Sull'indipendenza della magistratura

Sull'indipendenza della magistratura
Qualche considerazione preliminare alla questione
Premessa
La presente Nota non è una presa di posizione nemmeno introduttiva alla questione. Tanto meno essa intende tematizzare la questione medesima. Lo si farà in altra occasione.
Va notato, in via preliminare, che la questione dell’indipendenza della magistratura non è nuova. Negli ultimi tempi, però, essa è emersa con forza anche a causa di un uso talvolta strumentale del cosiddetto «terzo potere», da parte dello stesso «terzo potere». L'emersione è dovuta, inoltre, anche a talune teorie – l'ermeneutica giuridica e la giurisprudenza creativa soprattutto -, le quali quanto meno favoriscono l'applicazione delle norme «ultra normas» e, talvolta, persino «contra normas». Si può aggiungere che anche la formazione più recente offerta, prima, dalle Facoltà di Giurisprudenza e, poi, dai Dipartimenti giuridici universitari esercita un ruolo notevole a questo proposito.
Un dato certo
Quello che si può anticipare come dato certo è che l'art. 12 delle Preleggi, premesse al Codice civile italiano vigente, è attualmente oltrepassato. Il dispositivo della norma paracostituzionale appena citata, com'è noto, recita: «Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principî generali dell'ordinamento giuridico dello Stato».
Attualmente risultano superate – non c'è dubbio – sia l'interpretazione letterale sia l'interpretazione logica, sia l'analogia legis sia l'analogia iuris.
Non c'è dubbio, inoltre, che la disposizione appena riportata dipende, in parte, dalla dottrina politico-giuridica dominante al tempo della redazione del Codice civile. Per esempio, i «principî generali dell'ordinamento», sicuramente de facto, ma si può ritenere anche de iure, sono (almeno implicitamente) identificati con le «clausole generali», che non sono in sé e per sé «principî»[1]. L'ordinamento, poi, è considerato giuridico solo ed esclusivamente perché imposto dallo Stato, vale a dire perché reso vigente dal potere. La validità delle norme starebbe, in questo caso, esclusivamente nella loro vigenza. La legge, infatti, era (ed è) considerata atto della volontà dello Stato, già in crisi nella prima metà del Novecento[2]. Oggi, però, siamo andati «oltre». L'interpretazione letterale, infatti, risulta difficile a causa principalmente del significato ideologico del linguaggio (si ignora, infatti, generalmente il suo significato etimologico). L'interpretazione logica è resa praticamente impossibile per la «caduta» della «razionalità» del linguaggio, ancorata, nell'ipotesi migliore, unicamente a «sistemi» e, quindi, non fondata sulla realtà delle «cose». In altre parole essa è dipendente dall'effettività sociologica[3], non ancorata alla verità filosofica. L'analogia legis diventa, così, flatus vocis, ossia un'espressione retorica e una disposizione metodologica incerta a causa della proliferazione delle norme, e di una proliferazione scoordinata, incoerente delle medesime. L'analogia iuris, a sua volta, è resa impossibile sia dal dettato positivistico, che in ultima analisi subordina il diritto alla legge (secondo questa dottrina il giudice deve attenersi esclusivamente e strettamente alle norme positive vigenti)[4] sia dall'eclissi del diritto, inteso come determinazione di ciò che è giusto (anche se di tanto in tanto emerge l'esigenza della ricerca dell'equità sia a livello legislativo[5] sia a livello giurisprudenziale).
