Matisse. l’Oriente è la mia vera casa

Henri Matisse, Femme et anémones, (1920 circa) - immagine Wikimedia Commons
Henri Matisse, Femme et anémones, (1920 circa) - immagine Wikimedia Commons

Matisse. l’Oriente è la mia vera casa

 

Matisse, nato pittore in interni ovattati da una penombra avvolgente e tra nature morte lucenti di vetri e ceramiche, di frutta e tovaglie bianche che segnano il suo felice esordio di fine Ottocento, entra nel Novecento disposto a partecipare alle nuove esperienze con lo spirito di un esploratore che abbia in mente una meta precisa, sia pur vaga, per la quale cerca il sentiero da battere.                       

Quelle forme che sono state per lui oggetto di cura particolare, nel disegno, nelle ombre e nelle luci, sente di doverle adeguare alle esigenze nuove; aprendo e sfaldando i loro contorni per intriderle di luce ma attraverso il colore puro che assume un ruolo primario. La sua luce non sarà più quella atmosferica degl’impressionisti, ma nascerà intrinsecamente al colore e ai suoi accostamenti come pura invenzione, impeto amoroso, ebbrezza.                                                                 

L’impennata fauvista, quel far urlare ai colori puri la loro potenza, segna per lui l’inizio di una ricerca che troverà nei diversi aspetti dell’Oriente la propria soddisfazione. L’Oriente di Matisse spazia infatti dalla Russia al Giappone e dall’Egitto ai primitivi in genere, per l’appropriazione di un mondo di fiaba, di festosa religiosità e d’innocenza. Per questo guarda, da pittore moderno, ai colleghi antichi dei Paesi che hanno alimentato più la fiaba che la realtà. Adora l’Oriente ma non può cancellare la propria natura di occidentale che ogni tanto si ripresenta, s’impone, patteggia: può comporre un quadro tenendo il tutto su un solo piano, risolto con un tono rosso che fa da pavimento e da pareti, rinunciare alla terza dimensione e a ogni inganno prospettico, salvo una sedia in primo piano che si presenta risolta con chiavi estetiche che pensavamo ripudiate ma che pure non stonano nel contesto.                                                                                                                                              

Anche le sue stesure di colore non sono piatte come quelle dei pittori orientali ma succose e plastiche; restano insomma <pittura>, secondo l’idea occidentale, in ogni loro pur piccola parte. Solo nel suo periodo estremo, quando comporrà ritagliando fogli colorati da consumato decoratore, per necessità, per stanchezza o per superamento, rinuncerà al colore come materia viva, da plasmarsi, esaltata nella propria sensualità luministica.                                                                              

La pittura di Matisse è un’astrazione dalla realtà, sia pure soltanto come variazione su tema, dove il soggetto non scompare mai del tutto. Dei modelli orientali, a lui, pittore europeo del XX° secolo, manca ovviamente l’impassibilità; la sua partecipazione è in realtà costante e festosa, non c’è angoscia nei suoi dipinti ma neppure indifferenza, e il proprio humus nativo è presente nella stessa materia che colora e disegna.     

Pensa all’arte come a <una comoda poltrona per un corpo affaticato> e a luminosità da acquario per cullare il pensiero abbandonato in una <voluttà sublimata>.                                                                                                                                     

Ogni tanto, oltre ai costanti valori plastici, a riportarlo all’Occidente è il senso dell’individualità da trovarsi negli stessi oggetti. Quando dipinge il ritratto di Antoinette col cappello di piume 1919, (il “ritorno all’ordine” è nell’aria e Matisse lo adotterà pochi anni dopo nelle bellissime “odalische, anche in litografia), non si perita di affermare: <La piuma è considerata come ornamento, come elemento decorativo, ma essa rappresenta anche qualcos’altro, è un materiale, si sente per così dire la sua leggerezza, la piuma soffice, impalpabile che possiamo sollevare con un soffio. La stoffa della blusa è di una qualità tutta particolare… Voglio rendere contemporaneamente ciò che è tipico>. Insomma, la propria idea d’oriente lo aiuta, nella crisi d’identità europea, a svincolarsi quanto basta da troppo stretti legami con la tradizione greco-romana-rinascimentale pur senza recidere le radici: <Sono fatto di tutto ciò che ho visto>, affermerà, ma avrebbe potuto aggiungere, - e anche di ciò che mi ha preceduto>.                                              

La volontà di quiete, di gioia puramente coloristica nella quale sembra adagiarsi Matisse, e in genere i suoi colleghi liberi da ideologie politiche (ma vale anche per Picasso se pensiamo che il celebrato Guernica è un titolo d’occasione aggiudicato a una corrida), può far pensare a un’assenza di problemi o a una fuga volontaria della realtà; Georges Duthuit, genero di Matisse, letterato e critico d’arte, se lo domanda in un lucido e avvincente saggio, “Matisse e lo spazio bizantino” pubblicato attorno al 1950 sulla propria rivista “Transition” e ora riportato nel catalogo della mostra: <L’Europa sta andando in pezzi ma la pittura continua a prosperare. Non ko perso niente di quella misura, di quell’armonia semplice e pura, di quelle superfici splendenti che, nel contesto di un castello, tra ospiti accuratamente selezionati e fedeli servitori, aggiungeva un sovrappiù di grazia ai fasti>. Deve però constatare che, tutto sommato, <questo è il solo tipo di pittura da prendersi in considerazione>, visto il fallimento del “realismo socialista” <a causa del divario tra capacità e obiettivi>, e pur considerandola una <disperata passerella sull’abisso> non resta che accontentarsi e <ammettere implicitamente l’incapacità dell’arte di modificare le condizioni fondamentali dell’esistenza>, come supponeva un’utopia ormai demodé. L’indifferenza che Duthuit crede di riscontrare nell’opera del suocero e di altri pittori, non è in realtà che il rifugio disperato, sul momento, nella torre d’avorio, necessaria all’artista per sedersi al cavalletto, sognare e così continuare a sperare. Sarà comunque una torre d’avorio con i suoi taciti, costanti e necessari spifferi, e se a Matisse arrivano addirittura dall’Oriente, restavano purtroppo solo un fatto personale, una delle tante testimonianze dell’inedia nella quale da tempo si culla l’Europa.                  

Articolo uscito su “Il Giornale”, Milano,19 novembre 1997