Globalizzazione, diritto internazionale dell’economia e popoli indigeni: il caso degli Inuit

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Globalizzazione, diritto internazionale dell’economia e popoli indigeni: il caso degli Inuit

 

1. Le manifestazioni sempre più evidenti di declino della globalizzazione[i] si combinano con le prove che confermano la distribuzione molto disomogenea dei suoi benefici. Per altro verso, sono conosciuti gli stretti legami tra imprese, business e diritti umani[ii]. Comparativamente meno indagate sono state finora le modalità specifiche in cui la globalizzazione impatta sui soggetti c.d. economicamente marginali, i quali sono più vulnerabili rispetto ai suoi effetti negativi. Come ha insegnato la Scuola di Francoforte, infatti, quando si analizzano i processi sociali, è necessario mettersi “nelle scarpe” dei perdenti dei medesimi, perché se si intrepretano i processi sociali alla luce dei vincitori degli stessi non si produce conoscenza ma si produce ideologia. Ne segue dunque che trasformazioni importanti, come sono quelle legate alla globalizzazione, vanno viste per così dire “dal sotto in su”, ossia privilegiando il punto di vista di coloro che, rispetto ai cambiamenti in parola, si trovano dalla parte “sbagliata”[iii].

Ora, si chiede: i settori della finanza internazionale, degli investimenti, del commercio e della proprietà intellettuale come affrontano la questione dei diritti e degli interessi delle popolazioni indigene, vale a dire di una categoria espressamente protetta di emarginati e/o persone vulnerabili secondo il diritto internazionale?

Gli interessi delle popolazioni indigene, infatti, possono essere soddisfatti dal diritto economico internazionale. L’intersezione tra diritto economico internazionale e diritti indigeni è suscettibile di originare il c.d. diritto economico indigeno internazionale. Per affrontare gli effetti negativi della globalizzazione, quindi, il diritto economico internazionale deve riconoscere la necessità di incorporare più seriamente la lotta per la giustizia sociale ed economica sostenuta dalla dottrina sui diritti umani.

Allo stesso tempo, i sostenitori dei diritti umani dovrebbero utilizzare il crescente insieme di possibilità fornito dagli strumenti che promuovono l'interdipendenza economica, allo scopo di creare o rinnovare strategie che promuovono i valori e gli obiettivi dei diritti umani. Il diritto internazionale dell’economia, nonché il business internazionale e il diritto internazionale dei diritti umani, da un lato, e, dall’altro lato, la difesa dei diritti indigeni possono, insomma, fondare una nuova alleanza.

 

2. Un caso pratico, tratto dall’esperienza del popolo indigeno artico degli Inuit, può meglio chiarire quanto sopra esposto. Gli Inuit, siano essi del Canada settentrionale, dell’Alaska o della Groenlandia, hanno da tempo immemorabile considerato la caccia alla foca parte della propria cultura ed identità nonché quale mezzo tradizionale di sussistenza[iv]. Ciò sulla base di relazioni reciproche, nonché complesse, uomo-animale[v].

Il mito occidentale del Polo Nord come Grande Bianco si scontra, infatti, con il diverso punto di vista Inuit; ciò significa che la rappresentazione dell’Artico da parte degli occidentali[vi] costituisce un’«immagine proiettata sull’altro» (c.d. articismo). Nella cosmologia Inuit «tutto è nel tutto», ossia vi è una stretta connessione tra il tempo, il cielo, il mare, la terra, (tutti) gli esseri viventi, altrimenti – secondo gli Inuit – «gli animali si vendicherebbero». Tale concezione olistica dell’ambiente autoctono viene ritualizzata nelle pratiche di caccia e pesca che governano il tradizionale mondo degli Inuit, cosicché in definitiva, in termini di spazio percepito (dagli indigeni), le zone prive di selvaggina sono visitate raramente, e non attirano l’attenzione dei cacciatori Inuit. Potremmo anche dire che esse – per gli Inuit – non esistono, sono praticamente nascoste. L’apprezzamento estetico, le pratiche dei paesaggi, degli Inuit sono (fortemente) influenzate dalle attività tradizionali della caccia e della pesca; la sensibilità estetica degli Inuit si rapporta con il territorio sotto forma di «buono», da intendere come «nutritivo»[vii].

