Artemisia Gentileschi l’esempio di ribellione al dramma subito
Artemisia Gentileschi l’esempio di ribellione al dramma subito
Abstract
Artemisia però a differenza di ciò che avrebbero fatto molte sue contemporanee, rifiutò l’accomodamento e, cosa incredibile per l’epoca, denunciò alle autorità il suo aguzzino. La pittrice però venne sottoposta a umilianti visite mediche e torture per verificare la verità dei fatti (in quegli anni era quasi scontato che la colpa della violenza venisse attribuita alla donna, colpevole di aver sedotto e provocato il suo aggressore).
Artemisia, unlike what many of her contemporaies would have done, Artemisia refused the accomodation and, incredibly for the time, reported her tormentor to the authorities. The painter, howevwr, was subjected to humiliating medical examination and torture to verify the truth of the facts (in those years it was almost a given that the blame for the violence would be attributed to the woman, guilty of having seduced and provole her attacker).
Introduzione scenario storico-familiare
Uno dei personaggi femminili presi in elevata considerazione dal punto di vista storico-artistico nell’orizzonte della pittura del 1600; discusso per le vicende personali di cui la sua interpretazione stilistica intrecciata alle inquiete vicissitudini intime sicuramente incisero nel riconoscimento di valore artistico – non comune- e poi sull’enorme fama ricevuta anche sul piano estero. In Italia il suo scenario del diciassettesimo secolo già veniva osservata come gemma preziosa in uno scenario estroso-pittorico dove il predominio era del sesso forte (Biografia storica: ARTEMISIA GENTILESCHI e il suo tempo, SKIRA ed. ARTHEMISIA group, di Nicola Spinosa 2016; Anna Banti, “Artemisia”, 1947, ed. SE, 2015;LETTERE DI ARTEMISIA, Nuova edizione critica annotata, DE LUCA EDITORI D’ARTE, Francesco Solinas, 2021). Una vita simile ad un romanzo criminale ed uno stile capace di rapire il senso più profondo della realtà. Artemisia Gentileschi compone tutto questo: non solo una morbida e attraente pittrice che riuscì ad imporsi nell’orizzonte del XVIII sec. –non semplice nel periodo maschilista- ma una giovane donna che decise di non prostrarsi di fronte al sopruso e alla violenza. Questa la sua storia.
Nacque a Roma l’8 luglio 1953, figlia di Prudenzia di Ottaviano Montoni e Orazio Gentileschi, pittore di origine pisana che introdusse la stessa nell’ambiente pittorico. A 5 anni la piccola divenne orfana di madre e ciò non fece che saldare ulteriormente il legame paterno, il quale seppe dar valore al talento naturale di Atremisia e l’indirizzò avvicinandola alle tecniche pittoriche del Caravaggio, già apprezzatissimo all’epoca e vero “idolo” di papà Orazio. Apprese le fondamenta del mestiere, dal disegno sino alla preparazione dei colori, Artemisia cominciò una vera e certa collaborazione con il padre e nel 1610, a soli 17 anni, concluse la sua prima opera di importanza fondamentale, Susanna e i vecchioni, che ai posteri può apparire già come preludio alla “poetica” dell’artista, poco incline ad accettare la posizione di pura sottomissione che il mondo di allora riservava a tutte le donne. Il quadro non a caso ha per protagonista una donna, Susanna, sottoposta ad un ricatto umiliante da parte di due vecchi.
Vicenda Giudiziaria
La storia giudiziaria che coinvolse nel marzo del 1612 che coinvolse la giovane pittrice Artemisia Gentileschi, ebbe ad oggetto in discussione lo stupro che Ella subì ad opera di un conoscente, Agostino Tassi, pittore come il padre di lei, Orazio Gentileschi e collaboratore insieme a quest’ultimo nella esecuzione di svariate opere d’arte. Lo stesso sangue paterno, nel desiderio di perfezionare al massimo l’educazione e preparazione dell’arte pittorica della discendente, a domandare all’amico con il quale stava lavorando nei pressi di Monte Cavallo alla loggetta del cardinale Borghese, di renderla “praticante” nella prospettiva per la quale spiccava già per virtuosismi lo stesso Tassi. Si diresse così nel mondo di Artemisia, diciottenne eclettica e particolare, quell’uomo che cooperò a indirizzarne il destino.
