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“A Republic If You Can Keep It”: la lezione di Justice Gorsuch

Neil Gorsuch
Neil Gorsuch

Indice:

1. La scomparsa di Antonin Scalia e la nomina alla Corte suprema di Neil Gorsuch

2. La filosofia giuridica di Gorsuch e l’importanza del judicial courage

3. Preservare l’ideale repubblicano attraverso l’educazione civica e civile

4. L’eredità di un giudice

 

1. La scomparsa di Antonin Scalia e la nomina alla Corte suprema di Neil Gorsuch

Antonin Scalia è stato un gigante del diritto. Nel ruolo di giudice della Corte suprema statunitense, egli è riuscito – grazie alle proprie opinion (più quelle pronunciante in dissenso, che quelle di maggioranza) e al proprio personale carisma – a ridare lustro a un metodo interpretativo (appellato come originalism o textualism) che, da “relitto” storico qual era diventato, si è ritrovato impiegato da un numero crescente di giudici. Pertanto, la sua improvvisa morte, nel febbraio 2016, ha portato con sé un difficile interrogativo: chi avrebbe potuto raccogliere l’eredità “intellettuale” di Justice Scalia? Donald Trump promise solennemente di nominare, in caso di vittoria alle elezioni presidenziali, giudici sul modello di (in the mold of) Scalia, e, per dimostrare la serietà del suo intento, pubblicò una lista di diversi giuristi tra i quali avrebbe scelto, innanzitutto, proprio il successore di Scalia alla Corte suprema.

Tra quei nomi non figurava, inizialmente, quello di Neil Gorsuch, all’epoca giudice della Corte d’Appello per il decimo circuito (nominato, nel 2006, da George W. Bush). Lo stesso Gorsuch racconta nel suo nuovo libro, A Republic, If You Can Keep It (Crown Forum, 2019), qui in recensione, che durante un pranzo in compagnia, nell’autunno del 2016, un amico gli espresse tutta la propria delusione per il fatto che il suo nome non fosse stato incluso nella lista pubblicata da Trump. Senonché, appena terminato il pranzo, il cellulare di Gorsuch squillò: Trump aveva aggiornato la lista, aggiungendovi proprio il suo nome. Poco male, pensò il giudice: la prospettiva di essere promosso alla Corte suprema era in ogni caso evanescente. Non solo, a leggere i sondaggi, una vittoria di Trump era data come impossibile; ma, se anche l’impossibile fosse diventato possibile, Gorsuch avrebbe dovuto prima conquistare la nomination e superare poi la prova (a tratti “ordalica”) della confirmation da parte del Senato.

«Fu una sorpresa – prosegue l’autore nel proprio racconto – […] quando […] il Presidente eletto [Donald Trump] mi chiese di incontrarlo a New York per un […] colloquio. Il senso di stupore non era ancora svanito quando mi ritrovai seduto, alla Casa Bianca, in compagnia di mia moglie, Louise, il 31 gennaio 2017. Stentavo a credere che, più tardi quella stessa sera, il Presidente [Trump] avrebbe annunciato alla nazione la sua intenzione di nominarmi alla Corte suprema» (p. 4).

Così Neil Gorsuch, dopo essere stato confermato dal Senato nell’aprile 2017, si è ritrovato ad occupare il seggio alla Corte suprema che era appartenuto a Antonin Scalia.

 

2. La filosofia giuridica di Gorsuch e l’importanza del judicial courage

Neil Gorsuch è davvero un giurista in «the mold of» Justice Scalia. Come il suo illustre predecessore, Gorsuch è un originalista e un testualista: egli, cioè, interpreta le leggi (compresa la più alta tra le leggi, la Costituzione) secondo il senso che le parole di esse avevano al tempo della loro adozione (cfr. I. Wurman, A Debt Against the Living: An Introduction to Originalism, 2017). Nelle parole dell’autore, «gli originalisti credono che la Costituzione debba essere letta, ai giorni nostri, nello stesso modo in cui veniva letta quando fu promulgata» (p. 110); ma attenzione: «l’originalismo insegna soltanto che il significato della Costituzione non cambia; dal canto loro, ovviamente, si daranno nuove applicazioni di quel significato in coerenza con nuovi sviluppi e nuove tecnologie» (p. 111).

Allo stesso modo, «il testualismo […] richiede ai giudici di discernere (soltanto) come un comune […] madrelingua che avesse avuto familiarità con gli impieghi di una legge avrebbe inteso il significato del testo di quella legge al momento della sua adozione» (p. 131): in altre parole, «il testualismo è l’assicurazione che sono le nostre leggi scritte ad essere le nostre effettive leggi» (p. 144).

