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Il coraggio del judicial self-restraint

Equilibri
Ph. Federico Radi / Equilibri

Indice:

1. Il “creazionismo giudiziario” e la “logica del bad man

2. Qualche esempio dalla più recente giurisprudenza di legittimità

3. Una questione di coraggio: il judicial self-restraint

4. Buone ragioni per resistere alla tentazione di sostituire l’urna elettorale con la sentenza

 

1. Il “creazionismo giudiziario” e la “logica del bad man

Che la giurisprudenza abbia sempre fatto registrare un naturale tasso di creatività è incontestabile. Altrettanto incontestabile è, però, il rilievo per cui l’attività “creativa” sembra presentarsi, nei tempi presenti, con caratteristiche nuove e, spesso, abnormi: si potrebbe dire che questa non si muove più soltanto a margine dei testi normativi (riconoscendo quelle «glosse che la vita vi ha inscritto», secondo l’efficace immagine di Justice Felix Frankfurter), ma – spesso – va al cuore della disposizione, sostanzialmente riscrivendola, sia pure dietro il paravento del “perfezionamento” del diritto. In contesti come questi, il limite tra “interpretazione” e “integrazione”, tra “applicazione” della norma e sua “trasformazione” è sicuramente labile, ma non per questo non identificabile.

Invero, è qui che si apprezza la differenza tra la “logica del bad man” e la “logica dell’intesa cooperativa”: la prima di «chi si industria a manovrare i testi di legge in vista del conseguimento di un proprio fine (ad es., tutelare gli interessi di un certo gruppo sociale oppure realizzare le istanze del “giusto” o dell’etica o delle dottrine della Chiesa cattolica e così via)»; la seconda di chi, pur consapevole del ruolo attivo che spetta all’interprete, non per questo «recide il vincolo morale e politico della subordinazione di ciascun cittadino alla legge e, perciò, si sottrae (cerca di sottrarsi) alla tentazione di esercitare subdolamente un potere politico, che spetta ad altri e che, per di più, non saprebbe esercitare appropriatamente» [Belfiore, Interpretazione della legge: l’analogia, Studium iuris, 2008, 432].

È nella “logica del bad man”, dunque, che si innesta il cosiddetto “creazionismo giudiziario” [Ferrajoli, Contro il creazionismo giudiziario (Mucchi 2018)]. La distinzione tra questa logica e quella dell’“intesa cooperativa” ci aiuta a inquadrare il fenomeno in parola in modo soddisfacente (sia pure con un ineliminabile tasso di approssimazione), al fine di evitare che esso diventi un’etichetta di comodo da applicare a qualsiasi risultato dell’attività giudiziale che risulti “sgradito”.

La denuncia del “creazionismo” come di un’invasione di campo e di un’alterazione dell’equilibrio tra i poteri dello Stato, infatti, non può diventare un alibi per ridurre gli spazi naturalmente riservati all’interprete, quando questi si muove nel rispetto del testo di legge e in armonia con il sistema (seguendo la “logica dell’intesa cooperativa”): interpretazioni che siano evolutive, analogiche, conformi al diritto sovranazionale, ovvero che siano il risultato della concretizzazione di norme e clausole generali, appartengono allo strumentario proprio del giudice contemporaneo che media tra il passato e il presente, come tra il generale e il particolare. Una critica frettolosa e di fatto politica alla giurisprudenza finirebbe, invece, per strizzare l’occhio proprio a quel potere che freme per liberarsi dai vincoli che la civiltà occidentale gli ha faticosamente posto (positum) mediante il diritto.

 

2. Qualche esempio dalla più recente giurisprudenza di legittimità

Le cause del “creazionismo giudiziario” sono molte: qui possono velocemente ricordarsi l’irrompere delle Costituzioni “lunghe” non solo nei rapporti “verticali” tra potere pubblico e libertà individuale, ma anche nei rapporti “orizzontali” tra cittadini; le influenze del diritto sovranazionale; la progressiva decadenza della qualità della tecnica legislativa; una certa “auto-rappresentazione” della magistratura come adeguatamente attrezzata a dare voce alla “coscienza sociale”… È evidente che i casi in cui più facilmente si incontra il fenomeno in parola sono quelli che ruotano attorno ai cosiddetti temi “eticamente sensibili”, e che occupano specialmente la giustizia costituzionale, ma questa tendenza si registra anche nei campi più “classici” e “ordinari” dell’attività giudiziale.