Da quel momento in avanti, Agostino Tassi cominciò a frequentare la casa dei Gentileschi e non si attardò a provare vis actrattiva, e primariamente dichiaratosi, tentò in vari modi poi riuscendo a possederla ma per il tramite della forza nel maggio del 1611. Nell’immediata violenza sulla giovane, il Tassi le giurò che sarebbero convenuti in matrimonio, intrattenendo così per un anno circa un rapporto non spurio di clandestinità, pesantemente interrotto dalla veemente supplica manifestata da Orazio Gentileschi presso il Pontefice Paolo V nel marzo del 1612 al fine di instaurare un processo per lo stupro subito dalla amata figlia. Il processo fù celebrato nel 1612 e ricorda le opere di stile caravaggesco che la giovane donna pennellerà negli anni a seguire, ritrovandosi le medesime tinte ombrate ed i chiaroscuri di un quadro: reiterate furono le bugie dell’accusato, che ardentemente negherà sino alla fine, la discussa reputazione della vittima in un alternarsi di testimoni quasi in gara competitiva fra loro per omettere la verità, così che il processo apparve un vero disegno di omissioni e bugie con pesanti accuse scambievoli da tutte le parti in dibattito.
Dalla scorsa degli atti processuali resi pubblici (atti pubblicati da Eva Menzio, in: “…Lettere precedute da Atti di un processo di stupro, Abscondita, Milano 2004, ed Elisabeth Cropper, “Artemisia Gentileschi la “pittura” in: Barocco al femminile, a cura di Giulia Calvi, Laterza, Bari 1993). Viene creata l’occasione per una sintesi riflessiva su singolari aspetti caratterizzanti la disciplina del delictum stupri tra Cinquecento e Seicento, categoria talmente dispersiva da considerare delitto qualunque ipotesi di esercizio della piena sessualità praticato al di fuori del matrimonio riconosciuto, violenza o consenso che fosse, vi concorresse o meno il pieno consenso femminile, non esprimendosi in diritto di libertà della donna per essere tutelato contro attività violenta bensì un bene giuridico, la virginitas o castitas di cui la donna risultava solo “portatrice” per conto di terzi. A sostegno che costituisca il fulcro centrale dei beni l’onore della famiglia e della donna e dunque tutelati dalla fattispecie di stuprum si applica il trattamento sanzionatorio previsto, che in generale ammette la negoziabilità della pena per mezzo della quantificazione in moneta del danno arrecato a tutta la famiglia in primis, ed in secondo luogo sulla figura femminile. La famiglia dunque, viene reintegrata in toto negli interessi lesi dal punto di vista monetario: ad un “fruttuoso” matrimonio della vittima, poi il riacquisto pieno della donna ad essere mulier onorata ed in quanto tale di facile impegno all’unione.