Ulteriori cause
Non c'è dubbio che l'ermeneutica giuridica abbia favorito una soggettivistica interpretazione della legge e, conseguentemente, una sua applicazione «occasionale», soggetta a sorprese. La norma, per l'ermeneutica giuridica, è – coerentemente rispetto a un particolare cognitivismo scettico – il materiale per «costruire» la disposizione. Non è, quindi, una disposizione coglibile immediatamente. La costruzione è affidata all'interprete, al giudice in ultima analisi. Non è un dato oggettivo nella cui «lettura» ci si può certamente sbagliare ma, per sbagliare, è necessario il riferimento a un testo oggettivo ed universale per lo meno (positivisticamente, quindi) all'interno dell'ordinamento giuridico. In altre parole, è sempre possibile l'errore ermeneutico. Tanto che l'ordinamento, anche per questo, prevede più gradi di giudizio e l'ultimo – quello della Cassazione – ha anche la finalità di assicurare uniformità nell'applicazione delle norme (positive). L'errore, perciò, è definibile solamente in rapporto a qualcosa che vincola il giudice e che viene prima dell’interpretazione. Per l'ermeneutica giuridica, invece, l'errore in ultima analisi non sarebbe nemmeno possibile, poiché l'interpretazione del giudice è costitutiva (o pretende di essere costitutiva) della disposizione. Si crea, così, un'anarchia ordinamentale (una vera contradictio in adiecto), la quale consente a ogni giudice di dire quello che la norma dice, rectius quello che lui crede che la norma dica. Questa anarchia è, in parte, evitabile ricorrendo alla Cassazione (che, per altro, anche a Sezioni Unite si è talvolta contraddetta e, comunque, anch'essa corre il rischio di far dire alla norma quello che si crede che la norma dica), oppure alla teoria generale della giurisprudenza che riuscirebbe a dire il diritto sotto la formula del diritto vivente che, in realtà, sarebbe il ritenuto diritto reso effettivo. Detto meglio: diritto sarebbe unicamente la sentenza definitiva passata in giudicato, non la determinazione di ciò che prescrive la norma e tanto meno la determinazione del giusto. È significativo, a questo proposito, che ci siano autori che propongono di sostituire la filosofia del diritto con la teoria generale della giurisprudenza. Per questi autori sarebbe impossibile la stessa ricerca del diritto come determinazione di ciò che è giusto. D'altra parte risulterebbe inutile una teoria generale dell'ordinamento giuridico, poiché esso non potrebbe dire – nemmeno positivisticamente – ciò che è giusto per norma dovendo ricercare il dettato della norma a posteriori, vale a dire nelle sentenze.
L'ermeneutica giuridica è madre della giurisprudenza creativa. Questa favorisce al massimo grado l'indipendenza del giudice. Non tanto e non solo nel senso di garantirgli di non essere soggetto a influenze di altri poteri e, comunque, a condizionamenti «ambientali», bensì nel senso che gli garantisce di fare della sua «interpretazione» la fonte della disposizione normativa sia pure partendo dalla norma. In altre parole l'indipendenza del giudice, alla luce di questa dottrina e della sua applicazione, rende il giudice medesimo arbitro «legislativo», vale a dire non soggetto nemmeno alla legge. Non solo. C'è il rischio di vedere usate le norme come sgabelli per una «lettura» e per un'applicazione nichilistica delle norme medesime. In realtà c'è di più. Le norme positive che l'ermeneutica giuridica «applica» sono strumenti per rendere effettiva la propria personale ideologia, contro lo stesso vecchio positivismo giuridico normativo e, in particolare, contro il dettato dell'art. 12 delle Preleggi, premesse al Codice civile italiano vigente[6].
Su alcune conseguenze
È superfluo osservare che nella pratica ciò ha portato a conflitti, a incertezze, ad arbitrarie valutazioni da parte dei magistrati, persino a condanne rivelatesi successivamente ingiuste. Clamorose sono state le conclusioni, in un senso o nell'altro, di alcuni processi. Talvolta persino alcune archiviazioni sono apparse ingiustificate ed ingiustificabili. Non sono mancati casi in cui si è negato il pronunciamento dovuto o si sono forzate le norme. Le norme sono state spesso «piegate» a finalità totalmente estranee alla giustizia, anche a quella definita tale sul piano esclusivamente legale. Taluni casi clamorosi lo rivelano. Persino chi, per dovere d’ufficio, ha agito a tutela della legittima legalità (l’espressione non deve ritenersi erronea, perché c’è anche una legalità illegittima) è finito sotto processo, essendo state considerate ed utilizzate per questo finalità politiche, anzi partitiche, estranee totalmente alla giustizia.
Talune assoluzioni, poi, perché il «fatto non sussiste», rivelano errori clamorosi soprattutto da parte della magistratura inquirente (che tale sostanzialmente resta anche dopo il passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio): incapacità di comprendere i fatti e di sussumerli nelle fattispecie?[7]; semplice incapacità di valutare i casi ad essa sottoposti?; dolo, mascherato con interpretazioni legate all'ermeneutica giuridica?