L’Unione europea, con il regolamento 1007/2009 del Parlamento europeo[viii] e del Consiglio del 16 settembre 2009, concernente il commercio di prodotti derivati dalla foca, ha bandito (dal giugno del 2010) la vendita di tali prodotti, sia di origine europea che d’importazione (provenienti, cioè, da Paesi terzi). Nello stesso tempo l’Unione europea, riconoscendo che la caccia alla foca rappresenta un aspetto essenziale della tradizione culturale e dei mezzi di sussistenza degli Inuit, ha previsto un’eccezione al divieto (ossia, alla “norma salva-foche”) per gli appartenenti al popolo Inuit[ix]. Tuttavia, l’eccezione de qua vale soltanto se la caccia viene praticata dagli Inuit secondo le modalità tradizionali. L’eccezione non è valida, in ogni caso, per le altre popolazioni indigene (id est, diverse dagli Inuit), e neppure ovviamente per i cacciatori di foche non-indigeni, anche qualora questi ultimi utilizzino metodi di caccia tradizionali[x].

Tanto il divieto quanto l’eccezione sono stati portati, nel 2011, all’attenzione del Panel[xi] del World Trade Organization (WTO), e quindi, nel 2014, all’Appellate Board (AB)[xii] del medesimo WTO[xiii]. Gli interessi implicati facevano capo ad alcuni Paesi che hanno rapporti con il mercato europeo. Si trattava, in particolare, di Canada e Norvegia. Questi due Paesi sostenevano, infatti, che il divieto posto dall’Unione europea discrimina de facto le loro industrie. Ciò in quanto i cacciatori Inuit sono molto più numerosi in Groenlandia che in Canada e Norvegia, con il risultato di un più facile accesso dei cacciatori indigeni groenlandesi al mercato europeo.

La difesa dell’Unione europea, condensata nella memoria del 12 dicembre 2012, fu che la regolamentazione adottata in materia di commercio di prodotti derivati dalla foca era fondata, sia pure con l’eccezione prevista per gli Inuit, dalla necessità di proteggere la morale pubblica, rappresentata nel caso in questione dal benessere delle foche; la regolamentazione stessa era, comunque, ispirata dal sistema delle eccezioni generali contemplato dallo stesso WTO. Veniva in considerazione, in particolare, la c.d. moral exception, che è incorporata nell’art. XX(a) del General Agreement on Tariffs and Trade (GATT)[xiv].

Il Governo canadese argomentava, al riguardo, che l’Unione europea può certamente stabilire eccezioni a tutela della morale pubblica, ma non si vede – secondo la prospettazione canadese – per quale motivo l’eccezione debba essere valida per i cacciatori indigeni e non invece per quelli non-indigeni, tanto più quando i metodi di caccia utilizzati siano sostanzialmente gli stessi[xv].

Con la decisione adottata nella riunione del 18 giugno 2014, l’Appellate Body del WTO, in sede di impugnazione contro la deliberazione emanata dal Panel del WTO il 25 novembre 2013[xvi], ha accolto alcune delle argomentazioni prospettate dai ricorrenti. L’AB ha rilevato nell’eccezione contemplata dal regolamento dell’Unione europea profili di arbitrarietà e/o di ingiustificata discriminazione. Da un lato, l’eccezione in parola non prende in considerazione il miglioramento delle condizioni di benessere animale delle foche cacciate dagli Inuit; dall’altro lato, i prodotti che derivano dalla caccia e che potrebbero avere una caratterizzazione commerciale sono invece coperti dall’eccezione a favore degli Inuit. In terzo luogo, l’AB del WTO ha osservato che l’Unione europea avrebbe potuto fare di più al fine di agevolare l’accesso degli Inuit del Canada e della Norvegia al regime di favore previsto dall’eccezione in esame.