Si pensi, ad esempio, alla disciplina delle nullità nel processo penale: da tempo, la giurisprudenza (cfr., ex multis, Cass. sez. un. 29 settembre 2011 n. 155, “Rossi”) si è incaricata di temperare gli effetti negativi sull’economia procedimentale derivanti dalla declaratoria di invalidità, ravvisando quest’ultima solo in presenza di un effettivo pregiudizio patito dall’imputato; si tratta di un apprezzabile intento, volto a contemperare l’impianto garantistico del regime con i principi di speditezza dell’attività giudiziale, ma che allo stato della nostra disciplina normativa non dovrebbe considerarsi praticabile [Giostra, Prima lezione sulla giustizia penale (Laterza 2020), 14].

Restando nell’ambito della giustizia penale, si pensi alla pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite in materia di responsabilità del sanitario (21 dicembre 2017 n. 8770, “Mariotti”): qui la Suprema Corte ha cercato di offrire una interpretazione dell’art. 590-sexies c.p. che fosse in grado di bilanciare i vari interessi che vengono in rilievo, ma lo ha fatto al prezzo di un’operazione così creativa, da mostrare profili di dubbia compatibilità con il rispetto pieno del principio costituzionale di legalità penale [Blaiotta, Niente resurrezioni, per favore. A proposito di S.U. Mariotti in tema di responsabilità medica, Dir. pen. cont., 28 maggio 2018; FiandacaMusco, Diritto penale. Parte generale8 (Zanichelli 2019), 579]. Ugualmente creativa, per i suoi riflessi nell’ambito del diritto civile interno, può dirsi la pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite (5 luglio 2017 n. 16601) in materia di delibabilità delle sentenze straniere di condanna ai punitive damages. Sono tutti casi in cui il giudice sembra essersi mosso «non più dalla legge alla sentenza, ma dalla decisione al dato normativo che può legittimarla» [Castronovo, Diritto privato e realtà sociale. Sui rapporti tra legge e giurisdizione a proposito di giustizia, Europa e dir. priv., 2017, 3, 767].

 

3. Una questione di coraggio: il judicial self-restraint

Messa da un canto la questione del “contenuto” delle varie decisioni, deve sottolinearsi che, in una certa misura, più importante dell’esito, è il modo in cui quest’ultimo viene raggiunto: «va tenuto conto, in particolare, che davanti al giudice si presenta il caso con le sue caratteristiche di fatto ormai compiuto e non la questione generale cui mette capo la questione normativa»; sicché, «l’eventuale inventio giudiziale può avvenire senza la preoccupazione di inquadramento propria di chi elabora la dispositio» [Nicolussi, Famiglia e biodiritto civile, Europa e dir. priv., 2019, 3, 740]. A ciò deve aggiungersi che i moderni sistemi democratici si reggono (anche) sulla promessa di un potere giudiziario imparziale, indipendente, neutrale: tutte caratteristiche che mal si addicono a soggetti attivamente impegnati a foggiare nuove leggi e, dunque, a comporre in modo originale e valorialmente discrezionale i conflitti tra i diversi diritti e interessi che sorgono, quotidianamente, nel consesso sociale. Il tema degli interventi giurisprudenziali in materia di nullità processual-penalistiche è utile per sottolineare questo punto: difatti, «ciò che si guadagna in celerità lo si perde in certezza, parità di trattamento e terzietà del giudice», dal momento in cui, quest’ultimo, per compiere un giudizio del genere, «deve sbilanciarsi in valutazioni che ne possono offuscare e talvolta compromettere l’equidistanza» [Giostra, Prima lezione sulla giustizia penale cit., 14].

In proposito, è di particolare interesse il discorso che Justice Neil Gorsuch ha svolto intorno al concetto di judicial courage, del “coraggio” che ogni giudice deve dimostrare nella propria professione. Questo coraggio si esprime nell’applicare la legge anche quando ciò lascerà insoddisfatte e perfino scontrose le maggioranze politiche (è, per intenderci, il coraggio che la Corte suprema americana manifestò in Brown v. Board of Education): ma, ammonisce Gorsuch, «agire di fronte alla pressione di non farlo è solo uno degli aspetti del judicial courage.

