La rappresentanza dei popoli indigeni artici nei Parlamenti nazionali

La rappresentanza dei popoli indigeni artici nei Parlamenti nazionali
Premessa: l’attitudine delle comunità aborigene dell’Artico verso le istituzioni parlamentari dei Paesi dell’Occidente
I popoli indigeni dell’Artico non hanno tradizionalmente dimostrato molto interesse verso i Parlamenti nazionali degli Stati in cui vivono, nonostante il fatto che proprio in tale sede siano dibattute, con esiti alterni, le questioni che riguardano le comunità autoctone. Per un verso, sia in Canada che negli Stati Uniti d’America, i popoli artici, nonché più in generale le comunità aborigene, tendono a instaurare rapporti con le autorità pubbliche sul modello delle relazioni c.d. nation-to-nation. Inoltre, gli indigeni, sia artici che non-artici, privilegiano in Canada e USA le iniziative giudiziarie, oppure anche l’attivismo e le mobilitazioni, nonché l’azione di lobbying, piuttosto che la rappresentanza diretta nelle istituzioni federali e statali, con lo scopo di far valere le loro ragioni. Per altro verso, in Norvegia, Svezia e Finlandia i Saami non si sono tanto occupati della rappresentanza diretta nei Parlamenti nazionali, sia per la preferenza accordata all’attività delle loro organizzazioni etniche, sia per il fatto che possono disporre dei Parlamenti Saami, rispettivamente istituiti nel 1989 in Norvegia, nel 1993 in Svezia, nonché nel 1996 in Finlandia[i]. Con riguardo, poi, al caso della Groenlandia, viene in considerazione la questione della possibile indipendenza, problematica che, però, non è stata tanto affrontata all’interno del Parlamento danese, quanto piuttosto in sede di negoziati tra i Governi danese e groenlandese, ovvero meglio ancora da parte delle Commissioni che sono state instituite con il compito di esaminare i vari aspetti dell’autogoverno della Groenlandia, senza escludere l’ipotesi della secessione dell’isola dal Regno di Danimarca[ii].
La situazione verrebbe, ovviamente, del tutto a cambiare in ipotesi di acquisizione statunitense della Groenlandia[iii], come prospettato da Donald Trump[iv] sia nel 2019 che, dopo la rielezione alla Presidenza USA, nel 2025[v]. Certo è che la questione della sovranità groenlandese non è più soltanto una discussione interna, tra Groenlandia e Danimarca, ma si intreccia invece con le dinamiche geopolitiche globali[vi]. L’interesse degli Stati Uniti d’America, nonostante le intenzioni recentemente espresse che appaiono provocatorie in quanto legate all’acquisto (annessione) dell’isola, così da suscitare tensioni[vii], ha avuto un ulteriore effetto di stimolo concernente il dibattito sull’autodeterminazione della Groenlandia[viii]. In quest’ottica, gli USA sarebbero per i secessionisti isolani un rilevante partner strategico[ix], sia pure non accedendo all’idea di una vera e propria unione con gli Stati Uniti (id est, Greenland and the United States: Partnership, Not Ownership)[x], in vista delle prossime elezioni politiche groenlandesi, programmate per l’inizio di aprile 2025 ma anticipate all’11 marzo[xi], che avrebbero potuto altresì essere svolte in parallelo con il referendum sull’indipendenza della Groenlandia, se non fosse che la consultazione referendaria – annunciata dal Premier groenlandese Múte Egede a capodanno – sembra invece sparita dall’attuale agenda politica, quantomeno nell’immediato[xii]. Lo stesso Primo ministro, di origine Inuit, non ha escluso, comunque, una maggiore cooperazione politico-economica con gli USA nei settori della difesa e dell’attività mineraria[xiii]. A sua volta, il leader del partito Siumut (it. «Avanti»)[xiv], Erik Jensen, ha affermato che, se alle imminenti elezioni del marzo 2025 verrà rieletto, si impegnerà a organizzare il referendum sull’indipendenza della Groenlandia, (in un momento non meglio precisato ma) nel corso della prossima legislatura[xv]. Il fatto, non trascurabile, è che la Danimarca versa annualmente alla Groenlandia una sovvenzione di 4,3 miliardi di corone (poco meno di 580 milioni di euro), che la grande maggioranza dei groenlandesi si aspetta di ricevere anche dopo l’eventuale indipendenza, mentre il Governo danese non ha commentato, ufficialmente «per non influire sul processo elettorale». Né mancano parlamentari groenlandesi, come la deputata Doris Jakobsen Jensen, che hanno criticato la prontezza della Danimarca a rifiutare la proposta di Donald Trump, senza nemmeno previamente consultare il Governo della Groenlandia[xvi]. Il Premier Múte Egede, inoltre, ha ribadito che «Non si può evitare di considerare che se gli Stati Uniti vogliono parlare della Groenlandia devono parlare alla Groenlandia»[xvii].
