Separazione dei poteri e principio di legalità: spunti critici a partire dalla sentenza OSHA
Spunti critici su separazione dei poteri e principio di legalità, a partire dalla sentenza OSHA
L’articolo riproduce il testo della relazione tenuta nel webseminar di Giustizia costituzionale organizzato dal professor Nicolò Zanon: “Riflettendo su separazione dei poteri e principio di legalità. Spunti dalla sentenza OSHA della Corte Suprema americana”. Pur con i necessari adattamenti, si è voluto mantenere il tono discorsivo dell’originario intervento. La registrazione dell’evento è disponibile su Radio Radicale.
Se si volesse estrapolare dall’analisi della sentenza della Corte suprema USA OSHA qualche indicazione utile per l’ordinamento italiano, il punto di partenza non potrebbe che essere questo: il principio di legalità e il principio di separazione dei poteri sono, insieme, la prima – e spesso più efficace – difesa delle libertà individuali.
Forse nessuno più di Justice Antonin Scalia è riuscito a spiegare questo concetto in modo tanto semplice ed efficace. Durante una delle audizioni di fronte al Congresso americano, Scalia, dissentendo dal collega e amico Breyer, che con lui partecipava all’audizione, ha affermato che la garanzia delle libertà di cui gode il cittadino americano non viene dal (giustamente) celebrato Bill of Rights, ma dalla frammentazione e distribuzione del potere tra soggetti diversi e spesso in competizione tra loro:
«Ogni dittatore da strapazzo, ogni repubblica delle banane, ogni presidente a vita governa con una carta dei diritti. Non mi prenderò la briga di riportarla parola per parola, ma la carta dei diritti di quello che è stato l’Impero del Male, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, conteneva garanzie molto più ampie delle nostre: ma non erano altro che parole su carta – ciò che i nostri padri fondatori avrebbero chiamato una “barriera di pergamena”.
Considerate la parola costituzione. Che cosa significa? Non significa una carta dei diritti. Dire che una persona ha una sana costituzione significa che la sua struttura fisica è sana. La vera costituzione dell’Unione Sovietica, la struttura del suo governo, non ha impedito il consolidamento di tutti i poteri in una persona o in un partito. Una volta che ciò accade, persino la più ammirevole carta dei diritti può essere ignorata. È la struttura della nostra Costituzione a impedire quel consolidamento dei poteri».
Questo concetto, al netto di alcune peculiarità americane, è valido anche per il nostro ordinamento nazionale. Il principio di legalità e il principio di separazione dei poteri non servono, però, solo a difendere le libertà individuali, ma anche a garantire l’autonomia della società civile, ossia letteralmente la capacità di regolarsi da sé secondo il principio di sussidiarietà. Una capacità di regolarsi da sé che è anche, stavolta latamente, “autonomia” dalla regolazione eteronoma pubblica – specie quando il soggetto politico dotato del potere costituzionale di tracciare un certo corso d’azione non agisce o non è in grado di agire.
Questo è proprio quanto accaduto nel caso della sentenza OSHA. Quando il Congresso federale si è convinto dell’impraticabilità di un obbligo vaccinale generalizzato, rigido e identico non solo tra settori esposti a un diverso rischio epidemiologico, ma anche tra Stati e comunità locali con diversi livelli di contagio o di capacità di risposta sanitaria, l’agency OSHA ha «impiegato la sua iniziativa amministrativa a mo’ di “scappatoia” normativa» (per usare le parole della concurring opinion di Justice Gorsuch), forzando – almeno secondo la lettura che ne ha dato la maggioranza in seno alla Corte suprema – i limiti della legge attributiva del potere. Così facendo, il direttore dell’OSHA ha soppresso la possibilità che le singole realtà imprenditoriali potessero giungere a forme di regolazione frutto dell’autonomia privata o, più specificamente, collettiva.
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Il secondo punto che pare opportuno evidenziare è che la vicenda OSHA conferma che il principio di legalità e il principio di separazione dei poteri hanno bisogno di un giudice forte. Di un giudice, cioè, che abbia il coraggio e la decisione necessari per cassare un atto dell’Esecutivo che gode probabilmente di una certa popolarità, facendo valere il principio garantistico del primato della legge.
Ciò è specialmente vero in tempi di emergenza, in cui il bisogno di risposte rapide e forti ai problemi diventa così avvertito da offrire al “potere decidente” una giustificazione irresistibile per eludere le ordinarie modalità del processo normativo. La giurisprudenza della Corte suprema americana, in questi due anni di pandemia, è ricca di esempi interessanti. Non solo il caso dell’obbligo vaccinale, ma anche il blocco degli sfratti (su cui la Corte si è pronunciata nell’agosto dello scorso anno) e diversi casi di chiusure di centri di culto: in ciascuna di queste occasioni, il Governo federale o quelli locali avevano agito facendosi forti dell’apparentemente popolare idea della “guerra senza quartiere” al nemico invisibile, il COVID.