Quello che è certo è che l'indipendenza della magistratura non consente di istruire processi e di emettere sentenze sulla base di «convincimenti» personali non suffragati da prove incontrovertibili, tanto meno sulla base di sole prove «coerenti» con sistemi, quelle che vengono chiamate «prove teoriche».
Al magistrato non è consentito sbagliare né per ignoranza grave né tanto meno per dolo. Esso, nell'un caso come nell'altro, cioè nel caso di colpa grave o di dolo, dovrebbe «rispondere» civilmente e penalmente. Dovrebbe «rispondere» proprio per tutelare la sua vera indipendenza e per dimostrare che è nella condizione personale di fare il suo lavoro, vale a dire di «dare effettivamente giustizia».
L’indipendenza ed il suo uso ambivalente
L’indipendenza della magistratura, analogamente per esempio all’immunità parlamentare, da una parte può «tutelare» veramente il giudice (anche quello inquirente, chiamato a esercitare il ruolo di pubblico accusatore anche secondo il rito accusatorio), dall’altra, può essere una via per consentirgli di abusare della sua funzione e del suo potere. Il problema, a monte, è innanzitutto etico e deontologico. Non sono le norme, infatti, che garantiscono effettivamente l’indipendenza anche se, a tal fine, esse, più che utili, sono indispensabili. La libertà è, innanzitutto, un fatto interiore: non è libero chi non vuole esserlo o chi usa la libertà per farsi schiavo. Attualmente sono gli stessi magistrati ad autodenunciare che, talvolta, si prestano (per mille ragioni) a «servire» solamente a parole la giustizia, perché essa nei fatti serva loro. Il libro-intervista a Palamara, uscito qualche anno fa[8], è un esempio di autodenuncia dell’uso spesso improprio della legge positiva e delle regole amministrative.
Il problema non è l’errore di alcuni. Il problema è la prassi di molti e, soprattutto, le dottrine che portano coerentemente a sostenere tesi sbagliate.
Esempi di tesi sbagliate e problemi ad esse connessi
È stato osservato che i giudici sono soggetti soltanto alla legge. L’osservazione – giusta – richiede una precisazione: la legge dev’essere legge, vale a dire giusta. Anche le leggi parzialmente ingiuste richiedono rispetto per la parte conforme al diritto e per l’utilità sociale della residua parte non conforme al diritto ma in maniera non grave[9]. Esse, però, non devono essere inique. Inique, per esempio, furono (e sono) diverse leggi naziste, le leggi razziali del fascismo italiano, la legge dell’aborto procurato della Repubblica italiana. L’elenco potrebbe continuare. Il giudice è soggetto anche alle leggi inique? La maggioranza dei giudici risponderebbe - ne siamo certi - in maniera incondizionata positivamente. Le leggi inique sono vulnera al diritto, non sono diritto. Se esse prescrivessero palesi e gravi iniquità il giudice sarebbe tenuto a disattendere le disposizioni, motivandone le ragioni. Ciò, non solo per ragioni strettamente morali ma anche e soprattutto per ragioni autenticamente giuridiche. Il giudice, infatti, non è mero strumento, una macchina del potere. La sua «indipendenza» investe anche questo aspetto del suo operare. Essa – l’indipendenza -, parlando per metafore, non sta, infatti, in una gabbia entro la quale il giudice può operare o passivamente (in quanto chiamato ad «applicare» ciecamente la norma) o attivamente (vale a dire a «costruirla» quale disposizione sulla base della sua propria ideologia o dell’ideologia egemone del suo tempo e del suo contesto, anche se fatta propria dall’ordinamento). Il giudice, in altre parole, è tenuto (come tutti i cittadini) a «obbedire» alla legge, non a «eseguire» acriticamente gli imperativi del potere. L’obbedienza è sempre razionale; richiede valutazioni; impone, nel caso de quo, di agire secondo il diritto che sta (o dovrebbe stare) anche nella legge positiva, rappresentandone il criterio.
Dal confronto, in realtà dallo scontro, tra poteri attualmente in atto emergono altre questioni legate all’indipendenza della magistratura. Su alcune di queste torneremo. Qui ci limitiamo ad accennare a una sola.