Nel caso canadese, addirittura, vi è stato nel 1992 un pronunciamento popolare, espresso in sede di consultazione referendaria[xviii], contrario al contenuto dell’accordo di Charlottetown, che prevedeva l’introduzione di una rappresentanza politica diretta delle popolazioni indigene nelle istituzioni parlamentari nazionali[xix]. Gli stessi popoli indigeni non erano, peraltro, quantomeno in maggioranza favorevoli all’accordo, poiché temevano che la loro partecipazione diretta nel Parlamento nazionale si risolvesse in una sorta di legittimazione dello Stato canadese, mentre la prospettiva politica da loro privilegiata è quella della relazione nation-to-nation[xx].
Resta, comunque, il fatto che, a prescindere dalla diretta e formale rappresentanza degli indigeni nei Parlamenti nazionali, quantomeno in quelli dei Paesi occidentali[xxi], le decisioni dei Parlamenti medesimi hanno una primaria incidenza sulle condizioni di vita e sullo stesso destino complessivo dei popoli aborigeni, cosicché è utile qui riflettere sull’eventuale esistenza di un peculiare modello artico di rappresentanza degli indigeni nei Parlamenti nazionali.
Le esperienze dei popoli indigeni negli ordinamenti degli Stati artici occidentali
Le situazioni nazionali, ovviamente, sono alquanto diversificate.
In Canada, come si è visto sopra, la proposta di attuare l’accordo di Charlottetown, che prevedeva di riservare alcuni seggi senatoriali ai rappresentanti delle popolazioni indigene, è stato respinto mediante referendum popolare. Non sono mancate altre proposte[xxii], come quella, piuttosto ambiziosa, di creare una terza Camera federale, (in ipotesi) denominata House of First Peoples, che si sarebbe aggiunta al Senato e all’House of Commons. Una ulteriore proposta, alternativa rispetto alle precedenti, contemplava l’istituzione di un Difensore civico parlamentare specializzato sulle questioni delle popolazioni indigene, l’Aboriginal ombudsman. Del resto, l’inclusione degli indigeni nella democrazia canadese è stata fortemente conflittuale. Si pensi che, quando nel 1960 venne accordato agli indigeni il diritto di voto, a condizione che rinunciassero allo status di aborigeno contemplato dall’Indian Act federale[xxiii], vi furono proteste, secondo cui la concessione del voto politico era in realtà una mossa strategica finalizzata ad assimilare gli indigeni, se non una vera e propria violazione della speciale treaty relationship tra comunità indigene e Stato canadese.
In Groenlandia, le cose sono andate diversamente. Dal 1953, infatti, il diritto di voto (attivo e passivo) è stato riconosciuto agli indigeni Inuit. Inoltre, durante la fase delle negoziazioni che misero fine alla condizione giuridica della Groenlandia quale colonia della Danimarca, trasformando la grande isola[xxiv] in una delle tre componenti del Regno di Danimarca[xxv], si stabilì che la Groenlandia disponesse di due seggi nel Parlamento monocamerale danese (Folketinget)[xxvi], cosicché in definitiva sussiste la possibilità di una influenza diretta dei rappresentati della Groenlandia, e dunque degli Inuit, sui lavori parlamentari, in primis quelli riguardanti l’adozione del bilancio annuale e i trasferimenti economici verso la Groenlandia. Sono state create, in particolare, due ampie circoscrizioni elettorali per la Groenlandia, in maniera tale che ognuno dei due deputati groenlandesi rappresenta un numero di cittadini non sostanzialmente dissimile da quello che accade per gli altri (collegi elettorali e) parlamentari del Regno di Danimarca. D’altro canto, non si tratta di una autentica rappresentanza etnica. I due deputati della Groenlandia, infatti, rappresentato nel Parlamento danese gli abitanti della Groenlandia, i quali però sono nella quasi totalità di etnia Inuit[xxvii].
In relazione a Norvegia, Svezia e Finlandia, non sono in verità mancate proposte di assegnare, come in Danimarca, alcuni seggi parlamentari ai Saami, ma tali proposte non hanno avuto concreto seguito. In definitiva, nei tre Paesi nordici menzionati, i Saami sono titolari dell’elettorato attivo e passivo come tutti gli altri cittadini.