E per una Corte, persino una “potente” come quella statunitense, non è semplice “resistere” all’imperativo del decidere a ogni costo, soprattutto se il rischio è quello di apparire come invasori del campo della discrezionalità politica, ossia di sostituirsi a chi ha l’autorità costituzionale di promuovere il bene comune. C’è un aneddoto istruttivo, in proposito. Justice Hugo Black, che aveva scritto la majority opinion in Korematsu – la nefasta sentenza con cui la Corte suprema dichiarò la costituzionalità degli ordini di internamento dei cittadini americani di discendenza nipponica durante la Seconda guerra mondiale – per giustificare il proprio voto aveva affermato che si trattava soltanto di decidere chi, tra il Presidente Franklin Delano Roosevelt e la Corte suprema, dovesse dirigere gli sforzi bellici. Ebbene, Justice Black si sbagliava, perché – come fu sottolineato dai dissenters in quell’occasione – il rule of law non viene sospeso durante le emergenze: eppure Black, in tempi di pace un fiero e inarrestabile difensore delle libertà individuali, in tempi di guerra è capitolato di fronte all’imperativo del decidere a ogni costo.
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Questa osservazione consente di introdurne una terza, l’ultima.
Un giudice forte deve essere un giudice consapevole. Consapevole, però, non solo del proprio dovere ma anche dei limiti del proprio potere. Questo perché, se è vero che il giudice deve difendere principio di legalità e separazione dei poteri, è altrettanto vero che alle volte principio di legalità e separazione dei poteri devono essere difesi da un certo tipo di giudice. Un giudice, cioè, che tenta di recidere il vincolo morale e politico della subordinazione di ciascun cittadino alla legge, perciò esercitando (subdolamente) un potere che spetta ad altri. Si ripete che il giudice non è, né può essere, soltanto una «bocca che pronuncia le parole della legge»: ma oggi pare che ci sia chi vuole invece proprio concretizzare questo archetipo, ovviamente non nel senso (originario) del vincolo montesqueiano, bensì in quello del suo rovescio, di un giudice cioè che pronuncia le parole della legge che egli stesso ha “inventato”.
Un giudice del genere può vedersi in azione nell’ambito del diritto civile. Quest’ultimo, infatti, è stato eletto come terreno per certi esperimenti “post-modernisti” che, in verità, celano, consapevolmente o meno, un regresso al “pre-moderno”, in cui cioè il “diritto dei giuristi” non ricorda quello, per così dire, “neo-culto”, che ha dato al nostro ordinamento – tra le altre cose – un prodotto di elevatissima fattura tecnica e consapevolezza dogmatica come il Codice civile vigente, bensì un diritto dei giuristi in cui il giurista chiede «di partecipare al potere [non] in quanto giurista, ma [di] farsi esso stesso integralmente politico nei luoghi dove “si dice” il diritto, nel tribunale e nella scuola» (così già Alberto Trabucchi, nel noto saggio, dal titolo non casuale: Significato e valore del principio di legalità nel moderno diritto civile.)
È dunque necessario elaborare meccanismi per evitare che il principio di legalità, in particolare, si riduca a una garanzia solo nel nome. Probabilmente, il più importante meccanismo in proposito è il controllo di razionalità delle decisioni giudiziarie offerto dall’impiego di adeguati metodi interpretativi. È ben noto che le decisioni della Corte suprema statunitense, in questo momento storico, sono soprattutto guidate dalla metodologia testualista e originalista. Di questa metodologia può pensarsi bene o male, nel senso di condividerla in tutto, in parte o per nulla. È, però, possibile osservare che essa inerisce a quella misura di controllo di razionalità che è fondamentale per tenere distinto lo ius facere dallo ius dicere, dal momento che è nell’«anarchia metodologica» – per citare Luigi Mengoni – che si annida la confusione tra l’attività di creazione del diritto e quella di sua interpretazione.
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La sentenza OSHA ha il merito prezioso di richiamare l’attenzione dell’interprete, anche straniero, sul significato e sul valore del principio di legalità e sulla separazione dei poteri. È senza dubbio vero, però, che un discorso in particolare sulla separazione dei poteri può risultare meno persuasivo nel contesto italiano rispetto a quello statunitense, visto che nel nostro caso l’uso – e l’abuso – del decreto-legge consente all’Esecutivo di “eludere” i tempi del Parlamento. Sempre utilizzando il linguaggio civilistico, si potrebbe pure dire che l’Esecutivo ha ormai “usucapito” quello che Leopoldo Elia definiva il «potere normativo in via diretta»: e proprio il riferimento all’istituto dell’usucapione pone la questione dell’opportunità di adeguare la situazione di diritto a quella di fatto, cioè la Costituzione cosiddetta formale a quella cosiddetta materiale.
Tuttavia, anche con le limitazioni della decretazione d’urgenza, un conto è che, proprio per fare un esempio di scuola sempre in materia di obbligo vaccinale, la scelta sia il risultato di una valutazione collegiale in Consiglio dei ministri, sottoposta al vaglio del Presidente della Repubblica e all’approvazione parlamentare; un altro è che essa possa essere, in ipotesi, unilateralmente imposta dal Presidente del Consiglio dei Ministri con uno dei tanti famigerati DPCM.
Insomma, è bene ricordare il monito di Justice Antonin Scalia: una tutela che si fondi sull’aspetto “formale” della separazione dei poteri e sul rispetto delle forme costituzionalmente prescritte per l’adozione di determinati provvedimenti, lungi dall’essere poca cosa, è invece proprio la prima, e spesso più efficace, difesa dei diritti individuali e dell’autonomia della società civile.