’assoluzione giuridica e l’assoluzione religiosa. È, al contrario, un atto performativo thetico non-anairetico l’atto della condanna.

 

Ipotesi di perdono, conclusioni

Abbiamo anzitutto una presupposizione fattiva: il perdono presuppone l’esistenza del fatto che viene perdonato. Perdonare, non è né negare, né ignorare, né dimenticare il fatto che costituisce torto od offesa: al contrario, il perdono presuppone la verità del fatto che costituisce torto od offesa; si perdona perché qual fatto è accaduto.

Segue, la presupposizione axiologica: il perdono presuppone il disvalore del fatto che viene perdonato. Perdonare non è, in altri termini, né negare la negatività del torto o dell’offesa, né manifestare indifferenza per il torto o l’offesa: al contrario, il perdono presuppone la negatività, il disvalore del torto o dell’offesa. Ed ancora, presupposizione di responsabilità: il perdono presuppone la responsabilità del perdonato per il fatto che viene perdonato. Perdonare non è negare la responsabilità.

Analogo all’atto del perdono è l’atto della assoluzione religiosa, data da un sacerdote (o attraverso un sacerdote). L’assoluzione religiosa ha, infatti, le stesse tre presupposizioni individuate da Maria-Elisabeth Conte[27] per il verbo “perdonare”. Presupposizione fattiva: l’assoluzione religiosa presuppone l’esistenza del fatto (il peccato) che è oggetto di assoluzione. Ancora, presupposizione axiologica: il perdono presuppone il disvalore del fatto (il peccato) che è oggetto di assoluzione. E infine, la presupposizione di responsabilità: il perdono presuppone la responsabilità del perdonato, del peccatore, per il fatto che è oggetto di assoluzione.

È solo apparentemente affine, invece, al perdono e all’assoluzione religiosa un’altra assoluzione: l’assoluzione giuridica, pronunciata da un giudice in una sentenza. Il concetto di “fattività” è stato proposto in linguistica da Paul e Carol Kiparsky (cfr. Paul KIPARSKY/Carol KIPARSKY, Fact, 1970)[28].

In alcuni casi, si perdona colui che ritiene di averci arrecato un danno o un’offesa negando che il fatto compiuto da chi chiede il perdono abbia valore di danno o di offesa. In questo caso, tuttavia, il perdono non è rinuncia ad una pretesa alla rivalsa: non è rinuncia alla pretesa alla rivalsa perché pretesa alla rivalsa non v’è, manca, infatti, uno dei presupposti perché pretesa alla rivalsa vi sia, il disvalore del fatto compiuto. 

In altri casi, si perdona disconoscendo la responsabilità di chi chiede perdono, in quanto, ad esempio, il fatto non è stato compiuto intenzionalmente. Anche in questo caso, il perdono non è rinuncia ad una pretesa alla rivalsa: non è rinuncia alla pretesa alla rivalsa perché pretesa alla rivalsa non v’è, manca, infatti, uno dei presupposti perché pretesa alla rivalsa vi sia: la responsabilità di chi ha compiuto il fatto.

L’assoluzione giuridica non ha, infatti, le stesse presupposizioni del perdono e dell’assoluzione religiosa; al contrario, l’assoluzione giuridica ha presupposizioni opposte rispetto alle presupposizioni del perdono e dell’assoluzione religiosa:

a) Presupposizione contro-fattiva: l’assoluzione giuridica presuppone, in alcuni casi, la non esistenza (la non-sussistenza) d’un fatto, d’un fatto che sia stato compiuto dal destinatario dell’assoluzione.

b) Presupposizione anaxiologica: l’assoluzione giuridica presuppone, in alcuni casi (nei casi in cui il fatto non costituisce reato, ad esempio), la non-axiologicità del fatto compiuto dal destinatario dell’assoluzione.

c) Presupposizione di non-responsabilità: l’assoluzione giuridica presuppone, in alcuni casi, la non-responsabilità del destinatario dell’assoluzione.

Ad avere, paradossalmente, le stesse presupposizioni del perdono e dell’assoluzione religiosa è, nell’ambito del diritto processuale penale, un altro atto sociale, il quale ha senso opposto rispetto al senso del perdono e dell’assoluzione religiosa: l’atto di condanna.

Ecco le tre presupposizioni dell’atto sociale della condanna:

a) Presupposizione fattiva: la condanna presuppone l’esistenza del fatto per il quale l’imputato viene condannato.

b) Presupposizione axiologica: la condanna presuppone il disvalore giuridico del fatto (il reato) per il quale l’imputato viene condannato: il fatto costituisce violazione d’una norma giuridica.

c) Presupposizione di responsabilità: la condanna presuppone la responsabilità del condannato, del reo, per il fatto per il quale viene condannato.

Il perdono, l’assoluzione religiosa, la condanna e la vendetta sono atti che (pur avendo in alcuni casi sensi tra loro opposti) condividono le stesse presupposizioni. Ma che cos’è che fonde e collega questi quattro atti sociali? Ciò che collega è il fatto che essi sono quattro differenti forme di reazione alla violazione d’una norma.