Quanto agli Stati Uniti d’America, anche in questo caso gli indigeni sono elettori e possono essere eletti. Tuttavia, nell’agosto del 2019 una comunità indigena[xxviii] aveva avanzato la proposta[xxix] di inviare un suo delegato, sfornito però del diritto di voto, presso la House of Representatives. La proposta, accantonata per l’emergenza da Coronavirus, è stata ribadita nel febbraio 2021, nel settembre 2022 e nell’agosto del 2023, ma non si è finora concretizzata. Per il resto, le comunità indigene degli Stati Uniti, così come quelle del Canada, preferiscono tuttora instaurare i rapporti con le autorità federali secondo lo schema treaty-based nation-to-nation, vedendo quasi la partecipazione alle elezioni politiche, diverse da quelle previste a livello tribale, come un tentativo esterno di “distruggere” la sovranità aborigena. In Alaska, peraltro, emerge recentemente la tendenza di esponenti politici a contestare i “privilegi” degli aborigeni, in nome del principio di uguaglianza del trattamento, soprattutto dopo l’avvenuta estinzione dei land claims mediante accordi siglati dalle autorità federali con i rappresentanti delle comunità Inuit[xxx].
Alcune osservazioni comparative
A questo punto, emerge già un primo importante aspetto comparativo. In Danimarca, a differenza che in Canada e negli Stati Uniti, non si è registrata storicamente una opposizione rispetto alla partecipazione diretta degli indigeni nelle istituzioni parlamentari nazionali, ma anzi tale partecipazione è stata prevista in seguito a una specifica richiesta avanzata dai rappresentanti dei groenlandesi e, quindi, degli Inuit. Forse ciò è stato dovuto a una considerazione tutto sommato meno negativa del colonialismo storico danese nei confronti dell’esperienza della colonizzazione nord-americana, nelle varianti sia canadese che statunitense. Inoltre, bisogna sottolineare che in Danimarca, a differenza che in Canada, la partecipazione al processo politico nazionale, mediante il suffragio, da parte della popolazione indigena Inuit non è stata condizionata alla preventiva rinuncia a diritti speciali, di natura identitaria, attribuiti alla popolazione aborigena.
Sul piano di una più ampia comparazione, si può osservare che nessuno dei popoli artici è rappresentato, nei Parlamenti nazionali della porzione occidentale dell’Artide, in quanto demos. Le differenti circostanze storiche che hanno accompagnato la concessione del diritto di voto agli indigeni, rispettivamente in Canada e USA, da un lato, e in Groenlandia, dall’altro lato, possono altresì essere utili per comprendere la diversa attitudine dei popoli indigeni verso forme di diretta partecipazione politica. Inoltre, in Groenlandia gli elettori sono quasi tutti Inuit, mentre nei collegi elettorali di Canada e Stati Uniti gli elettori di etnia indigena sono una piccola minoranza[xxxi]. Da ciò consegue, tra l’altro, che gli indigeni di Canada e USA partecipano alle elezioni nazionali in maniera meno ampia di quanto accade per gli Inuit della Groenlandia, e che, d’altro canto, gli Inuit groenlandesi possono contare sulla presenza di candidati Inuit, mentre invece gli aborigeni canadesi e statunitensi, quando votano, sostengono quasi sempre candidati non appartenenti alle rispettive comunità etniche, ma che hanno comunque espresso sostegno per le rivendicazioni dei popoli indigeni. Per altro verso ancora, i rappresentanti aborigeni nel Parlamento danese sanno bene quali sono gli interessi della popolazione indigena della Groenlandia, che è sostanzialmente omogenea, invece i deputati e senatori sia canadesi che statunitensi, quand’anche eletti per tutelate, inter alia, diritti e interessi dei popoli indigeni, sono poco coesi e, talvolta, persino tra loro conflittuali, cosa che si spiega agevolmente alla luce della considerazione che essi rappresentano una pluralità eterogenea di gruppi etnici. Se, infine, si tiene conto del fatto che la cultura parlamentare danese prevede che, quando si tratta di questioni che riguardano l’intero Regno di Danimarca e rispetto alle quali il voto dei due deputati groenlandesi sarebbe decisivo, i rappresentanti della Groenlandia si astengono dal voto, poiché considerati speciali rappresentanti del popolo Inuit, si può concludere per la non sussistenza di un peculiare modello artico di rappresentanza parlamentare indigena.