È stato autorevolmente affermato nel tentativo di difendere l’indipendenza della magistratura che il giudice è soggetto (innanzitutto e principalmente) alla Costituzione. Lo sono in realtà tutti, compreso il potere legislativo e quello esecutivo. Che venga invocata la Costituzione come àncora di salvezza dell’indipendenza della magistratura è molto significativo. Questa invocazione, infatti rivela la fragilità della teoria della divisione dei poteri di Montesquieu, la quale probabilmente esiste solamente sotto il profilo formale.
L’invocazione è significativa, inoltre, perché rivela un’esigenza alla quale la dottrina della Costituzione - lo si accennerà fra poco – non riesce a dare risposta. L’invocazione, infatti, rappresenta la necessità e simultaneamente il tentativo di limitare il potere del legislativo e dell’esecutivo, poiché nessuno può andare oltre (e, tanto meno, contro) la Legge fondamentale della Repubblica, nella quale andrebbe cercato il diritto e la fonte della legittimazione di ogni potere. In altre parole chi propone e invoca questa teoria per «difendere», fra l’altro, l’indipendenza della magistratura fa della Costituzione il punto archimedeo dell’ordinamento giuridico; punto non oltrepassabile, rappresentando esso le «colonne d’Ercole» delle società civili e particolarmente del mondo del diritto e dei suoi operatori. Sotto un certo profilo l’invocazione, dunque, è invocazione del diritto, non essendo sufficienti le leggi positive a «garantire» libertà e indipendenza al magistrato. L’esigenza è giusta ma - ad avviso di chi scrive – la strada imboccata e la risposta data sono sbagliate. La Costituzione, infatti, se considerata (come attualmente viene generalmente considerata) come Legge fondamentale della comunità politica, appartiene al cosiddetto «diritto positivo», al diritto «creato» dal potere, «posto» da chi contingentemente è nella condizione di imporre la propria volontà. In breve: da chi è e si considera «sovrano» e, in quanto tale, dipendente unicamente – così definì il sovrano Bodin – dal potere della propria spada.
Non ogni atto di volontà, reso effettivo, può essere considerato razionale (conforme, cioè, alla razionalità contemplativa). Lo dimostrano molte leggi positive, frutto della volontà dello Stato e/o del popolo. Esse hanno vigore, ma non validità. Anche la Costituzione italiana del 1948 non sfugge alla ratio secondo la quale il potere è fondativo del diritto (il quale ontologicamente dunque sarebbe tamquam non esset). Basterebbe leggere il suo art. 1: la sovranità del popolo, infatti, esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione (trattasi, quindi, di una sovranità almeno proceduralmente «ingabbiata»), è ritenuta fonte ultima dell’ordinamento giuridico. L’ordinamento giuridico, positivisticamente considerato, è l’insieme coerente delle norme poste dal legislatore: il potere legislativo, alla luce di questa dottrina, è, pertanto, sovraordinato agli altri poteri. La magistratura, quindi, esercita e può esercitare la sua finzione nell’ambito di una libertà limitata. Non è, sotto questo profilo, indipendente. È indipendente nell’applicazione delle norme ma non è indipendente dalle norme. Il che significa che, sostanzialmente, non si è usciti dal vecchio normativismo, nonostante le nuove dottrine e le nuove rivendicazioni.
Alcuni appunti conclusivi
La questione dell’indipendenza della magistratura è complessa. Essa postula innanzitutto un’articolata analisi per essere conosciuta in profondità e integralmente. Non basta, infatti, proporre e intervenire solamente su alcuni suoi aspetti, pur rilevanti, per avviarla a soluzione o, meglio, per formulare ed attuare proposte riformistiche destinate a durare nel tempo e, soprattutto, utili a garantire l’indipendenza del giudice e simultaneamente un esercizio corretto di quello che, alla luce della teoria di Montesquieu, viene chiamato «terzo potere», il quale, talvolta, nei fatti – il riferimento è alla magistratura inquirente (che tale resta – lo ripetiamo – al di là delle denominazioni e dei ruoli assegnatele istituzionalmente) - si è trasformato gradualmente nel «quarto potere».
Va osservato, a questo proposito, che la teoria della divisione dei poteri ha posto notevoli problemi. Uno di questi è rappresentato dalla subordinazione assoluta del giudice alla legge, intesa – questa – essenzialmente come sola volontà dello Stato. Questa subordinazione – è vero – è una subordinazione «generale» alle norme, come «generale» è la norma. La generalità della norma, però, non è né condizione né garanzia del rispetto del diritto. L’ordinamento «giuridico» del Reich, per esempio, era generale (astratto ed impersonale). Ciò non ha impedito che, applicando le sue norme, venissero commessi reati. Tanto che, caduto il regime nazista, venne istituito il Tribunale di Norimberga, il quale, per essere legittimato, non poteva (e non può) essere considerato Tribunale di un altro potere, anche se «alternativo» e, quindi, contrario al nazismo.