Al fine di entrare nella effettiva cognizione delle ragioni che si muovono intorno ad una fattispecie così generica ed anche contraddicente se medesima e di perenni condizionamenti storici sui costumi sociali e la mentalità comune e giuridica nazionale, si seguono le impronte che muovono delle considerazioni di ordine generale concernenti soprattutto il fattore storico e giuridico nel quale il fatto umano di Artemisia Gentileschi si è consumato, per poi giungere sul percorso processuale celebrato sulla figura di Agostino Tassi. La cultura giuridica che si manifesta nei secc. Cinquecento e Seicento è un concreto potere politico absolutus che si pone al di là ed in contrasto ai poteri intermedi di derivazione medievale non sopprimendoli poiché non ancora autonomi di esprimersi per mezzo di una legislazione piena con provvedimenti generali ed astratti in grado di entrare con autorità sulla generalità degli uomini ed aventi efficacia erga omnes. In tale percorso temporale di piena transizione, il potere politico si avvantaggia con l’opera di giuristi che tramite le vaste produzioni daranno vita allo scheletro del sistema, fornendo le modalità opportune a giustificare e legittimare il potere del Princeps. Analizzando il delictum stupri del pieno Cinquecento, balza all’occhio che la fattispecie di stuprum viene intesa in assoluto a tutela dell’onore delle famiglie, formando la ratio di un delitto che protegge un diritto di libertà della vittima da un atto coatto per la violenza posta in essere, quanto l’onore della famiglia tutta, fatto di interessi economici e patrimoniali per cui monetizzabili, di cui la verginità femminile costituisce un “marchio distintivo”. Dunque in tale prospettiva d’ordine, diventa delitto qualsiasi esercizio della sessualità che non rientri nel matrimonio sia in modo violento sia non che avvenga, vi sia o no il consenso della donna. Tiene così la giustificazione della configurazione di crimine di stupro come genus comprensivo della fattispecie di stupro violento e dell’ipotesi critica e controversa dello stupro sine vi, ovvero con consenso, nella quale si distinguerà la specie dello stupro qualificato dalla promessa di matrimonio, dove entra in pieno la storia fattuale di Artemisia Gentileschi, sul fondamento delle proprie dichiarazioni e dei testimoni nel processo. Dall’ inizio del rito processuale l’orientamento era di accertare la sussistenza del corpo del reato, che nell’ipotesi di stupro era identificato con la verginitas della vittima, rappresentando la stessa l’oggetto avverso il quale materialmente il reato veniva indirizzato e consumato.
Sin dal principio, a cominciare dalla audizione, Artemisia era tenuta non solo a raccontare con precisione la violenza subita ma a sostenere soprattutto la propria bona fama, seguendo lo stile narrante normalmente ordinato alle querelanti, in primo luogo ribadendo nuovamente di aver manifestato la propria opposizione con decisiva constans et perpetua voluntas, in ogni-qualmodo difendendo la personale onestà, essendo la prospettazione scenica della violenza il riscontro più oggettivo di una sua volontà onesta, in secondo luogo con descrizione dettagliata nei minimi elementi del fatto violenza con un linguaggio neutro, che si concili col “naturale pudore” di una donna di piena onestà, poiché l’utilizzo di termini scabrosi o imbarazzanti e volgari poteva potenzialmente dare adito a dubbi d’immagine di donna raggirata, ingannata e di piena onestà.
Ovvio che la vittima di stupro fosse tenuta a sostenere strenuamente a difesa la personale onestà durante tutto il rito inquisitorio al fine di essere garantita come meritevole di protezione; in due momenti temporali densi emergerà ad Agostino Tassi, la formalis recognitio della donna per opera di due ostetriche e la sua sottoposizione a tortura. Ogni processo per stuprum dopo l’audizione della vittima e dei testimoni ritenuti de bona fama (ad oggi attendibili) segue, dunque la formalis recognitio di due ostetriche per meglio individuare i segni tecnici della deflorazione femminile, confermando o smentendo con ciò la sostenuta onestà della vittima. Solamente nel momento istruttorio si ha il drammatico confronto tra artemisia Gentileschi e l’imputato Tassi. Durante questo confronto alla giovane donna sarà praticata la tortura del tormentum sibilo rum, il cui scopo era di espiare la macula della corruzione fisica, inducendola al sospetto di essere stata correa nel delitto. La Tortura in tal tipo di processo è mezzo di prova a cui si aggiunge il divenire mezzo di espiazione della colpa della vittima di stupro, che non altrimenti poteva essere considerata purificata e dunque credibile a tutti gli effetti.
