Corte Costituzionale: da decidere la legittimità dei mancati diritti intimi in carcere
Corte Costituzionale: da decidere la legittimità dei mancati diritti intimi in carcere
Abstract
Questione odierna sottoposta dalla difesa di un detenuto del carcere di Spoleto alla Consulta dove si sostiene che la cella non è un postribolo per sminuire o annientare i diritti intimi che fanno parte dei diritti umani da garantire pienamente a tutti.
Abstract
Today’s question submitted by the defense of a prisoner of Spoleto to the Consultation Court where it is argued that the celli s not a brothel to diminish or annihilate the intimate rights that are part of human rights to be fully guaranteed to all.
Tra i forti garanti dei diritti umani e del cittadino, è sempre più sentita – salva la pressione esercitata dai soggetti coinvolti personalmente – l’esigenza dell’affermazione piena dei diritti intimi quali la pratica del rapporto sessuale presso le mura detentive ove si sconta la pena inflitta in esecuzione sentenza penale.
Sostanzialmente, è sollevata la questione delicata se “la limitazione della libertà personale comporta una compressione del diritto alla libertà sessuale in connessione della privazione della autodeterminazione soggettiva ovvero, che l’istituto penitenziario non ha voce né legittimazione alcuna di privare né revocare sensibilmente tale diritto divenendo un postribolo di Stato”.[1]
Come viene descritto nel lavoro scientifico citato in nota, la pena detentiva viene espiata di frequente da soggetti che hanno solenni o meno rapporti di coppia con figli a carico o in prognosi eventuale di porre in essere un nucleo famigliare. Nient’altro si auspicano tali soggetti ristretti un radicale cambiamento umano e riabilitativo sociale al fine di integrarsi realmente in una società civile.
Per sostenere concretamente che il carcere diventi un luogo umano, civile e risocializzante non può determinare il soffocamento esclusivo né parziale di tutto ciò che attiene alla sfera intima e/o affettiva ed emotiva (esigenze fisiologiche a parte) di chi si trova in situazione di limitazione corporale ovverosia detentiva.
Nel contesto social-moderno attuale, definibile democratico e di guarentigie massime, non è ammissibile operare attraverso strumenti proibizionistici in riferimento agli aspetti intimi dell’uomo.
Partendo dal principio ispiratore fissato in Costituzione all’ art. 27, e cioè, che la pena detentiva dovrebbe essere umana e rieducativa, si obietta come la “coatta privazione della libertà sessuale” porti ad una negazione di grado massimo di entrambe i principi enunciati.
Non è umana una pena che tolga spazio ad un sentimento di elevato spessore esistenziale e sociologico e che provochi veri danni all’integrità psicofisica dell’individuo. Alla privazione della libertà suddetta, si riconduce – ed è facile capirne il motivo – la “proliferazione” di trasformazioni del concetto o sentire eterosessuale ad omosessuale ossia di una identità intima ben qualificata, a fenomeni di autoerotismo compulsivo non gestibile, agli stupri o atti consumativi violenti, sino alla malattie sessualmente trasmissibili per non parlare degli atti estremi di suicidio.
Negli stessi termini, non è affatto rieducativa una pena che fa da apripista al peggioramento della personalità del detenuto/a e allo sgretolamento dei rapporti che ab origine aveva o che avrebbe potuto realizzare in condizioni di libertà di movimento e azione nel mondo esterno.
Non è minimamente sostenibile un intervento di risocializzazione seria di una persona “destrutturata” ed “annientata” nel fisico e nella mente e privata di ogni supporto significativo dei propri cari, o di chi si ritiene importante per la propria vita.
Nel percorso detentivo, i rapporti familiari e sentimentali sono fondamentali ai fini ultimi del completamento risocializzante per reinserirsi nella comunità civile, in quanto uniche componenti che fanno venir meno lo “status derelictus” tenendo accesa la possibilità di una vita sana e dignitosa senza ritornare all’epoca storica dello “splendore dei supplizi”[2] pre-illuminista, dove la pena inflitta al condannato doveva operare sul corpo bensì come strumento agente sulla sua indole.