Un secondo problema è posto – implicitamente lo si è già accennato – dalla sovranità (intesa come supremazia). Soprattutto negli Stati liberal-democratici, infatti, essa è considerata fonte delle leggi (fonte legittimante qualsiasi legge): delle leggi costituzionali e delle leggi ordinarie.
È un doppio errore, poi, appellarsi alla Costituzione – prodotto della sovranità, sia pure della sovranità popolare – per invocare e difendere l’indipendenza della magistratura. Il primo errore è dato dall’omissione della considerazione che la Costituzione nella cultura politico-giuridica della Modernità è sempre prodotto del «potere costituente»; potere sovrano e, perciò, non giuridico. Il secondo errore è rappresentato dal rifiuto di considerare il potere legislativo sovraordinato agli altri poteri (esecutivo e giudiziario). Necessariamente, quindi, sotto questo profilo la magistratura – sia giudicante sia inquirente (per quest’ultima vale quanto osservato precedentemente) – è subordinata a una volontà «non sua», resa effettiva e considerata legittima solamente perché manifestata ed imposta nel rispetto delle procedure ma aperta nel merito a qualsiasi imposizione, anche alle imposizioni arbitrarie (cioè irrazionali): la dottrina della democrazia moderna impone – lo insegnò Rousseau – di considerare sempre razionale la volontà che riesce a diventare effettiva (stat pro ratione voluntas).
Su ognuna di queste questioni sarebbe necessario un Trattato. Qui basta aver registrato la loro esistenza, di cui dovrebbero prendere atto coloro che, direttamente o indirettamente, sono chiamati per dovere d’ufficio a considerare il problema. Sarebbe opportuno che prendessero atto anche coloro che ne sono coinvolti per altre ragioni. Spesso costoro restano prigionieri di contrapposizioni polemiche, poco utili, talvolta addirittura dannose, per la soluzione di una questione attuale, molto delicata.
Prima di concludere (e riservandoci di riprendere la considerazione della questione) è bene accennare ad altri due problemi.
Il primo riguarda l’art. 12 delle Preleggi premesse al Codice civile del 1942. La seconda riguarda la formazione giuridica perseguita e offerta nelle (vecchie) Facoltà di Giurisprudenza e (attualmente) nei corsi giuridici dei Dipartimenti universitari.
Per quel che riguarda il citato art. 12 delle Preleggi, si deve osservare che esso dispone secondo «buon senso» ma su presupposti che meriterebbero approfondimenti (e, forse, censure). Per quel che riguarda il «buon senso» è opportuno precisare che con questa espressione si intende il «senso comune»: che l’interpretazione della legge, infatti, debba essere letterale e logica appare evidente anche all’uomo della strada. Non cadono dubbi, poi, sulla opportunità, nel caso in cui non sia possibile decidere una controversia con le interpretazioni appena citate, di ricorrere all’analogia legis e all’analogia iuris. Quella che pone problemi è, invece, la disposizione che impone l’adozione di principî (in realtà, clausole generali, come si è osservato) ricavabili esclusivamente dall’ordinamento giuridico dello Stato. Disposizione, questa, non necessariamente errata se l’ordinamento giuridico dello Stato accogliesse i veri principî del diritto. La sua ambiguità, però, ha lasciato aperte le porte all’assoluto giuspositivismo giuridico che, coerentemente ma assurdamente, ritiene che l’ordinamento sia condizione del diritto, mentre è vero il contrario. Non solo. Lo Stato, rectius la sua volontà, non è la fonte della legge. La volontà dello Stato è funzionale a prescrivere leggi che le preesistono anche se per la loro formulazione «concreta» è necessario l’intervento dello Stato. Perciò, si può ritenere che l’art. 12 delle Preleggi citato sia, almeno virtualmente, ipotecato da dottrine giuridiche positivistiche, le cui proposte sono inadeguate alla soluzione dei problemi giuridici.