In effetti, qualche modificazione nella direzione di “gesti di buona fede” per venire incontro alle argomentazioni sviluppate dall’AB del WTO vi sono state. Attualmente, infatti, a seguito di emendamenti introdotti nel regolamento UE nel 2015[xvii], i prodotti derivati dalle foche ottenuti mediante la caccia tradizionale degli Inuit, praticata a fini di sostentamento, possono fare ingresso nel mercato europeo soltanto a seguito di ispezioni effettuate da organi riconosciuti e autorizzati dalla Commissione europea. Il sistema di certificazione dei prodotti così allestito consente, in definitiva, ai derivati dalla foca, siano essi di origine groenlandese ovvero canadese oppure norvegese e purché provenienti dall’attività di cacciatori Inuit con finalità di contributo alla loro sussistenza, di raggiungere il mercato dell’Unione europea. Gli emendamenti del 2015 hanno, altresì, parificato – agli effetti del regolamento UE – le altre comunità indigene agli Inuit. L’originaria “deroga Inuit” è, così, diventata l’attuale eccezione «Inuit o altre comunità indigene»[xviii].

In ogni caso, sulla base di dati statistici relativi al periodo 2016-2018 e pubblicati[xix] nel 2021, il grado di soddisfazione degli Inuit con riguardo all’eccezione contemplata dal regolamento UE è piuttosto basso, in quanto si ritiene che l’impatto sul commercio internazionale di prodotti derivati dalle foche, e quindi sullo sviluppo socioeconomico della popolazione indigena, non sia stato (sufficientemente) positivo[xx].

Il problema è molto sentito presso le comunità degli Inuit, i quali possono contare su ben poche opzioni economiche. In tale (difficile) contesto, il reddito che deriva dalla caccia alle foche sostiene non soltanto il tradizionale stile di vita degli indigeni, ma la loro stessa sicurezza alimentare. Quando sette su dieci bambini Inuit si recano ogni giorno a scuola affamati, quando povertà, disoccupazione e suicidi imperversano nei gruppi sociali Inuit, diventa arduo per gli indigeni stessi accettare che il mercato dei prodotti derivati dalla foca abbia ormai una reputazione danneggiata e sia in larga parte “evaporato”[xxi]. Rispondendo ad anni di campagne di Greenpeace, che hanno avuto conseguenze negative sull’economia locale, gli Inuit osservano: «Troppo facile dire stop alla caccia quando si vive nella metà ricca del mondo»[xxii].

La Commissione europea, peraltro, ha in programma per il 2024 una valutazione del regolamento sul commercio dei prodotti derivati dalla foca. Ciò comporterà una rilevazione sia dell’impatto socioeconomico che delle ripercussioni sulle popolazioni di foche. Sulla base dei risultati conseguiti, la Commissione medesima prenderà in esame la necessità di ulteriori misure. La valutazione de qua è stata effettivamente iniziata a metà maggio 2024. Essa prevede, accanto a una consultazione pubblica con possibilità di invio di commenti (dal 15 maggio al 7 agosto 2024), interlocuzioni mirate con alcuni Stati membri dell’Unione europea, nonché con gli stakeholders pertinenti.

 

3. Due sintetiche conclusioni possono trarsi da quanto sopra detto.

Per un verso, la disciplina del commercio internazionale deve talvolta tenere conto di particolari “classi” di prodotti e di produttori, tra cui anche i popoli indigeni e, nel presente case study, gli Inuit artici. L’esigenza di tutelare i popoli indigeni, infatti, ha comportato la previsione di una eccezione al divieto del commercio dei prodotti derivati dalle foche nell’Unione europea.

Per altro verso, e più in generale, va evidenziato che – come rilevato da attenta dottrina[xxiii] – l’AB, quale organo giudiziario del WTO, può esercitare attraverso la propria giurisprudenza un importante ruolo attivo nella promozione dei diritti umani, inclusi i diritti fondamentali dei popoli indigeni[xxiv].