Queste rapide notazioni ci permettono di comprendere, fin dal principio, che la “filosofia” giuridica cui si ispira Gorsuch è, innanzitutto, una teoria della legittimazione del potere giudiziario: all’interno dell’architettura costituzionale fondata sulla separazione dei poteri e su un sistema di reciproci “checks and balances”, i Padri costituenti americani vollero sottrarre i giudici al rischio di subire pressioni popolari, così da assicurarsi che il potere giudiziario fosse – come del resto è, già di per sé, lo stesso ideale costituzionale – una forza “contro-maggioritaria” (secondo la celebre definizione di A. Bickel, The Least Dangerous Branch, 1962), posta a tutela dei diritti e delle libertà delle minoranze.

Ma, allo stesso tempo, i Padri costituenti non vollero fare delle Corti una sorta di Parlamento di ultima istanza: i giudici, ricorda Gorsuch, sono tenuti ad applicare la Costituzione e le leggi così come sono e non come vorrebbero che fossero, infondendovi le proprie, personali preferenze politiche; diversamente, infatti, finirebbero per sostituirsi ai rappresentanti democraticamente eletti, così mettendo a rischio la separazione dei poteri.

È evidente che ci saranno casi in cui una legge risulterà, agli occhi di chi è chiamato ad applicarla, superata dal tempo, sostanzialmente non condivisibile, perfino stupida. In quelle circostanze, «non c’è dubbio sul fatto che inventare una nuova legge, anziché applicare quella scritta, possa risultare allettante» (p. 144): ma è una tentazione cui un giudice onesto e responsabile deve resistere, ripete Gorsuch.

Cambiare le leggi è per il Congresso, con tutte le procedure garantistiche fissate in Costituzione, non per il singolo giudice o per una maggioranza di essi in una Corte superiore.

Non si deve dimenticare, infatti, che quando si modifica una legge, questa non necessariamente verrà alterata nel senso di una maggiore libertà: come ricorda l’autore (cfr. pp. 108-111), ci sono stati casi in cui la stessa Corte suprema – non solo in buona fede, ma con le migliore intenzioni – ha pensato che sarebbe stato opportuno modificare il significato di alcune norme costituzionali, così da avvicinarle al (preteso) nuovo sentire sociale e, nel far ciò, è finita per ridurre le garanzie che i Padri costituenti avevano predisposto in favore di alcune minoranze. Ma i «diritti costituzionali non dovrebbero essere soggetti a revisione giudiziale[:] essi devono avere oggi lo stesso significato che avevano ieri e non dovrebbero mai essere ridimensionati dalle Corti o dai giudici» (p. 25).

I moderni sistemi democratici – non solo quello americano, ma anche il nostro interno – si reggono (anche) sulla promessa di un potere giudiziario imparziale, indipendente, neutro: tutte caratteristiche che mal si addicono a soggetti attivamente impegnati a foggiare nuove leggi e, dunque, a comporre in modo originale e valorialmente discrezionale i conflitti tra i diversi diritti e interessi che sorgono, quotidianamente, nel consesso sociale.

Come già aveva ammonito Alexander Hamilton (nel Federalist no. 78), la libertà non ha nulla da temere dal solo ordine giudiziario, mentre ha tutto da temere dalla sua commistione con i rami del legislativo o dell’esecutivo (cfr. The Federalist [The Gideon Edition], 2001, pp. 402-403).

In proposito, è di particolare interesse il discorso che Gorsuch svolge intorno al concetto di judicial courage, del “coraggio” che ogni giudice deve dimostrare nella propria professione. Questo coraggio si esprime – innanzitutto e in coerenza con l’impostazione “contro-maggioritaria” di cui abbiamo già detto – nell’applicare la legge anche quando ciò renderà infelici (e perfino scontrose) le maggioranze politiche.

È, per intenderci, il coraggio che la Corte suprema federale manifestò in Brown v. Board of Education (1954), quando dichiarò che la segregazione razziale era contraria al significato originario del XIV Emendamento alla Costituzione (che assicura l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge), così adirando gli Stati del Sud.

Ma, ammonisce Gorsuch, «agire di fronte alla pressione di non farlo […] è solo uno degli aspetti del coraggio di un giudice (judicial courage). C’è un altro e parallelo aspetto che […] forse è anche più difficile da raggiungere e che potrebbe essere perfino più encomiabile. Questa espressione di coraggio è l’autolimitazione (self-restraint) nell’esercizio del potere»: «il giudice coraggioso» deve comprendere che «la Costituzione non gli ha assegnato un mandato a vita (life tenure) perché egli potesse inventare nuove leggi che le maggioranze del momento potrebbero richiedere a gran voce» (p. 188).