[i] Sui Parlamenti (degli indigeni) Saami, v. M. Mazza, Aurora borealis. Diritto polare e comparazione giuridica, Bologna, Filodiritto, 2014, 264 ss., e poi E. Josefsen, U. Mörkenstam & J. Saglie, Different Institutions within Similar States: The Norwegian and Swedish Sámediggis, in 14(1) Ethnopolitics 32 (2015); A. Stępień, A. Petrétei & T. Koivurova, Sámi Parliaments in Finland, Norway, and Sweden, in T.H. Malloy, A. Osipov & B. Vizi (Eds.), Managing Diversity through Non-Territorial Autonomy: Assessing Advantages, Deficiencies, and Risks, Oxford, Oxford University Press, 2015, 117 ss.; U. Mörkenstam, E. Josefsen & R. Nilsson, The Nordic Sámediggis and the Limits of Indigenous Self-Determination, in Gáldu čála – Journal of Indigenous Peoples Rights n. 1, 2016, 4 ss. I Parlamenti Saami sono organi elettivi, con funzioni consultive ma non legislative. Sia in Norvegia che in Svezia e Finlandia, i Parlamenti Saami vengono eletti da e tra i Saami in ogni Paese. Una Delegazione Saami, con funzioni consultive, era stata istituita dallo Stato finlandese nel 1973.
[ii] Cfr., si vis, M. Mazza, The Prospects of Independence for Greenland, between Energy Resources and the Rights of Indigenous Peoples (with Some Comparative Remarks on Nunavut, Canada), in Beijing Law Review, 2015, 320 ss.; Id., La Groenlandia verso l’indipendenza?, in Filodiritto, febbraio 2021, e inoltre F. Duranti, To leave or not to leave? Groenlandia e Danimarca tra unione e indipendenza, in G. Milani (cur.), Cittadinanza e separatismi. Esperienze e prospettive in Europa - Atti del Convegno Università degli Studi di Siena, 8 aprile 2022, Milano, Wolters Kluwer Cedam, 2023, 117 ss.; N. Maffei, L’insularità groenlandese nel sistema costituzionale del Regno di Danimarca tra interessi geopolitici e un cammino secessionista dalla non facile percorribilità, in Diritto pubblico comparato ed europeo online, 2023, 2947 ss.; S.M. Gaias, Il referendum secessionista nell’evoluzione degli Stati unitari: suggestioni comparate tra procedura concordata danese e retroguardie centraliste uzbeke, in B. Pezzini (cur.), In dialogo con Serio Galeotti a cento anni dalla nascita: dei grandi temi del diritto costituzionale. Atti del Convegno e della Call for paper - Bergamo, 15 dicembre 2022, Torino, Giappichelli, 2024, 325 ss.; R.C. Thomsen, “Greenlandicness” and Nation Building in Kalaallit Nunaat/« Groenlandité » et construction d’une nation au sein du Kalaallit Nunaat, in C. Ren et al. (dir./Eds.), Nouveaux enjeux au Groenland contemporain (Kalaallit Nunaat)/Emerging Issues in Contemporary Greenland (Kalaallit Nunaat), 47(1-2) Études Inuit Studies 139/163 (2023); G.F. Ferrari, Asimetría e instancias secesionistas/independentista: consideraciones generales, in Diritto pubblico comparato ed europeo online, 2024, 2447 ss., nell’ottica comparativa con i casi europei di Scozia e Catalogna. La discussione sull’assetto politico-istituzionale della Groenlandia, strettamente connesso al tema dell’utilizzo delle risorse naturali, è piuttosto risalente; v. J. Priebe, Greenland’s future. Narratives of Natural Resource Development in the 1900s until the 1960s, Umeå (Svezia), Umeå University (Faculty of Arts, Department of historical, philosophical and religious studies/Arctic Research Centre, ARCUM), 2017. Ivi l’autrice osserva che, sebbene sia stata inizialmente contestata, tuttavia la nozione di progresso culturale associò sempre più lo sviluppo di un’industria moderna a un’economia produttiva sotto l’egida danese. In precedenza, nello stesso senso, v. J.T. Areddy, Race for Resources: Warm to Investors, Greenland Opens Up, in The Wall Street Journal, 22 agosto 2013.
