La «famiglia nel bosco»: autodeterminazione e diritto
La «famiglia nel bosco»: autodeterminazione e diritto
Il fatto
Ha suscito scalpore la sospensione della responsabilità genitoriale dei due genitori Trevallion e Birmingham da parte del Tribunale dei minori di L'Aquila. Ancora maggiore scalpore hanno suscitato le motivazioni (riportate dalla stampa).
Sembra, stando a quanto riferito dai quotidiani, che l'Ordinanza del Tribunale dei minori di L'Aquila sia stata motivata dalla mancanza di bagno interno all'abitazione, dall'acqua prelevata da una fonte (e non attinta dall'acquedotto), dal riscaldamento con bombola, dall'assenza di allacciamenti di utenze. Inoltre, essa – l'Ordinanza – sarebbe motivata dalla ritenuta oggettiva impossibilità di socializzazione dei minori oltre che da paventati pericoli alla loro salute, dovuti alle condizioni fatiscenti dell'abitazione.
Il riferimento alle norme vigenti
L'Ordinanza, per quel che riguarda le condizioni dell'abitazione, invoca la violazione del Testo Unico per l'Edilizia; per quel che riguarda la formazione e la socializzazione dei minori rileva omissioni procedurali e difficoltà linguistiche dei minori medesimi (sono figli di genitori di madrelingua inglese), che inevitabilmente hanno ricadute sulla loro socializzazione. Tanto che l'Associazione Nazionale Magistrati è intervenuta a difesa delle decisioni del Tribunale dei minori di L'Aquila: «L'Ordinanza è stramotivata. - avrebbe dichiarato un magistrato – è lunga dieci pagine». A parte che non è il numero delle pagine che offre elementi per la valutazione della motivazione (essendo, piuttosto, gli argomenti portati con riferimento alla normativa vigente a giustificare eventualmente i provvedimenti), va notato che il caso si presta a una complessa valutazione, la quale non può essere fatta assumendo a modello di vita civile un particolare e contingente paradigma, orientamento e anima prima ancora della stessa legislazione.
Due casi sui quali riflettere
Prima di offrire qualche riflessione sul caso, è opportuno, al fine di spiegare l'ultima affermazione, riferire (e riflettere) su due aneddoti.
Il primo. In un paese di una Regione del Nordest dell'Italia nei primi anni Cinquanta del Novecento venne portato il Santissimo – e venne portato nel rispetto delle disposizioni del Concilio di Trento – a una signora che versava in condizioni di salute assai critiche. Le persone adulte non si scandalizzarono constatando che il di lei giaciglio era fatto di strame posato sulla nuda terra, ricoperto – lo strame – da un bianco lenzuolo. Il giaciglio era all'interno di un edificio che aveva per riparo e per luce un solo portone. La signora era madre di due figli (allora adolescenti) che godevano di piena salute (nonostante le difficoltà economiche della famiglia), che avevano regolarmente frequentato la scuola dell'obbligo, che avevano relazioni sociali normali, che non avevano in casa servizi come quelli ai quali siamo attualmente abituati. I figli non evidenziarono conseguenze negative nemmeno successivamente.
Il secondo caso. Un giovane maestro di Scuola elementare alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, divenuto di ruolo, fu inviato a insegnare in una Scuola di montagna dell'Italia settentrionale. Alla Scuola «pluriclasse» si accedeva percorrendo una mulattiera, percorribile negli ultimi sette chilometri solamente a piedi. La località, quindi, nella quale era ubicata la Scuola (si trattava di una Scuola di Stato, la cosa va sottolineata), era da considerarsi «isolata», nel bosco. Durante l'inverno la località rimaneva ancora più isolata a causa della neve, del pericolo di slavine (che consigliavano di non percorrere i sette chilometri da fare a piedi nemmeno con cautela). I fanciulli abitavano in case isolate, senza luce elettrica, senza acqua corrente, senza bagno interno. Le case, infatti, erano illuminate dalla luce ottenuta con un allacciamento a una bombola a gas; riscaldate da una cucina economica di mattoni, senza acqua corrente: il rifornimento avveniva attingendo a una fonte che dava vita a un ruscello che un signore si faceva carico di controllare, regolando la direzione dell'acqua utilizzando dei sassi. Il giovane maestro era ospitato in una famiglia la cui casa era definita «la casa del maestro». Dormiva in una camera con i soli infissi di vetro che consentivano nelle notti di luna piena un'illuminazione durante tutta la notte. Le coperte erano le pelli delle pecore sacrificate. L'acqua era contingentata. Tanto che la padrona di casa ne raccomandava un uso «razionale» (anche per le necessità igieniche). Le case della località, poche e disseminate, non avevano ottenuto certificazioni di abitabilità ed erano state costruite in difetto di progetti firmati da architetti e ingegneri: erano il risultato delle capacità dei capomastri. Le famiglie non avevano, ovviamente, TV e radio. Quando quel giovane maestro arrivò, si incominciava ad usare qualche radio a transistor.
I bambini, quei bambini, erano da considerare privati dei loro diritti alla socializzazione come – secondo il Tribunale dei minori di L'Aquila – prescrive (o, rectius, prescriverebbe) l'art. 2 Cost.? Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso la Costituzione era in vigore. Eppure lo Stato aveva Scuole «nel bosco». La scelta, in questo caso, non era dei genitori ma delle istituzioni.