Limitandone al massimo livello i movimenti, le scelte, le determinazioni, le volontà corporee e no, il carcere rimane una pena corporale anche se il rapporto castigo-corpo si trasforma radicalmente, il patimento fisico finisce di essere l’elemento costitutivo della pena intesa come sanzione del diritto penale per entrare a far parte dei principi propositivi per un’anima pulita più conforme alle norme civili.
Il passaggio storico è quindi quello che viene identificato come periodo della “sobrietà punitiva”[3].
Questo profondo mutamento portò il cittadino a vedere e ripensare lo Stato non più come ente sovrano tiranno ma come una sorta amministratore di sostegno – oggi diremmo – che cerca di comprendere dove e perché il soggetto affidato sbaglia e indirizzarlo verso la cura opportuna dei suoi interessi primari e secondari e al contempo un giusto garante del punire in modo intransigente l’errore imperdonabile e il pericolo concreto.
In tutta questa evoluzione del sentire la pena come strumento correttivo e di risocializzazione non manca chi vede e coglie con minore intensità un carattere pur sempre afflittivo di rigore a volte indisciplinato[4]. Sotto un profilo squisitamente umano, il detenuto oggi rimane assolutamente “denudato” degli stimoli emotivi e dei beni profondi concernenti la sua esistenza; e il passato –seppur sbagliato – ma pieno di stimoli, affetti familiari e non, lavoro, piaceri, consuetudini quotidiane, diviene sempre più distante ed irraggiungibile.
Per il diritto penale moderno, in carcere si dovrebbe entrare perché puniti non per essere lì la sede di punizione da scegliere, la sottrazione della libertà personale è già la pena, è da escludere quindi, qualsiasi altro patimento adiuvante e reprimente della persona umana.
Riprendendo la problematica in esame del diritto ad una piena e libera sessualità in carcere, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati dott. Giuseppe Santalucia, fa notare che già nel 2012, la Consulta, pur ammettendo il diritto alla sessualità dei detenuti nelle carceri italiane, ha rimandato la questione al legislatore nostrano. Ad oggi, l’unica via accessibile sono solamente i permessi premio, per mezzo dei quali ogni detenuto che ne usufruisce, può vivere la propria sessualità ed affettività ab esterno la realtà carceraria.
L’esistenza vera e tangibile di aree carcerarie adibite a spazi – nel rispetto della riservatezza – idonei dove il detenuto possa esercitare l’affettività e la propria sessualità è realtà che riguarda Stati europei quali la Norvegia, Danimarca, Germania, Olanda, Belgio, Francia, Spagna, Croazia ed infine l’Albania.
A parere del presidente Santalucia, forse si “sconta un pregiudizio culturale per cui l’affettività sessuale non rientra nei diritti, nei vantaggi di un detenuto, ed oltre c’è una questione economica per i costi che comporterebbe la creazione delle cc.dd. [casette dell’amore] nelle prigioni; Peccato che invece non si consideri la vita sessuale del detenuto come un elemento importante per il suo trattamento rieducativo e la sua risocializzazione”.
Il Garante per i detenuti Stefano Anastasia afferma che: “il riconoscimento del diritto alla sessualità dei detenuti non solo favorirebbe la loro crescita personale, ma andrebbe a beneficio dell’intera istituzione carceraria perché migliorerebbe i rapporti con gli agenti di polizia penitenziaria e aiuterebbe il clima generale della vita in carcere”[5]
Purtroppo una demagogia securitaria rende minori le chances di profonda riforma dove invece già i paesi europei citati hanno dimostrato che la tutela effettiva del diritto alla vita intima, comporta la diminuzione effettiva della recidiva penale e all’interno delle strutture carcerarie funge da buona condotta favorendo un clima di disciplina e maggiore tranquillità fra i detenuti e con il personale carcerario.