[iii] In passato, vi furono proposte statunitensi di acquisto della Groenlandia, nel 1865-1869 (durante la Presidenza di Andrew Johnson; la proposta non si concretizzò per la mancanza di priorità politica e di fondi dopo l’acquisto dell’Alaska nel 1867) 1910, 1946 e 1955. La differenza essenziale rispetto alle offerte trumpiane del 2019 e 2025 consiste nel fatto che le precedenti proposte non erano state rese pubbliche. Cfr. C.R. Fee, The Art of Trump’s Greenland Deal: A New Chapter of an Ancient Saga, in High North News, 10 febbraio 2025; amplius, M. Jacobsen & S. Olsvig, From Peary to Pompeo: The History of United States’ Securitizations of Greenland, in M. Jacobsen et al. (Eds.), Greenland in Arctic Security. (De)securitization Dynamics under Climatic Thaw and Geopolitical Freeze, Ann Arbor (MI), 2024, 107 ss. L’esploratore polare statunitense Robert E. Peary riteneva che la Groenlandia dovesse far parte degli USA (cfr. R.E. Peary, Greenland as an American Naval Base, in New York Times, 11 settembre 1916, 8, e ivi: «with the rapid shrinking of distances in this age of speed and invention, Greenland may be of crucial importance to us in the future. […] Greenland in our hands may be a valuable piece in our defensive armor. In the hands of hostile interests it could be a serious menace»). Le idee di Peary vennero sostenute, nel 1920, dal generale William E. Mitchell durante una audizione davanti al Senato, nella quale affermò che per gli Stati Uniti il controllo della Groenlandia era ancora più importante di quello del Canale di Panama; v. C. Emmerson, The Future History of the Arctic, London, 2010, 123; N. Fogelson, Greenland: Strategic Base on a Northern Defense Line, in 53(1) Journal of Military History 51 (1989).
[iv] Il quale vorrebbe «rendere la Groenlandia di nuovo grande»; cfr. A. De Luca, Groenlandia: fra Trump e l’Europa, in www.ispionline.it, 29 gennaio 2025 (ivi sub Make Greenland great again?). Si è (forse un po' enfaticamente) parlato della «trattativa del secolo»; così F. Petroni, La Groenlandia e la forza del destino, in www.limesonline.com, 5 gennaio 2025. In data 13 gennaio 2025, il deputato repubblicano Andy Ogles ha presentato, insieme a dodici colleghi dello stesso partito, un progetto di legge, a sostegno dell’iniziativa del Presidente Trump, dal titolo Make Greenland Great Again Act (H.R.361 — 119th Congress (2025-2026), su cui v., a commento, Rep. Ogles Introduces Bill to ‘Make Greenland Great Again’, nel sito Web del parlamentare. Una successiva proposta (c.d. Trump-led Bill), presentata l’11 febbraio 2025 alla Camera dei rappresentanti USA dal deputato Earl Carter, prevede di denominare la Groenlandia «Red, White, and Blueland», con evidente riferimento (nelle intenzioni patriottico) alla bandiera americana (v. H.R.1161 — 119th Congress (2025-2026), Red, White, and Blueland Act of 2025, e, per un breve commento, J. Liddell, Red, White and Blueland?’ Republican unveils bill to rename Greenland, in The Independent, 12 febbraio 2025). Si è fatto riferimento, a quest’ultimo riguardo, alla «legislazione simbolica»; cfr. A. Delaney, Republican Introduces Bill To Rename Greenland ‘Red, White And Blueland’, in The Huffington Post, 11 febbraio 2025. Per Carter, «America is back and will soon be bigger than ever with the addition of Red, White, and Blueland».
[v] Si vedano E. Gianoli, Gli Stati Uniti e la Groenlandia: quasi un secolo di interessi strategici, in www.osservatorioartico.it, 16 gennaio 2025, e P. Peduzzi, La Danimarca sceglie la strategia quieta per tenersi la Groenlandia, in Il Foglio, 29 gennaio 2025. Un recente sondaggio, condotto alla fine di gennaio 2025 dalla società specializzata Verian di Londra, ha evidenziato che il 6 per cento dei groenlandesi è favorevole a diventare parte degli USA, il 9 per cento è indeciso, ma ben l’85 per cento è contrario. Scartata dunque l’ipotesi di diventare americani, secondo il sondaggio medesimo il 45 per cento dei groenlandesi considera l’interesse del Presidente Trump per la loro isola una «minaccia», mentre il 43 per cento lo vede come un’«opportunità» e il restante 12 per cento è indeciso. L’84 per cento dei groenlandesi intervistati voterebbe, in un potenziale referendum, a favore dell’indipendenza dalla Danimarca, ma l’85 per cento non vuole separarsi da Copenaghen per finire sotto il controllo di Washington. Non si tratta, pare dunque di capire, di scegliere tra due “colonialismi”; per l’Inuit Circumpolar Council, infatti, «non esiste qualcosa come il miglior colonizzatore». Se venissero posti di fronte alla scelta alternativa tra la cittadinanza danese e quella statunitense, invece, le preferenze per la prima si attestano al 55 per cento mentre quelle per la seconda si fermano (come detto sopra) all’8 per cento. Il sondaggio è stato effettuato dal 22 al 27 gennaio 2025; il margine di errore è stimato tra 1,9 e 4.4 punti percentuali (v. M. Bryant & J. Rankin, New opinion poll shows 85% of Greenlanders do not want to join US, in The Guardian, 28 gennaio 2025; le persone residenti in Groenlandia sono circa 57.000, il sondaggio è stato realizzato mediante interviste a 497 persone maggiorenni). In ogni caso, le dichiarazioni di Trump sulla Groenlandia hanno creato molta inquietudine e speculazioni sul futuro del Nord (lo ha rilevato il ricercatore Andreas Østhagen, in Verdens Gang (VG), quotidiano norvegese, 26 gennaio 2025). In una recentissima intervista (3 febbraio 2025) all’esploratore e alpinista altoatesino Robert Peroni, che ha vissuto per oltre quarant’anni in Groenlandia, è emerso che il sentimento filo-americano è comunque molto diffuso tra gli Inuit, anche per reazione alle passate politiche coloniali della Danimarca (Groenlandia: meglio la libertà o i soldi di Trump?, in www.altoadigeinnovazione.it).