Per quel che riguarda la formazione offerta dalle Facoltà di Giurisprudenza e dai Dipartimenti universitari (necessaria premessa anche per l’indipendenza della magistratura), va osservato che attualmente essa – la formazione – è prevalentemente tecnico-legale. Essa, pertanto, predispone all’accettazione (generalmente passiva) delle disposizioni ordinamentali. L’ermeneutica giuridica e la giurisprudenza creativa, pur in presenza dei loro presupposti e delle loro finalità sbagliate, sono tentativi di liberazione da queste ipoteche; tentativi, però, - lo si è già detto – inaccettabili perché complicano i problemi, anziché risolverli.
Per ora, de hoc satis.
[1] Il principio, infatti, è ciò che consente di leggere in maniera non contraddittoria l'esperienza, per la qualcosa necessita di un fondamento ontologico. Se venisse meno il suo fondamento ontologico, il principio verrebbe a identificarsi con l'opzione, la quale spiega il «sistema» ma non lo giustifica. Significativa, a questo proposito, è l'osservazione di Livio Paladin secondo il quale l'ordinamento costituzionale della Repubblica italiana poggia sull'opzione personalistica (cfr. L. PALADIN, Diritto costituzionale, Padova, Cedam, 1971, p. 562).
[2] Lo Stato moderno, soprattutto nella prima metà del Novecento, ha rivelato tutta la sua fragilità istituzionale, essendosi subordinato alle ideologie. Allo Stato, in altre parole, fu imposta una dipendenza dal partito politico. Si pensi, per esempio, al regime fascista. Anche il cosiddetto «Stato dei partiti» che seguì all'esperienza e all'ordinamento giuspubblicistico del fascismo, fu caratterizzato dal primato delle ideologie (di ideologie diverse ma «convergenti»). Della questione si occuparono, com'è noto, diversi autori. Basterebbe ricordare Pierluigi Zampetti che vi dedicò energie, tempo ed entusiasmo oltre il limite della giusta misura (cfr. P. ZAMPETTI, Dallo Stato liberale allo Stato dei partiti, Milano, Giuffrè, 1965).
[3] Si vedano, ad esempio, le Sentenze della Corte costituzionale italiana a proposito del reato di adulterio (previsto dall’art. 559 C. P.): Sentenza n. 64/1961, Sentenza n. 126/1968, Sentenza n. 147/1969. Esse trovarono una giustificazione schmittiana. La Costituzione, cioè, allargando il discorso, non sarebbe regola per la società, essendo secondo questa dottrina la società regola per la Costituzione. Per ulteriori considerazioni relative al problema rinvio a D. CASTELLANO, Costituzione e costituzionalismo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2013, pp. 107 ss.
[4] L’analogia iuris alla luce di questa teoria consente una teoria dell’ordinamento, non la ricerca (ed eventualmente l’applicazione) del diritto in sé e per sé Non consente, per esempio, di dire che cosa sia l’equità in sé e per sé, limitando l’indagine intorno a questa come intorno a ogni altra questione al modo secondo il quale essa è prevista dai singoli ordinamenti.
[5] Si veda, per esempio, la Legge n. 392/1978 (più volte modificata), detta dell’equo canone.
[6] Ne sono stati un esempio i cosiddetti «Pretori d'assalto». La stessa Corte costituzionale italiana è scivolata talvolta lungo questa strada. Lo ammise, per esempio, la Presidente della Corte costituzionale, Silvana Sciarra, nel corso di un’intervista apparsa nel sito ufficiale della Corte costituzionale nell’aprile 2023, allorché dichiarò che non era stata irragionevole l’introduzione dell’obbligo vaccinale anti Covid-19 da parte del Governo (ignorando che l’eventuale imposizione di simili obblighi spetta al potere legislativo e non all’esecutivo. Tanto che eventuali imposizioni del Governo devono essere successivamente approvate dal legislativo con la loro conversione in legge).
[7] Si deve registrare, a questo proposito, che non tutti i fatti sono fatti giuridici e che non tutti i fatti giuridici hanno rilevo sotto il profilo della fattispecie.
[8] Cfr. L. PALAMARA-A. SALLUSTI, Il sistema. Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana, Milano, Rizzoli/BUR, 2021.
[9] Sulla questione si rinvia al Capitolo IV del libro D. CASTELLANO, Del diritto e della legge, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2019.