Più esiguo valore assumono gli atti relativi alla fase finale del processo: di concessione dell’inquisitore un termine di tre giorni a difesa di Agostino Tassi per poter indicare testimoni a favore oltre che per poter repetere i testimoni della controparte accusatoria; potenziale esito condannatorio poteva consistere il versamento in denaro di una dote per la vittima in base alle risultanze processuali e in base a quanto narrato ritenuto attendibile quantomeno sul fatto attribuibile ad Agostino Tassi. La difesa dell’accusato si è consolidata in brevi tempi e poche attività visto che alcuni mesi più tardi verranno celebrate in riparazione di quanto accaduto, le nozze tra Artemisia Gentileschi e Pietro Antonio Stiattesi: questo denota che sicuramente v’era una dote monetaria in via risarcitoria per sostenere il necessario epilogo nunziale, per solennizzare in rito riparatorio sul piano sociale necessario per il senso morale avvertito in quel periodo storico, al fine di tutelare tutta la famiglia compreso il patrimonio al posto di un singolo soggetto. Rimembriamo dunque che sino al XVIII sec., nelle legislazioni europee lo stupro violento veniva punito con sanzioni risarcitorie pesanti sino a spingersi alla pena capitale. Il rifiuto di munire di dote comportava pena detentiva di durata variabile a seconda degli ordinamenti giuridici e dei particolari periodi storici (Vedi: G. Cazzetta, Presumitur Seducta, Onestà e consenso femminile nella cultura giuridica moderna, Giuffrè, Milano 1999; R. Mendoza, Due processi per stupro in epoche lontane, Aracne, Roma 2012).
La protezione giuridica sostanzialmente riguarda valori ritenuti preminenti rispetto al consenso prestato, come l’onestà della donna e l’eticità del rapporto sessuale, mediante una valutazione “paternalistica” della sessualità della donna interpretata non in una forma di dominio oppressivo di un sesso rispetto all’altro, ma su un rapporto asimmetrico tra o due soggetti, nel quale la donna viene considerata incapace di attendere in modo autonomo ai propri interessi (L. Ferrante, M.Palazzi, G. Fiume, Ragnatele di rapporti, patronage e reti di relazione nella storia delle donne, Rosemberg & Sellier, Torino, 1998). Il riferimento all’onestà e alla seduzione, piuttosto, che al consenso, trova un chiaro riconoscimento già nella costituzione imperiale Giustinianea sul ratto, che sarà ripresa e tematizzata da giuristi del diritto comune e a seguire ed all’ epoca di Costantino il consenso della donna è il vero oggetto di indagine ai fini dell’accertamento del fatto di reato.
Bisogna chiarire che l’atteggiamento di ampia protezione tutoria e senza condizioni della donna si conforma nell’elaborazione di una fattispecie di stuprum che non presenta violenza come vero elemento costitutivo e nella quale il consenso di Ella non scrimina, ma comporta solamente un minore rigore sanzionatorio essendo considerato di fatto “non vero” poiché carpito con la voluta seduzione e con il raggiro ingannatorio. “Virgo semperpraesumitur seducta et decepta” (Antonio Gomez: “Ad Leges Tauri commentarium, Lex 80, n. 10). Tale presunzione va a costituire il fondamento tecnico-scientifico dello stupro semplice, estendendo la sfera di tutela femminile oltre la violenza carnale (Ancora magistralmente: dr.ssa Elisa Ferraretto cit.). Anche nel caso si manifesti consenso femminile, non va a trattarsi di una libera e reale adesione alla congiunzione carnale, ma di uno “scivolone” attribuibile alla evidente e sola malizia dell’uomo ed alla innata e fisiologica fragilità di fronte alla sensualità e sessualità femminile. La figura di donna che non emerge è quella di una femmina sempre vittima, meritevole di protezione in quanto nell’intimo onesta, al di la di un consenso apparente: nessun terreno di tutela è infatti concesso alla libera volontà, ma soltanto a quella volontà pienamente onesta. (vedi: Claudio Povolo: “Rappresentazioni dell’onore nel discorso processuale (da una vicenda istriana degli inizi del Seicento) in: Acta Istriae, vol X, Koper, Capodistria 2000). Da questa scelta strategica procedurale di