[vi] V., per esempio, A.-F. Hivert et al., Le Groenland, un territoire arctique convoité, in Le Monde, 2 febbraio 2025; D. Curci, L’importanza strategica della Groenlandia, in www.aspeniaonline.it, 29 gennaio 2025.
[vii] Le previsioni espresse dal prof. Timo Koivurova, tra i massimi esperti mondiali di diritto polare, non erano dunque ingiustificate; v. T. Koivurova, Trumpin uusi kausi tietää huonoa arktiselle alueelle [Il nuovo mandato di Trump significa cose negative per la regione artica], in Lapin kansa [Popolo della Lapponia], 7 novembre 2024, 34 (testo in finlandese).
[viii] Cfr. V. de Graffenried, Et si au final les provocations de Donald Trump profitaient au Groenland?, in Le Temps, 24 gennaio 2025. La discussione sull’indipendenza investe aspetti peculiari, incluso il riconoscimento calcistico internazionale; v. E. Giulianelli, La Groenlandia ora vuole segnare un gol a Miami, in Il manifesto, 7 febbraio 2025, il quale scrive che, in futuro, si «potrebbe vedere Trump sulle tribune di uno stadio tra i ghiacci, spettatore di una sfida tra Groenlandia e Usa che si giocano un posto ai Mondiali». È abbastanza significativo osservare che il capo della federazione locale, Kenneth Kleist, «sogna di guadagnarsi un posto tra le squadre del Nord e del Centro America» (non, dunque, tra quelle europee).
[ix] P. Hockenos, Greenland’s Door Is Open for Trump, in Foreign Policy, 27 gennaio 2025.
[x] Efficace formula coniata congiuntamente da Aaja Chemnitz, deputata del Parlamento danese in rappresentanza della Groenlandia, e dalla senatrice statunitense, eletta in Alaska, Lisa Murkowski; cfr. Α. Edvardsen, Greenlandic Top Politician On Trump: “You Cannot Own or Control, but Have a Partnership”, in High North News, 6 febbraio 2025. La Groenlandia, insomma, è “open to business”, senza voler diventare parte degli Stati Uniti.
[xi] Si vedano, per un esame dei molteplici aspetti,: T. Jonassen, Greenland Calls For Early Election for 11 March Amid Trump Interest, in High North News, 5 febbraio 2025; E. Peschiera, Elezioni anticipate in Groenlandia, in www.osservatorioartico.it, 6 febbraio 2025; R. Pietrobon, La Groenlandia insidiata da Trump anticipa le elezioni, in Il manifesto, 6 febbraio 2025. Il sondaggio effettuato dal 22 al 27 gennaio 2025 (v. ante) ha evidenziato una propensione degli elettori a premiare i partiti unionisti, con una flessione invece di quelli separatisti. Nel sistema groenlandese, l’elettorato attivo e passivo spetta a tutti coloro che hanno compiuto diciotto anni, sono in possesso della cittadinanza danese e che risiedono permanentemente in Groenlandia. Per le elezioni municipali, l’elettorato è esteso ai cittadini non danesi che siano residenti permanenti da almeno tre anni prima delle elezioni in una delle tre componenti del Regno di Danimarca, ossia Danimarca, Groenlandia e Isole Fær Øer. È contemplato, in alcune situazioni, il voto postale.