Il problema
Ci rendiamo conto della difficoltà della risposta alla domanda posta. Ci rendiamo conto che la questione sollevata dall'intervento che ha coinvolto la «famiglia del bosco» è articolata e complessa. Non è facile una valutazione «bilanciata» dei diritti e dei doveri. Non è facile rispondere alla domanda se una vita condotta «così» - come disse un Ministro – compromette o meno l'educazione dei bambini. Pare, però, che sia stato accertato che non è venuto meno nel caso de quo l'adempimento dell'obbligo scolastico (anche se sono state registrate – almeno così pare – alcune violazioni burocratico-procedurali). Pare, inoltre, che i minori non abbiano incontrato problemi di salute (anche se non tutti gli obblighi vaccinali imposti dalle norme sono stati rispettati).
La domanda di fondo
La domanda di fondo è data dall'interrogativo: «a chi spettano le scelte educative?». La risposta del «senso comune» è che esse spettano ai genitori. Certo nel rispetto dei diritti naturali dei figli. Lo Stato è chiamato solamente a controllare che i genitori adempiano ai loro doveri. Lo Stato, poi, nei casi in cui i genitori siano morti o impossibilitati ad adempiere ai loro doveri ha una funzione sussidiaria. Esso, però, non deve né rivendicare né praticare diritti che esso non ha.
Un pericolo
Nelle valutazioni dei casi è facile, molto facile, adottare criteri soggettivi (questo pericolo è oggi accentuato, per quel che attiene alle questioni legali positive, dall'adozione dell'ermeneutica giuridica) o criteri sociologicamente egemoni. Questi criteri portano facilmente a errori e ad abusi. Talvolta si commettono errori e si praticano abusi nel rispetto formale delle norme positive. Basterebbe pensare ai crimini contro l’umanità, prescritti dall’ordinamento «giuridico» nazista, o alla legalizzazione dell’aborto procurato, avvenuta in molti Paesi.
Autodeterminazione e diritto
La rivendicazione del «diritto all'autodeterminazione» della propria volontà (sulla questione ha scritto pagine interessanti Rudi Di Marco. Cfr. la monografia Autodeterminazione e diritto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017) è oggi diffusa. La si invoca, infatti, frequentemente. La stessa giurisprudenza della Corte costituzionale ne fa un diritto fondamentale. La Corte costituzionale è arrivata al punto di riconoscere che possono essere legittimamente disattesi obblighi che la Legge fondamentale della Repubblica italiana definisce inderogabili (Sentenza n. 467/1991). L'autodeterminazione della volontà soggettiva, pertanto, sarebbe un «diritto» che può essere invocato contro le leggi (positive). E, persino, contro la Costituzione in virtù della Costituzione. Ê vero che la Corte costituzionale si è, a questo proposito, successivamente contraddetta: la Sentenza n. 14/2023 ne rappresenta un esempio eclatante.
Il Tribunale dei minori di L'Aquila ha invocato l'art. 2 Cost. Non si è, però, posto alcuni problemi racchiusi nel suo enunciato: 1° quali sono i diritti inviolabili dell'uomo (che la Sentenza della Corte costituzionale n. 98/1979 individua esclusivamente in quelli «posti» sia pure affermando che essi sono interpretabili a «fattispecie aperta»); 2° che cosa comporti lo «svolgimento» della personalità che, se dipendente esclusivamente dalle opzioni soggettive non consentirebbe interventi come quello operato dal Tribunale dei minori di L'Aquila: le opzioni dei genitori (almeno entro certi limiti) sarebbero insindacabili e le stesse opzioni dei minori nel caso de quo andrebbero in senso contrario all'Ordinanza (i minori, infatti, avrebbero chiesto di tornare a casa); 3° l'adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale sarebbe funzionale alla realizzazione della volontà soggettiva. Nel caso de quo, però, va considerato che i minori non hanno la capacità giuridica: pertanto unica volontà che avrebbe diritto di affermarsi sarebbe quella dei genitori. I genitori, però, sono stati privati della responsabilità genitoriale. Si arriva, così, al paradosso: l'unica volontà che avrebbe diritto di affermarsi – e che si sarebbe effettivamente affermata – è quella dello Stato, rectius quella dell'interprete della legge positiva, vale a dire del giudice, il quale afferma di imporre la volontà dello Stato. È evidente anche ai ciechi che lungo questa strada si conclude nel totalitarismo politico.
L'insufficienza dell'ordinamento giuridico positivo
Per evitare di concludere nel totalitarismo e per tutelare e garantire gli autentici diritti dei minori (e, più in generale, dell’uomo) è necessario individuare il fondamento dell’ordinamento giuridico positivo, il quale – fondamento – non sta nella volontà di alcuno: né del legislatore né del sovrano, anche se sovrano è considerato il popolo. È necessario, in altre parole, che il fondamento dell'ordinamento sia la giustizia la quale non è prodotto delle norme positive. Altrimenti si finisce nel vicolo cieco nel quale è finito il Tribunale dei minori di L'Aquila.
Conclusione
L’Ordinanza del Tribunale dei minori di L’Aquila sembra dettata dal formalismo giuridico. Il formalismo giuridico sembra dare soluzione ai casi. In realtà li complica. Soprattutto si rivela strumento inidoneo per dare loro autentiche risposte giuridiche. Esso, pertanto, in ultima analisi è un’iniuria al diritto.