 

[i] Tanto che si parla ormai di Deglobalisation, o Globalisation in reverse; cfr. The great regression, in The Economist, 11-17 maggio 2024, 14 ss. (ivi: «The international econimic order is breaking down»). Per una valutazione diversa della purported deglobalization, v. però B. Setser, The Dangerous Myth of Deglobalization, in Foreign Affairs, 4 giugno 2024, che ivi evidenzia alcune «percezioni errate». Sulla de-territorializzazione del diritto, effetto di flussi giuridici transfrontalieri, v. altresì S. Mancuso, Lawscapes, in International Journal for the Semiotics of Law - Revue internationale de Sémiotique juridique (2024), online all’indirizzo https://doi.org/10.1007/s11196-024-10149-9. In verità, si può dire che il fallimento del c.d. post-1989 mostra sempre di più che l’idea di globalizzazione economica e politica recede verso la c.d. ri-globalizzazione, che vede principi e valori territorialmente limitati all’asse euro-americano (ovvero, amero-europeo), mentre poi vi sono altri tipi di valori che sono concorrenziali agli stessi (per una discussione dei concetti di iper-globalizzazione, o degenerazione della globalizzazione, de-globalizzazione e ri-globalizzazione, v. da ultimo S. Bonfiglio, Eziologia dei conflitti armati, (dis-)ordine economico globale e violazione dei diritti fondamentali, in Diritto pubblico comparato ed europeo online, numero speciale 2024, 259 ss.; L. Saurino, Stato sovrano e crisi della globalizzazione. Rappresentanza politica, poteri privati, crisi dello stato sociale, in Nomos, 1/2024). Sulla perduta «illusione delle virtù progressive del globalismo», v. inoltre l’impostazione – fortemente critica – di U. Mattei, «L’Italia dovrebbe chiedere di entrare nei Brics», in L’Espresso, 20 febbraio 2024, nonché Id., Verso un nuovo diritto globale, sulla piattaforma Web YouTube, 15 febbraio 2024, passim. Un invito a superare l’accezione meramente negativa della globalizzazione, trasformando l’atteggiamento mentale no global in un più equilibrato approccio new global, è stato recentemente formulato da A. Spadaro, Potere globale, in M. Cartabia, M. Ruotolo (dir.), Potere e Costituzione, Enciclopedia del diritto, I tematici, V, Milano, Giuffrè, 2023, 724 ss., il quale propone di raggiungere un equilibrio tra sovranità statale e cooperazione internazionale. Fondamentale la conclusione cui perviene G.F. Ferrari, Le nuove frontiere del diritto della globalizzazione. Riflessioni di sintesi, in R. Tarchi (cur.), I sistemi normativi post-vestfaliani tra decisioni politiche, integrazioni giurisprudenziali e fonti di produzione non formalizzate. Una ricostruzione in chiave comparata, Diritto pubblico comparato ed europeo online, numero speciale, 2022, 871 ss., spec. 873-874, secondo cui, piuttosto che di fine della globalizzazione, o de-globalizzazione (ancora meno, poi, di contro-globalizzazione), è preferibile parlare di declino della globalizzazione.

[ii] Da ultimo, v. M. Fasciglione, Impresa e diritti umani nel diritto internazionale. Teoria e prassi, Torino, Giappichelli, 2024.

[iii] U. Galeazzi, La teoria critica della Scuola di Francoforte, Napoli, ESI, 2000; più recentemente, G. Fazio, Ritorno a Francoforte. Le avventure della nuova teoria critica, Roma, Castelvecchi, 2020; S. Petrucciani, La Scuola di Francoforte. Storia e attualità, Roma, Carocci, 2023, il quale osserva che, sebbene la Scuola di Francoforte abbia «cambiato pelle parecchie volte», l’ispirazione originaria «si è mantenuta e trasformata nel corso degli anni e delle generazioni, conservando però intatto un preciso filo di continuità» (cfr. 9), cosicché la teoria critica francofortese rappresenta un «ricchissimo giacimento di pensiero» dal quale attingere per cercare di comprendere la «complicata e per tanti aspetti opaca costellazione sociale in cui siamo immersi» (v. 10).

[iv] Ne ha discusso, con riguardo agli Inuit groenlandesi, L. Møller, Inuit’s legal position in Greenland with special focus on hunting rights, relazione presentata alla 2022 Inuit Studies Conference, tenutasi all’Università di Winnipeg (Manitoba, Canada) dal 19 al 22 giugno 2022. In precedenza, v. per esempio S.D. Farquhar, Inuit Seal Hunting in Canada: Emerging Narratives in an Old Controversy, in 73(1) Arctic 13 (2020).   