[xii] In data 4 febbraio 2025, sull’isola artica è stato approvato un disegno di legge che vieta ai partiti politici di ricevere donazioni anonime e straniere. La legge limita anche le donazioni provenienti da privati residenti sull’isola, che non possono essere superiori a circa 2.700 euro. Ogni partito politico può ricevere al massimo 27mila euro di donazioni da privati ogni anno. Il Parlamento locale ha introdotto ulteriori limitazioni all’acquisto di terre e abitazioni, nonché agli investimenti, da parte di persone (fisiche o giuridiche) straniere, nel senso che è stato vietato l’acquisto di immobili e terreni ai soggetti che non risiedano da almeno due anni in Groenlandia (cfr. M. Tekeli & A. Nierenberg, Greenland, Eyeing Trump, Bans Foreign Political Funding, in New York Times, 4 febbraio 2025).
Dal sondaggio del gennaio 2025 citato supra, è emerso inoltre che la maggioranza dei groenlandesi voterebbe adesso per l’indipendenza, se si tenesse un referendum. Circa il 28 per cento, infatti, si dichiarerebbe contrario alla separazione. Il sondaggio ha, peraltro, rivelato che il 45 per cento dei cittadini non desidererebbe l’indipendenza qualora ciò dovesse determinare un peggioramento del tenore di vita, in tal modo indicando chiaramente che il futuro percorso verso l’indipendenza rimane comunque incerto. In definitiva, il sondaggio citato ha mostrato che il 52 per cento dei groenlandesi ritiene che l’isola potrà ottenere la piena autonomia solamente entro dieci o vent’anni.
[xiii] Cfr. Après les menaces d’annexion de Trump, le Groenland se dit prêt à des liens plus étroits avec les Etats-Unis, in Libération, 13 gennaio 2025, dove si parla di un «pas prudent vers Donald Trump».
[xiv] Di orientamento politico socialdemocratico, Siumut dispone attualmente di circa un terzo dei seggi nel Parlamento locale groenlandese (10/31).
[xv] Cfr. le note redazionali intitolate Groenlandia, dopo le «mire» di Trump il leader del partito al governo Jensen ragiona sul referendum per l’indipendenza della Danimarca, in Corriere della Sera, 7 febbraio 2025, e Groenlandia, referendum per l’indipendenza dalla Danimarca, in Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2025.
[xvi] M. Molteni, Groenlandia verso il referendum: si aprono scenari clamorosi per Trump e Usa, in Libero, 9 febbraio 2025.
[xvii] Sulle competenze, tuttora limitate (the last say spetta, infatti, alla Danimarca), della Groenlandia sul piano delle relazioni internazionali v., ampiamente, M. Ackrén, Foreign Policy in Greenland. 20 Years of Development, London-New York, Routledge, 2025.
[xviii] Il referendum si è svolto il 26 ottobre 1992 (il tasso di affluenza è stato del 71,8 per cento, i voti favorevoli 45,7 per cento, quelli contrari 54,3 per cento). In dottrina, v. K. McRoberts & P.J. Monahan (Eds.), The Charlottetown Accord, the Referendum, and the Future of Canada, Toronto, University of Toronto Press, 1993; R. Johnston, An Inverted Logroll: The Charlottetown Accord and the Referendum, in 26(1) Political Science & Politics 43 (1993). L’accordo de quo venne criticato anche per il fatto che non affrontava il tema dei finanziamenti, rinviando sul punto a una futura intesa politica. Come è stato osservato, è certamente importante l’affermazione dei diritti, ma non lo è di meno la possibilità di esercitare effettivamente i diritti stessi. Cfr. T. Isaac, The 1992 Charlottetown Accord and First Nations Peoples: Guiding the Future, in 8(2) Native Studies Review 109 (1992), spec. 111. Secondo l’autore ult. cit., il Charlottetown Accord è comunque rilevante perché indica la direzione nella quale è opportuno che si muovano le future negoziazioni tra comunità indigene e Governo canadese.
[xix] Cfr. M.D. Morden, Parliament and the Representation of Indigenous Issues: The Canadian Case, 71(1) Parliamentary Affaiirs 124 (2018), e S.M. Manning, The Canadian Senate: An Institution of Reconciliation?, in 54(1) Journal of Canadian Studies 1 (2020).
[xx][xx] Questo non esclude, naturalmente, che vi siano comunque parlamentari, sia in Canada che negli USA, appartenenti a comunità indigene.
[xxi] Il discorso, ovviamente, è molto diverso per gli indigeni artici della Russia (sovietica e post-sovietica), che non saranno esaminati nella presente sede. Sul tema, v. comunque M. Mazza, La protezione dei popoli indigeni nella Russia del Nord, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2003, 1850 ss.
[xxii] Su cui v. M.D. Morden, Indigenizing Parliament: Time to Re-Start a Conversation, in Canadian Parliamentary Review, estate 2016, 24 ss.