narrazione fattuale incisiva sul sentire intimo, che le querelanti adottano adeguandosi al modello elaborato dai giuristi, non riguardante esclusivamente i momenti topici, come ad esempio il corteggiamento o la deflorazione, ma –importante- l’utilizzo di un linguaggio definito nel tema: “l’indizio più rilevante della mancanza del corpo di reato” ; le modalità interlocutorie della querelante, il suo modo di esprimersi non è consono di una vergine onesta, ma di una donna che già ha sperimentato amore corporale. Se una dialettica consona poteva esser indice della morale della “sedicente” vittima, di certo non era elemento sufficiente, dovendo ella trovare sin dall’inizio testimoni che deponessero in suo favore. All’inizio delle deposizioni, infatti, il cancelliere interrogava espressamente in questione la querelante (Vedi: Oscar Di Simplicio, Sulla sessualità illecita in: Antico Regime, in La Leopoldina, criminalità e giustizia nelle riforme del Settecento europeo, -a cura di- Luigi Berlinguer e Floriana Colao, Giuffrè, Milano 1991) ; In tale testo si verifica come ad esempio a Siena nel percorso storico tra il 1530 ed i primi del Settecento i processi per stupro fossero i secondi a quelli di furto e, come nella sfera dei primi, fossero essenzialmente prevalenti le querele per stupro con consenso (Vedi: G. Arrivo: Raccontare lo stupro. Strategie narrative e modelli giudiziari nei processi fiorentini di fine Settecento, in Corpi e storia. Donne e uomini dal mondo antico all’età contemporanea, a cura di Nadia Maria Filippini, Tiziana Plebani, Anna Scattigno,Viella, Roma 2002) chiedendone di nominare dei soggetti che potessero informare la corte sulla sua onestà. Indispensabile per la donna era fornire dimostrazione di essere realmente bonae conditionis et famae, citando persone del vicinato o familiari che dichiarassero “in qual concetto” si considerava presso il pubblico la donna in questione. L’onestà prendeva concretezza nella buona reputazione, nella fama di fanciulla onesta, che mai aveva fatto parlare di sé e da sempre fedele ad un solo uomo. Proprio in tal modo si esprimono i testimoni di Artemisia, Tuzia e Giovanni Stiattesi: la prima dando conferma alla deposizione della giovane, ribadisce l’esclusività del rapporto che la univa ad Agostino, nonché che Artemisia aveva ottenuto la promessa di matrimonio. Lo Stiattesi ancor più attendibile, conoscendo a pieno ambo le parti da importanza a quanto pubblicamente ritenuto. Prettamente giuridico e di valore, non è tanto l’indisponibilità del bene giuridico da parte della vittima, si parla di consenso femminile falsato dalla persuasione, pertanto è inesistente una consapevole volontà della donna, ma solo delle capziose manovre da parte di abili seduttori. In epoca medioevale, la protezione dell’onestà femminile trova fondamento importante nella classificazione dei peccati di lussuria contenuta nella Summa Theologica di San Tommaso d’Aquino, secondo il quale la specifica dello stupro riguarda l’attentato alla verginità, che è un bene appartenente alla donna ed alla sua famiglia d’origine. La connessione tra diritto, morale e religione non deve meravigliare, poiché nella concezione tomistica, la legge non si prospetta come un vincolo esteriore che obbliga l’uomo, ma come elemento di istruzione per il raggiungimento del bene che la persona conosce attraverso la retta ragione e che postula un sistema di coerenza ed interconnessione tra norme religiose, morali e giuridiche. La legge è la strada maestra per raggiungere il personale fine e la piena e libera volontà della persona è un tendere razionale per una virtuosa inclinazione alla propria realizzazione che possiede l’essere umano e le stesse istituzioni in modo consapevole. La volontà umana è dunque accompagnata dalla conoscenza del fine e delle inclinazioni naturali che vengono interpretate e regolate dalla ragione, intesa non come facoltà di calcolo o di quantificazione, ma come capacità ordinante, come recta ratio (Vedi: R. Pizzorni, Diritto naturale e diritto positivo in San Tommaso d’Aquino,Ed. Studio Domenicano, Bologna 1999).