[v] Cfr. B. Sonne, Inuit Symbolism of the Bearded Seal, in 41(1/2) Études Inuit Studies 29 (2017); N.D. Graugaard, “A Sense of Seal” in Greenland: Kalaallit Seal Pluralities and Anti-Sealing Contentions,in 44(1/2) Études Inuit Studies 373 (2020); D.F. Pelly, Sacred Hunt. A Portrait of the Relationship Between Seals and Inuit, Vancouver-Seattle, Greystone Books-University of Washington Press, 2020. Le relazioni de quibus sono non soltanto complesse, ma reciproche, non fondate esclusivamente sullo sfruttamento di una risorsa naturale. Da qui la “plurality of ways” in cui le foche esistono nell’Artico.

[vi] Gli Inuit chiamano gli stranieri Qallunaat. Per la testimonianza di una donna Inuit trasferitasi (nel 1957) a Ottawa, allo scopo di svolgere la professione di traduttrice presso il Department of Northern Affairs and Natural Resources, v. Mini Aodla Freeman, Life among the Qallunaat, Winnipeg (MB), University of Manitoba Press, 2015 (nuova edizione a cura di K. Martin e J. Rak; ed. orig., Edmonton, AB, Hurtig, 1978; rec. di A. Epprecht, in 42 The Northern Review 185 (2016)), la quale parla di una «strana terra» e di «strani costumi» di coloro che vivono a sud dell’Artico. L’edizione dell’University of Manitoba è meritoria, dal momento che la prima edizione è invece di assai difficile reperibilità; per evitarne la diffusione, il Department of Northern Affairs and Natural Resources ne acquistò 3.000 copie, conservandole poi in magazzino. Il libro ha, quindi, avuto traduzioni in francese, tedesco e anche groenlandese. L’edizione del 2015 contiene un’intervista all’autrice, nonché la postfazione dei curatori (indicati supra, in questa stessa nota).

[vii] Le parole virgolettate si trovano nel bel saggio di F. Joliet, L’altro aspetto del Grande Bianco, il senso inuit del paesaggio, in Il Polo, 2021, n. 3, 43 ss.

[viii] 550 voti favorevoli, 49 contrari e 41 astenuti.

[ix] L. Krämer, Seal Killing, the Inuit and European Union Law, in 21(3) Review of European, Comparative & International Environmental Law 291 (2012).

[x] Si veda F. Scarpa, The EU, the Arctic, and Arctic Indigenous Peoples, in Yearbook of Polar Law, vol 6, 2014, Leiden-Boston, Brill, 2015, 427 ss.

[xi] La cui costituzione era stata richiesta dal Canada il 14 febbraio 2011, nonché dalla Norvegia il 15 marzo dello stesso anno.

[xii] Su tale organo v., da ultimo, Chang-fa Lo, J. Nakagawa, Tsai-fang Chen (Eds.), The Appellate Body of the WTO and Its Reform, Heidelberg-Berlin, Springer, 2020. L’AB è formato da sette membri, ha sede in Svizzera nella città di Ginevra e giudica in secondo grado avverso il report del Panel.

[xiii] A commento dell’Appellate Body Report, nel caso European Communities – Measures Prohibiting the Importation and Marketing of Seal Products, v. R. Howse, J. Langille, K. Sykes, Sealing the Deal: The WTO’s Appellate Body Report in EC – Seal Products, disponibile online in ASIL American Society of International Law) Insights, 4 giugno 2014, www.asil.org.

[xiv] Ovvero, in italiano, Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (AGTC). La norma menzionata nel testo stabilisce che: «Subject to the requirement that such measures are not applied in a manner which would constitute a means of arbitrary or unjustifiable discrimination between countries where the same conditions prevail, or a disguised restriction on international trade, nothing in this Agreement shall be construed to prevent the adoption or enforcement by any contracting party of measures: (a) necessary to protect public morals».