[xxiii] Sull’Indian Act v., ampiamente, M. Mazza, La protezione dei popoli indigeni nei Paesi di common law, Padova, Cedam, 2004, 63 ss.
[xxiv] Che si estende per oltre due milioni di chilometri quadrati, ovvero circa sei volte la Germania, sette volte l’Italia o più di tre volte il Texas.
[xxv] Le altre due sono la Danimarca e l’arcipelago delle isole Faroer.
[xxvi] Non diversamente da quanto avviene per le isole Faroer. Maggiore autonomia, se non la piena indipendenza, viene attualmente richiesta anche dalle isole Faroer; v., per esempio, A. Edvardsen, The Faroe Islands Threatens to Exit Nordic Cooperation: “We Are either All in or Not at All”, in High North News, 6 novembre 2024.
[xxvii] Tra l’85 e il 90 per cento, gli abitanti della Groenlandia sono Inuit.
[xxviii] Si trattava della Cherokee Nation. Cfr. M.A. Schwartz, W.K. Novak & M.J. Oleszek, Legal and Procedural Issues Related to Seating a Cherokee Nation Delegate in the House ofRepresentatives, R47391, Congressional Research Service Report, Washington (DC), U.S. Congress, January 19, 2023.
[xxix] Mediante l’invocazione di un antico trattato del 1835 (Treaty of New Nechota), rimasto però inattuato. L’art. 7 del trattato, in particolare, prevede che «Cherokee Nation […] shall be entitled to a delegate in the House of Representatives». Cfr. M. Young, A Tribal Delegate in Congress? Cherokee Campaign Ramps Up under Treaty Promise, in The Oklahoman, 24 settembre 2022; C. Hoskin Jr., Cherokee Nation’s Path to Seating Congressional Delegate, in The Hill, 4 marzo 2022. Proprio con riferimento alla Cherokee Nation, all’inizio della storia degli Stati Uniti d’America, la Corte suprema (Chief Justice Marshall) ha definito le tribù riconosciute a livello federale come «nazioni dipendenti nazionali» (nel reasoning marshalliano: «[I]t may well be doubted whether those tribes which reside within the acknowledged boundaries of the United States can, with strict accuracy, be denominated foreign nations. They may, more correctly, perhaps, be denominated domestic dependent nations […] Their relation to the United States resembles that of a ward to his guardian»); v. Cherokee Nation v. Georgia, 30 U.S. (5 Pet.) 1 (1831), nonché il commento di R.A. Berutti, The Cherokee Cases: The Fight to Save the Supreme Court, in 17(1) American Indian Law Review 291 (1992), ivi v. spec. 300-303, e di M. Mazza, La protezione dei popoli indigeni nei Paesi di common law, cit., ivi cfr. spec. 144-146. Il dictum nella vertenza cit. Cherokee Nation v. Georgia costituì una delle tre decisioni giudiziarie che compongono la c.d. trilogia di Marshall sui diritti indiani (le altre due sono: Johnson v. McIntosh, 21 U.S. (8 Wheat.) 543 (1823) e Worcester v. Georgia, 31 U.S. (6 Pet.) 515 (1832)). Sull’eredità, ma anche sulle sfide poste dalla “trilogia marshalliana” alla successiva applicazione del diritto indiano, v. F. Pommersheim, The Marshall Trilogy: Foundational but Not Fully Constitutional?, in Id., Broken Landscape: Indians, Indian Tribes, and the Constitution, New York, Oxford University Press, 2009, 87 ss. Da ultimo, sull’origine non meramente “domestica”, ma collegata al diritto delle nazioni, del Federal Indian law statunitense, v. E. Eisner, The Law-of-Nations Origins of the Marshall Trilogy, in 133(3) Yale Law Journal 998 (2024).
[xxx] Cfr. W. Schneider, Alaska Native Sovereignty and the Federal Trust Responsibility: A Cultural Interpretation of Historical Relationships, in The Northern Review, n. 56, 2024, 109 ss., ivi spec. 123-124.
[xxxi] Ciò vale per gli Inuit alaskani, che rappresentano lo 0,03 per cento della popolazione statunitense e il 15,4 per cento degli abitanti dello Stato dell’Alaska (www.census.gov). Essi rappresentano una minoranza nella minoranza, dal momento che, complessivamente, gli indigeni costituiscono circa il 2 per cento della popolazione americana. Gli Inuit, inoltre, sono soltanto due dei cinque gruppi di c.d. Native Alaskans, ossia gli Inuit del Nord e gli Inuit del Sud (le altre sono comunità amerindiane, sebbene gli Aleuti abbiano una lontana origine comune con gli Inuit).