Ma se il perdono condivide le stesse presupposizioni, e ha, in relazione alla norma violata, la stessa valenza che hanno la vendetta e la condanna, qual è la specificità del perdono?

Vi sono almeno due specificità del perdono rispetto alla condanna e alla vendetta.

La prima specificità del perdono si colloca a livello di entità giuridiche sulle quali il perdono opera: il perdono svolge la stessa funzione nomotrofica della vendetta e della condanna in una forma differente, il perdono fa venir meno la pretesa alla rivalsa non esercitandola, ma rinunziandovi.  

Ma v’è una seconda specificità del perdono rispetto alla vendetta e alla condanna, che si manifesta non sul piano degli effetti sulle entità giuridiche sulle quali il perdono opera, ma sul piano delle relazioni sociali che il perdono influenza.

Mentre la vendetta tende a rompere una relazione sociale tra offeso e offensore (e, in molti casi, tra le famiglie dell’offeso e dell’offensore); mentre la condanna tende a sospendere, a interrompere temporaneamente, una relazione tra il condannato e la società, il perdono, al contrario, tende a ripristinare la relazione tra l’offeso e l’offensore, e tra l’offensore e la società (relazioni che, con la violazione della norma rischiano di interrompersi), e lo fa attraverso una riaffermazione e una ri-condivisione della norma violata.  Di questa ulteriore valenza sociale del perdono (la valenza del ripristinare la relazione tra l’offensore e l’offeso, tra colui che ha violato la norma e la società) è indizio una specifica declinazione giuridica del perdono.

Di tutto ciò, a conclusione e rilevazione del dono ricevuto del perdono ed espressione del diritto umano alla riconciliazione sociale e cristiana evidenziamo che nel corso del Grande Giubileo del 2000, ad esempio, Giovanni Paolo II così parlava in occasione della Giornata del perdono: “Come Successore di Pietro, ho chiesto che "in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi dinanzi a Dio ed implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli”..

“Riconoscere le deviazioni del passato” – diceva Papa Wojtyla – serve a risvegliare le nostre coscienze di fronte ai compromessi del presente, aprendo a ciascuno la strada della conversione. Perdoniamo e chiediamo perdono! Mentre lodiamo Dio che, nel suo amore misericordioso, ha suscitato nella Chiesa una messe meravigliosa di santità, di ardore missionario, di totale dedizione a Cristo e al prossimo, non possiamo non riconoscere le infedeltà al Vangelo in cui sono incorsi certi nostri fratelli, specialmente durante il secondo millennio. Chiediamo perdono per le divisioni che sono intervenute tra i cristiani, per l’uso della violenza che alcuni di essi hanno fatto nel servizio alla verità, e per gli atteggiamenti di diffidenza e di ostilità assunti talora nei confronti dei seguaci di altre religioni. Confessiamo, a maggior ragione, le nostre responsabilità di cristiani per i mali di oggi. Dinanzi all’ateismo, all’indifferenza religiosa, al secolarismo, al relativismo etico, alle violazioni del diritto alla vita, al disinteresse verso la povertà di molti Paesi, non possiamo non chiederci quali sono le nostre responsabilità.”.

Perdono, riconciliazione, investe e intreccia piani molteplici di realtà della nostra esistenza, quello ecclesiale innanzitutto, per noi battezzati, ma anche quello storico, sociale, cosmico, giuridico, chiamandoci a «fare pace» con i fratelli e il creato. Quanto ci sia bisogno di questa forza fragile che, tuttavia, fa storia e si fa storia, è la cronaca stessa a dircelo.

I segni dei tempi. E le epifanie del male. Abisso di violenza, dal quale però non dobbiamo farci accecare. Altrimenti rischiamo di non vedere più le molteplici, altre forme di violenza, sopruso, ingiustizia, che segnano i rapporti fra i popoli, le nazioni, le classi, le religioni, che pretendono di farsi norma degli scenari. Quante volte la reciprocità perversa degli egoismi e degli odii, individuali e collettivi, si fa parola ultima, terminale, e sembra spegnere qualsiasi speranza di pace e di giustizia, di rispetto della vita e della sua dignità. Allora c’è bisogno di una parola ulteriore. Di un gesto, di un’energia, che ci aiuti a spezzare le catene di quella reciprocità negativa. Quella parola, quel gesto, quella presenza che irrompe nel tempo e rompe la regola del male, ha un nome perdono, grande riconoscimento del diritto alla riconciliazione umana. Al perdono umano.

 

[1] 753 a.C., sino la fine dell’impero di Giustiniano 565 d.C.

[2]  È un principio di diritto che consiste nella possibilità riconosciuta a una persona che avesse ricevuto intenzionalmente un danno causato da un’altra persona, di infliggere quest’ultima , un danno uguale all’offesa ricevuta. La più antica codificazione di tale principio, risale al codice Hammurabi, VIII sec. A.C., raccolta di leggi babilonesi nelle quali la pena per i vari reati è spesso identica al torto o al danno provocato; viene affermata nel diritto romano arcaico delle dodici tavole.

[3] Controsofferenza, sec. XIV.