L’obbligo di sposare e quello di munire la fanciulla di dote sono palesemente distinti tra loro, si deve comprendere in quali casi l’obbligo di dotare prenda il vantaggio sull’obbligo di sposare: secondo una impostazione che tutela l’onorabilità femminile e familiare, più che la sua libertà, l’inclinazione naturale della donna al matrimonio dovrebbe portarla ad accettare sempre la proposta nuziale da parte del seduttore. Viceversa una impostazione che dia peso al valore del consenso libero per la conclusione di un valido matrimonio postula che la donna abbia teoricamente una libertà di scelta anche postuma alla consumazione dello stupro. Sempre teoricamente ciò le dovrebbe consentire di scegliere la dote al posto delle nozze, a prescindere dalla volontà dei genitori. Questa ultima possibilità non viene nemmeno considerata dai penalisti prima del XVIII sec., che ritengono la strada del matrimonio sempre migliore per le maggiori tutele offerte; ne segue che sul piano giuridico le scelte della donna, hanno un secondo piano rispetto alle valutazioni che si danno agli interessi familiari e sociali (Cazzetta, Presumitur Seducta. Onestà e consenso femminile nella cultura giuridica moderna op. cit). Considerando per scegliere tra la dote ed il matrimonio, l’osservazione cade sulle condizioni personali dell’autore del crimine, esempio sommo risulta la differenza di censo o il precedente stato coniugale omesso e da ciò il consenso matrimoniale è questione che passa nel terreno canonico ed altamente teologico.
Conclusioni
Il primo luogo geografico a depenalizzare lo stupro in forma semplice lasciando la tutela penale solamente per lo stupro violento fu il Regno di Napoli nel 1779, dando origine ad un processo di depenalizzazione che interesserà nell’Ottocento molti ordinamenti europei. La depenalizzazione dello stupro semplice verrà decantata dai giuristi dell’illuminismo come un vero progredire sugli antichi retaggi medioevali che non davano valore alla volizione femminile, ma analizzando accuratamente i provvedimenti come quello citato, è dimostrato che furono adottati a guarentigia e tutela delle politiche matrimoniali delle famiglie maggiormente abbienti e, dunque, di un ordine sociale ancora rigido ancorato ai ceti; il tema fulcro non è la depenalizzazione e neanche la differenza tra diritto e morale, ma il tumulto sociale provocato dalle presunzioni dei giuristi, da protezioni oggettive dell’onestà, prima fra tutte quella di sposare ovvero dotare.
La donna, in quanto socia criminis, non è degna di tutela giuridica, come neanche della protezione della dote o del matrimonio che pone in dibattito acceso la rigida separazione dei ceti nel girone dei rapporti di relazione familiari. Qui sorge il problema non da poco delle fanciulle che, a costo dell’onore, puntano a perseguire la dote o il matrimonio che conviene di più, passando dall’innocenza di essere sedotte all’essere mantidi seduttrici, a volte con l’approvazione della stessa famiglia il cui onore stesso viene tutelato dalle norme di Ancien Régime sullo stupro semplice. La depenalizzazione dello stupro semplice è la diretta conseguenza nel diritto positivo di questa mutata sensibilità umana: solo la concreta ed accertata onestà ha cittadinanza di tutela dalle norme previste, poiché non si possono bilanciare violenza e fervorosa passione, sulla base di mere presunzioni che non danno dignità di attenzione all’ elemento necessario del consenso femminile (Ancora Cazzetta, op. cit.).