C’è un altro e parallelo aspetto che forse è anche più difficile da raggiungere e che potrebbe essere perfino più encomiabile. Questa espressione di coraggio è l’autolimitazione (self-restraint) nell’esercizio del potere» [Gorsuch, A Republic If You Can Keep It (Crown Forum 2019), 188]. Il tema è all’incrocio dei rapporti tra politica e attività giudiziale. Se non tutte, sicuramente una buona parte delle sentenze avrà un’ineliminabile carica politica: pertanto, il self-restraint deve consigliare cautela quando ci si avventura in ambiti non normati e su cui il dibattito democratico è ancora alla ricerca di una soluzione sufficientemente condivisa. In questi casi, il singolo giudice dovrebbe riconoscere che l’ordinamento protegge la sua indipendenza non perché egli possa “inventare” nuove norme in modo “irresponsabile”, ma – facendo i conti con «la verità banale della creatività della giurisprudenza» [Cappelletti, Giudici legislatori? Studio dedicato alla memoria di Tullio Ascarelli e di Alessandro Pekelis (Giuffrè 1984), VII] – quel self-restraint dovrebbe perlomeno suggerire al giudice di fondare la propria decisione su basi più solide, oggettive e controllabili del proprio personale senso di giustizia o di ragionevolezza.

 

4. Buone ragioni per resistere alla tentazione di sostituire l’urna elettorale con la sentenza

Allo stesso tempo, non può dismettersi con superficialità la tensione “ideale” che anima la via giudiziale come tecnica di rinnovamento politico-sociale [Mengoni, Diritto e politica nella dottrina giuridica, ora in Id., Scritti, I (Giuffrè 2011), 156 s.]. Ma ammettere che, in un ordinamento e in un dato momento storico, esistano norme positive e perfino costituzionali (ritenute) “ingiuste”, e, allo stesso tempo, manchino norme (ritenute) “giuste” e tuttavia non poste, non giustifica la tentazione di sostituire l’urna elettorale con la sentenza e una democrazia di milioni di elettori con una fatta da una sola manciata di essi. Per ragioni, connesse tra loro, di “sostanza” e di “metodo”.

Quanto alle prime, si deve constatare che quando si novella il diritto, nulla assicura che questo verrà alterato nel senso di una maggiore libertà o anche solo di una più marcata coerenza con il dettato costituzionale: e l’esperienza insegna che è più “facile” emendare una legge che modificare un orientamento giurisprudenziale. Quanto alle seconde, si deve evidenziare che in Parlamento si costruiscono coalizioni e si stringono compromessi, il tutto sotto lo scrutinio dell’opinione pubblica, che conosce le ragioni della maggioranza e può valutare quelle della minoranza; in tribunale, c’è un solo vincitore, che viene scelto nel segreto della camera di consiglio, senza che alle opinioni dissenzienti sia consentito di raggiungere il pubblico: sicché, in una società pluralista come la nostra, tra i due alternativi luoghi, è il primo quello meglio equipaggiato per amministrare e comporre i casi di collisione tra diritti e principi fondamentali [Bickel, The Supreme Court and the Idea of Progress (Yale University Press 1978), 175 s.], mentre il secondo è quello più vulnerabile al rischio di cedere alla cosiddetta “tirannia dei valori” [Schimtt, La tirannia dei valori: riflessioni di un giurista sulla filosofia dei valori (Adelphi 2008)].

E questo scriviamo non per una cieca fiducia nel processo democratico e nei suoi risultati, ma perché siamo intimamente convinti del fatto che imboccare la scorciatoia della via giudiziale, opposta alla «porta stretta» dell’opera di persuasione dei nostri pari, può far dimenticare che gli individui osservano le regole perché ne riconoscono la legittimità, e ne riconoscono la legittimità perché hanno avuto parte, diretta o indiretta, nella loro formazione.

Non dovremmo mai ignorare la “profezia” del giudice americano Learned Hand: «una società lacerata a tal punto da aver perso lo spirito della moderazione non può essere salvata da alcun tribunale – e in una società che sfugge alle proprie responsabilità, abbandonando ai tribunali lo spirito della moderazione, quest’ultimo è destinato a sparire» [Hand, The Contribution of an Indipendent Judiciary to Civilization, in Id., The Spirity of Liberty (Knopf 1952), 181].