[4] Vi sono due versioni della preghiera: la formula riportata nel Vangelo secondo Matteo nel Discorso della Montagna (Matteo 6,9-13), e la formula più sintetica secondo quanto riportato nel Vangelo secondo Luca (11,1), quando egli si era ritirato in preghiera uno dei discepoli presenti gli chiese che insegnasse loro a pregare, così come Giovanni Battista aveva insegnato ai suoi discepoli. Nel testo di Matteo, le prime quattro richieste sono rivolte a Dio, mentre le rimanenti quattro riguardano il genere umano. Solamente il Vangelo secondo Matteo presenta le frasi: “sia fatta (obbedita) la tua volontà” e, “liberaci dal male (maligno)”. Entrambi i testi greci presentano l’aggettivo epiousius, sebbene dibattuta  (pane) quotidiano scelta comune del termine greco del periodo della Koinè, sia per la lingua italiana sia per altre lingue moderne.

[5] Vedi: Mahatma Gandhi, 2001 nella dicitura:: “occhio per occhio ci renderà tutti ciechi”. Concezione quella del Taglione che si fa strada nella dottrina del sistema classico retributivo. Ancora: Esodo 21,24-27, Antico Testamento.

[6] uno dei predicatori più influenti del 20° secolo.

[7] Vedi: Sergio Volpe in: “La ricchezza del perdono”, in: riv. Il CRISTIANO.it del 1 gennaio 2020.

[8] Debolezza e forza, discorso di Ghandi 2001.

[9] Vedi: Bernard Rouch cit.

[10] Angelus in p.zza San Pietri, 21 febbraio 2022.

[11] Vedi: Padre G. Cavalcoli, in: “Esiste un diritto umano al perdono?” di padrecavalcoli.blogspot.com.

[12] Vedi tali concetti in Svetonio, Tito Livio e Sallustio.

[13] Art. 87, co. 10 Cost.

[14] G. Cavalcoli cit.

[15]  Vedi:Marco (10, 1-12);  Meditazione Giustizia e Misericordia, tenuta nella cappella Domus Sancte Marthae, 24 febbraio 2017, Pontefice Francesco, J. M. Bergoglio.

[16] P. Giovanni Cavalcoli ex plurimis cit.. Sappiamo infatti come una delle virtù dell’antica Roma, presagio in ciò di quella Chiesa avente il suo centro in lei,  «onde Cristo è romano» (Purg., XXXII, 99), per dirla col divino Poeta, era l’ideale dell’humanitas, il senso dell’universalità della natura e quindi della ragione umana, il senso dell’universale uguaglianza e fraternità umana, direbbe oggi Papa Francesco, giusta le parole del poeta Terenzio nell’Heautontimorumenos (I, 1, 25): homo sum, humani nihil a me alienum puto o secondo quello jus gentium o quella lex non scripta, dei quali parla Cicerone, dei quali abbiamo un’eco nello stesso San Paolo (Rm 2,14-15), quella che la successiva dottrina della Chiesa con San Tommaso chiamerà «legge naturale», corrispondente al decalogo mosaico.

[17] Gianfranco Garancini: “il perdono nella giustizia degli uomini”, in:jus vita e pensiero, articoli cattolici 2020.

[18] Gianfranco G. cit.

[19] Giustizia in: Treccani del diritto, 2020.

[20] Anora G. Garancini: “Il Perdono nella giustizia degli uomini” op. cit.

[21] Luigi Bagolini: “Poesia e giustizia, Diritto e tempo”, 1998, ed. Giuffrè.

[22] Ancora profusamente G. Garancini cit.

[23] Nel volume “I fondamenti a priori del diritto civile (1913)”,  di Adolf Reinach [Mainz, 1883-Diksmuide, 1917]

[24] cfr. Francesca DE VECCHI/Lorenzo PASSERINI GLAZEL, Gli atti sociali nella tipologia degli Erlebnisse e degli atti spontanei in Adolf Reinach (1913), 2012).

[25] cfr. Francesca DE VECCHI/Lorenzo PASSERINI GLAZEL, Gli atti sociali nella tipologia degli Erlebnisse e degli atti spontanei in Adolf Reinach (1913), 2012).

[26] cfr., in particolare, John Langshaw AUSTIN, How to Do Things with Words, 1962). 11 L’aggettivo ‘thetico’ viene dal greco ‘t…qhmi’ ‘títhēmi’ “porre”. Il concetto di “performatività thetica” è stato originariamente proposto da Amedeo Giovanni Conte (cfr. Amedeo Giovanni CONTE, Aspekte der Semantik der deontischen Sprache, 1977; Amedeo Giovanni CONTE, Aspetti della semantica del linguaggio deontico, 1977, 31989; Amedeo Giovanni CONTE, Performativi, 2007.

[27] Docente per anni di semiotica, 1935.1998, Università di Pavia; testi principali: “Pragmatica e semantica tra storia e innovazione” a cura di: F. Weiner e D. Proietti; Carocci ed. 2020;  Condizioni di coerenza. Ricerche di linguistica testuale”;  A cura di Mortara Garavelli; ed. dell’Orso 1999.

[28] Filosofia linguistica 1990,