Giurisdizione, diritti e legittimità: il diritto al centro dello scambio tra Israele e Hamas

Giurisdizione, diritti e legittimità: il diritto al centro dello scambio tra Israele e Hamas
Lo scambio che ha condotto al rilascio di venti ostaggi israeliani da parte di Hamas e, contestualmente, alla liberazione di detenuti palestinesi da parte dello Stato di Israele rappresenta un evento giuridico di estrema complessità, inscrivendosi nel solco vincolante delle norme internazionali, costituzionali e penali. Non si configura come un mero atto diplomatico, bensì come un articolato dispositivo normativo in cui si intersecano — e talvolta si confrontano — poteri esecutivi, giurisdizione, diritti fondamentali e prerogative statuali. L’operazione si svolge all’interno di un conflitto armato non internazionale (c.d. NIAC), regolato principalmente dal Diritto Internazionale Umanitario (DIU), con particolare riferimento alla Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 e al Protocollo Addizionale II. L’articolo 3 comune a tutte le quattro Convenzioni di Ginevra impone obblighi inderogabili a tutte le parti coinvolte, inclusi soggetti non statuali come Hamas, stabilendo che «le persone che non partecipano direttamente alle ostilità devono essere trattate umanamente in ogni circostanza», vietando espressamente «la tortura e i trattamenti crudeli, inumani o degradanti». La portata vincolante di tale norma è riconosciuta quale norma di diritto consuetudinario internazionale (customary international law), obbligatoria anche per attori privi di riconoscimento statuale. Sebbene Israele contesti talvolta l’applicabilità di alcune norme del DIU nei territori occupati, resta nondimeno vincolato al rispetto dei principi fondamentali di tutela, essendo considerato detentore effettivo di tali territori ai sensi dell’art. 1 della Quarta Convenzione. Tuttavia, il DIU non disciplina espressamente lo scambio di prigionieri o ostaggi in contesti di conflitti armati non internazionali, configurando una lacuna normativa che rende necessario il ricorso a prassi diplomatiche, accordi politici e consuetudini, sempre nel rispetto delle norme imperative di diritto internazionale (jus cogens). Sul piano del diritto internazionale penale, la Convenzione internazionale sulla presa di ostaggi (Hostages Convention, 1979), sebbene formalmente applicabile esclusivamente agli Stati, stabilisce agli artt. 1 e 5 l’obbligo di perseguire penalmente la presa di ostaggi e di cooperare a livello internazionale per estradizione o giudizio, rappresentando un parametro imprescindibile per valutare la gravità della condotta. In materia di diritti individuali, il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR), all’art. 9, garantisce la libertà personale, il diritto a un giusto processo e la tutela contro detenzioni arbitrarie, imponendo agli Stati l’obbligo di informare il detenuto circa le accuse, di consentire la difesa legale e di assicurare la possibilità di ricorso giudiziario effettivo. Quanto all’ordinamento interno israeliano, privo di una Costituzione formale, il quadro normativo è costituito dalle Basic Laws, aventi rango superiore rispetto alle leggi ordinarie, la cui violazione può essere sindacata in termini di legittimità dalla Corte Suprema. Tra queste, si evidenziano: la Basic Law: Human Dignity and Liberty (1992), che tutela diritti fondamentali quali la dignità umana, la vita e la libertà personale, configurandosi come clausola di supremazia rispetto alle normative ordinarie, come affermato dalla giurisprudenza della Corte Suprema israeliana; la Basic Law: The Government (2001), che attribuisce al Governo, e in particolare al Primo Ministro, la competenza esclusiva di concedere liberazioni, commutazioni o amnistie per motivi di sicurezza nazionale; e infine la Basic Law: The Judiciary (modifiche 2023), la quale, con l’abolizione della clausola di “reasonableness”, ha significativamente ridotto il potere di controllo giudiziario sulla discrezionalità esecutiva, attenuando il sindacato della Corte Suprema sull’adeguatezza e proporzionalità delle decisioni governative. Nonostante ciò, la Corte Suprema israeliana, con recenti pronunce, ha annullato le disposizioni che limitavano il controllo giurisdizionale, riaffermando la propria funzione di tutela costituzionale anche nei confronti delle Basic Laws, in presenza di violazioni gravi dei diritti fondamentali, delineando così un bilanciamento essenziale tra i poteri. Nel caso in esame, la liberazione dei detenuti palestinesi è avvenuta senza previa revisione giudiziaria o provvedimento di assoluzione, ma mediante decisione esecutiva adottata dal Primo Ministro e ratificata dal Consiglio dei Ministri, in conformità alle prerogative attribuite dalla Basic Law: The Government. Tale decisione è stata impugnata dinanzi alla Corte Suprema israeliana da parte di vittime e loro rappresentanti, in linea con la giurisprudenza consolidata (v. sentenza Almagor v. Government of Israel), che ammette la legittimità di misure di liberazione a scopi politici, subordinandole però al rispetto del principio di proporzionalità, al diritto delle vittime all’informazione e alla necessaria trasparenza motivazionale. In questo quadro, il ruolo degli avvocati si rivela essenziale e trasversale in ogni fase procedimentale: dalla fase preventiva, durante la quale si sollevano questioni concernenti la legittimità della detenzione, la regolarità della custodia cautelare e il rispetto delle garanzie difensive; alla fase negoziale, in cui le difese verificano la conformità degli elenchi e delle condizioni; fino alla fase post-rilascio, nella quale si monitorano possibili abusi o inadempienze rispetto ai termini dell’accordo. L’attività difensiva si esercita attraverso l’impugnazione davanti alla Corte Suprema per eccesso di potere, violazione di legge o lesione dei diritti fondamentali, nonché mediante istanze e ricorsi presso organismi internazionali quali il Comitato contro la Tortura, il Comitato per i Diritti Civili e Politici o la Corte Penale Internazionale. Sul piano del diritto penale internazionale, una quota dei detenuti liberati risultava condannata o imputata per reati gravi quali terrorismo, omicidio e appartenenza a organizzazioni armate. L’applicazione dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale impone, agli artt. 7 e 8, il riconoscimento di crimini contro l’umanità e crimini di guerra, mentre l’art. 29 sancisce l’imprescrittibilità di tali fattispecie. Lo scambio non può pertanto configurarsi come strumento per eludere la responsabilità penale individuale. L’eventuale mancata cooperazione da parte degli Stati interessati — ad esempio, attraverso la mancata esecuzione delle pene o la sospensione ingiustificata delle indagini — potrebbe integrare una violazione degli obblighi di cooperazione internazionale sanciti dagli artt. 86 e 87 dello Statuto. Infine, occorre considerare la possibile configurazione di responsabilità internazionale per atti unilaterali che violino obblighi derivanti dal diritto internazionale, come previsto dalla dottrina e dalla giurisprudenza in materia di unilateral acts, con riferimento alle condotte di Israele o dei soggetti terzi coinvolti nel processo negoziale. In conclusione, lo scambio ostaggi‑detenuti si configura come un contesto giuridico complesso, in cui norme di diritto internazionale umanitario, diritto internazionale penale, diritto costituzionale e giurisprudenza si intrecciano in maniera indissolubile. Non si tratta di un mero negoziato politico, bensì di una complessa “performance normativa”, in cui gli attori istituzionali e difensivi — in primis avvocati e Corti — operano quale bilanciamento critico per garantire che termini quali «accordo», «liberazione» e «tregua» trovino un fondamento e limiti inequivocabili nel diritto positivo.