I principi fondamentali della Costituzione, descritti negli (artt. 1-12) e nella Parte prima relativa ai “Diritti e doveri dei cittadini” caratterizzano, strutturandolo in profondità, l’ordinamento costituzionale: questo verrebbe totalmente meno – modificandosi in un ordinamento differente – nel caso in cui detti principi non fossero osservati e fatti oggetto di diretta tutela.
La persona, nel suo patrimonio identificativo e irretrattabile, costituisce secondo la Costituzione della repubblica, il soggetto attorno al quale si incentrano i diritti e i doveri. Nell’utilizzo “moderno”, i diritti umani, i diritti inviolabili, i diritti costituzionali ed i diritti fondamentali, sono concetti utilizzati in modo terminologico promiscuo ma equivalenti. Stanno a indicare diritti che dovrebbero essere riconosciuti a ogni individuo in quanto tale: ciò attesta un sentire e riconoscere “comune”, lo stretto e intimo rapporto relazionale che lega indissolubilmente il diritto naturale ed il diritto positivo.
La sentenza costituzionale n. 13/1994 espressamente afferma che la dignità umana è valore fondante del patto costituzionale con i cittadini; l’individualità della persona deve essere preservata in ogni forma secondo il “principio personalista” a cui si ispira l’intera carta fondamentale.
Il riconoscimento dei diritti fondamentali costituzionalizzati, è pertanto, uno degli elementi che qualificano lo Stato di diritto, essi trovano le loro garanzie nella “rigidità” della Costituzione e nel controllo di costituzionalità e di legittimità delle leggi affidato alla Corte Costituzionale. Si nota con assoluta evidenza tecnica, che i diritti fondamentali non solo costituiscono i principi supremi dell’ordinamento costituzionale ma qualificano lo stesso impianto democratico dello Stato, il quale verrebbe sovvertito o annientato se tali fossero diminuiti, decurtati, dequalificati o peggio ancora violati o aggirati. Il ruolo della Corte Costituzionale non è limitato a rendere giustizia tramite pronunce caducatorie, ai diritti fondamentali violati dagli atti di rango legislativo ed equiparati, esso in realtà si estende, dando vera sostanza ed espansione piena ai principi fondamentali enunciati e desumibili in e dalla Costituzione.
La Costituzione all’art. 2, sancisce che: “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità […]” tale norma è clausola aperta tramite la quale si consente l’enucleazione dei “nuovi diritti” quelli provenienti dai bisogni anche quelli emergenti nel processo progressivo ed evoluzione storica e di coscienza sociale.
Rimane fermo che la Corte delle leggi, qualora sia chiamata in un giudizio di legittimità costituzionale ad esaminare l’ambito di applicazione di una libertà fondamentale ad una determinata fattispecie, non può omettere di considerare se il profilo del parametro di costituzionalità evocato come ad es. il principio di eguaglianza – art. 3 Cost. – o il principio di libertà personale ex art. 13 Cost., introduca un nuovo aspetto di un principio fondamentale, suscettibile o meno di un’autonoma considerazione e di un’autonoma garanzia giurisdizionale, alludendo alla nuova enucleazione di diritti ritenuti fondamentali quali ad oggi gli aspetti intimi della persona caratterizzanti la società contemporanea ed i bisogni “evoluti” delle metamorfosi individuali.
Il legislatore, si badi bene, non deve utilizzare lo strumento legislativo al fine di mettere nero su bianco ogni esigenza portata dal costume sociale in un dato contesto storico, ma deve essere esortato “sembra” ad acclarare prima per poi normare di conseguenza quanto la vita umana esprima in maniera primaria ed evolutiva.
Riconoscere la dignità intima della persona non è un magnanimo discorso di controllo istintuale ma se vogliamo quasi un riconoscimento proprio dei limiti personali dell’uomo ha rispetto alla meccanica. Cui prodest se poi sussistono dei sentimenti?