[xv] Sui rapporti tra restrizioni commerciali e preoccupazioni morali o etiche v., con riferimento al caso qui esaminato (abbr. EC-Seal Products), P.I Levy, D.H. Regan, EC–Seal Products: Seals and Sensibilities (TBT Aspects of the Panel and Appellate Body Reports), in 14(2) World Trade Review 337 (2015) (TBT acr. di Technical Barriers to Trade); P. Conconi, T. Voon, EC–Seal Products: The Tension between Public Morals and International Trade Agreements, 15(2) World Trade Review 211 (2016), dove si osserva che «According to the EC, Europeans found the inhumanity of seal hunting repugnant and immoral. It pained them just to know that it occurred. This was not disutility from the consumption of seal products such as furs or sealskin boots. Nor was it any environmental spillover from the killing of seals, as one might have if they were migratory and played a key role in a European food chain. Instead, the Europeans argued that commercial seal hunts were inevitably inhumane and morally offensive» (cfr. 344); N. Sellheim, The Seal Hunt. Cultures, Economies and Legal Regimes, Leiden, Brill, 2018, sub 5, Public Morality, International Trade Law and the Seal Hunt, 261 ss.

[xvi] Che disattendeva le richieste di Canada e Norvegia; il Rapporto completo del WTO si trova nel sito Web all’indirizzo https://docs.wto.org.

[xvii] L’AB del WTO aveva fissato il termine del 18 ottobre 2015 per introdurre gli emendamenti al regolamento UE; la Commissione europea propose i detti emendamenti il 6 febbraio 2015.

[xviii] V. la Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio relativa all’attuazione del regolamento (CE) n. 1007/2009, modificato dal regolamento (UE) 2015/1775, sul commercio dei prodotti derivati dalla foca, del 19 ottobre 2023, ivi, 4.

[xix] A cura della Commissione europea (v. nel sito all’indirizzo https://ec.europa.eu).

[xx] V. D. Patar, Inuit exemption to European Union’s seal product ban is ineffective: report. “The regulation has not had a positive impact”, in Nunatsiaq News, 27 gennaio 2020. Ivi si afferma che «The trade in seal products is a legitimate and sustainable activity that should not be hampered or stigmatized, and the animal welfare is a concern to Inuit or other Indigenous communities». I maggiori acquirenti di prodotti derivati dalle foche sono, nell’Unione europea, Francia, Regno Unito (fino alla Brexit), Polonia, Svezia ed Estonia.

[xxi] V., si vis, il film documentario indigeno dal titolo Angry Inuk, del 2016, scritto e diretto da Alethea Arnaquq-Baril, appartenente alla comunità degli Inuit canadesi e che compare anche nel film citato (della durata complessiva di 1 h e 25 min). Nel documentario Alethea Arnaquq-Baril afferma: «it bothered me when I saw animal welfare groups portray seal hunting as an evil and greedy thing. The images and statement they put on don’t reflect the seal hunting I know. They don’t even mention Inuit».

[xxii] S. De Santis, Se salviamo le foche che fine faranno gli Inuit?, in La Repubblica, 19 maggio 2017.

[xxiii] Si veda G.F. Ferrari, Diritto transnazionale, diritti di libertà e forme di tutela, in Osservatorio sulle fonti, 2021, n. 1, 367 ss., e ivi cfr. anche l’Editoriale di R. Tarchi, Diritto transnazionale o diritti transnazionali? Il carattere enigmatico di una categoria giuridica debole ancora alla ricerca di un proprio statuto, 5 ss. Il prof. Ferrari osserva, peraltro, che «È [] difficile predire il futuro di questi diritti come elaborati dalla giurisprudenza dell’Appellate Body del WTO in un momento in cui la stessa struttura cui questo organo giudiziario appartiene entra in crisi e non si mostrano all’orizzonte soluzioni organizzative che con qualche tasso minimo di democrazia possano prenderne il posto. Non si può che chiudere con questa nota di dubbio, se non di sfiducia» (ibid., 374).

[xxiv] Le principali criticità vengono individuate nel fatto che il certificato d’origine deve essere relativo a ogni prodotto, e che occorre indicare il Paese europeo di destinazione del prodotto medesimo. Inoltre, si auspica (da parte degli Inuit) un superamento del sistema che prevede esclusivamente certificati cartacei.