 

3. Preservare l’ideale repubblicano attraverso l’educazione civica e civile

Il titolo del libro in recensione è mutuato dalla celebre risposta che Benjamin Franklin diede a una donna che, vedendolo uscire dalla stanza in cui era stata firmata la Costituzione federale, gli chiese: «che cos’è che abbiamo – una Repubblica o una Monarchia?»; «una Repubblica» replicò Franklin «se sarete in grado di preservarla (if you can keep it.

La preservazione dell’ideale repubblicano è, dunque, il tema principale dell’opera in commento: e l’accento posto sulla necessità che il giudice faccia (soltanto) il giudice – in questo modo, contribuendo a salvaguardare la strutturale separazione dei poteri – è solo uno dei passaggi necessari perché quell’ideale «non abbia a perire dalla terra», per riprendere le parole di Abraham Lincoln.

Perché, continuando a citare dal discorso di Gettysburg, se l’ideale repubblicano è il governo «del popolo, dal popolo, per il popolo», quest’ultimo ha un ruolo fondamentale nella sua conservazione: difatti, come evidenzia Gorsuch, un simile sistema «si fonda sul convincimento per cui il popolo deve e può auto-governarsi in modo pacifico, in un clima di mutuo rispetto. Perché tutto ciò funzioni, il popolo deve avere una qualche conoscenza di come il proprio governo opera: le sue strutture e i suoi fini essenziali, ciò che gli è stato permesso di fare e ciò che gli è stato vietato» (p. 20).

Ci piace rimarcare come, inoltre e in modo assolutamente condivisibile, l’autore non si limiti a ricordare l’importanza – pure vitale – della sola dell’educazione civica, ma anche di quella che potremmo definire come educazione civile: «dobbiamo essere in grado di dialogare reciprocamente in modo rispettoso; di dibattere e di raggiungere compromessi; di sforzarci di vivere insieme in modo tollerante» (p. 20), dal momento in cui «la democrazia si regge sulla propensione di ciascuno di noi ad ascoltare e a rispettare anche quelli da cui dissentiamo in modo più deciso» (p. 37).

È un monito che l’autore rivolge al pubblico americano, ma che siamo sicuri possa utilmente risuonare anche tra quello italiano.

 

4. L’eredità di un giudice

Durante le audizioni senatoriali di conferma, a Gorsuch fu chiesto di immaginare in che modo, una volta andato in pensione, avrebbe potuto affermare di essere stato un «buon giudice». La risposta data – e riportata nel libro in recensione – merita di essere ripetuta quasi integralmente, anche per la finezza con cui ritorna, ancora una volta, sulla differenza (stavolta in termini di eredità) tra un legislatore e un giudice:

«posso immaginare che un [legislatore] guarderà alla propria carriera e alle varie leggi che è riuscito a fare approvare e che, in questo modo, hanno modificato profondamente la vita dei cittadini […]. Ma come giudice che guarda al passato, il massimo per cui puoi sperare è di aver fatto giustizia per tutti coloro i quali sono apparsi di fronte a te, di aver deciso ogni caso in base ai fatti e alla legge, e di aver così portato avanti la tradizione di un ordine giudiziario neutrale e imparziale. […] Dunque, in tutta onestà, l’eredità [di un giudice] dovrà apparire e essere un po’ più modesta [di quella di un legislatore]» (p. 323).

L’umiltà che traspare da queste parole è un toccasana intellettuale. C’è un’analogia che ci piace ricordare – e che abbiamo preso in prestito dall’attuale Chief Justice, John Roberts – per spiegare il ruolo di un giudice in una società libera e democratica. Il giudice è come l’arbitro di una partita sportiva: il suo ruolo è fondamentale, perché senza arbitro non può esserci partita, visto che non può esserci la garanzia che le due squadre rispetteranno le stesse regole.

Ma nessuno va allo stadio per vedere l’arbitro: probabilmente nessuno ricorderà nemmeno il nome di quell’arbitro, una volta finita la partita (a meno che, si badi bene, non sia stato un pessimo arbitro). Allo stesso modo, il ruolo di un giudice è cruciale, ma è sicuramente più modesto di quello di un legislatore.

E se ciò significa che, con qualche notabile eccezione, il nome della grande parte dei giudici finirà dimenticato, va bene così, ci dice Justice Gorsuch: «that is as it should be» (p. 323).