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Concorso esterno in associazione mafiosa: le criticità dell’istituto in relazione al principio di legalità e le conclusioni

Parte quinta
Lecce, San Cataldo
Ph. Antonio Capodieci / Lecce, San Cataldo

4.3. La matrice del concorso esterno e il principio di legalità

La tesi dell’origine giurisprudenziale del concorso esterno si è affacciata nel dibattito giuridico ben prima della sentenza Contrada c. Italia tanto che fin dalla sentenza Demitry le Sezioni unite avvertirono la necessità di confutarla e a partire da allora il fronte della resistenza non ha mai registrato cedimenti o posizioni dialogiche.

È uno dei (non pochi) casi in cui il giudice rifiuta il confronto (o lo accetta solo con i simpatizzanti) e ritiene di poter fare da solo: una giurisprudenza totalmente autoreferenziale che cerca e trova esclusivamente in se stessa le ragioni per legittimare un risultato interpretativo.

C’erano molte voci, alcune di esse già citate, e argomenti autorevoli con cui fare i conti:

va finalmente chiarito che nel caso del concorso esterno l'attività costruttrice della giurisprudenza non ha operato sugli art. 110 ss. c.p. per estendere questi ultimi. Il risultato della costruzione del concorso esterno nelle associazioni mafiose è stato quello di estendere l'art. 416-bis c.p. attraverso il passepartout del concorso di persone. Chiarire questo concetto è molto importante. L'operazione si è svolta in due tappe principali: a) si sono in primo luogo individuate alcune tipologie di condotte di concorrente esterno sul piano della tipicità comportamentale, non su quello dell'incidenza sulla vita dell'associazione: dovevano essere condotte di soggetti estranei e dunque non incriminabili come associati interni; dovevano dare un contributo; non dovevano essere meri favoreggiatori, assistenti degli associati etc.; occorreva muovere da tipologie empirico-criminologiche emergenti dalla vita sociale, politica ed economica; b) successivamente, almeno in ordine logico, si è dovuto raccordare queste “figure” con l'unico titolo di responsabilità disponibile: non valendo i titoli autonomi delle figure tipiche di associati previste dal reato associativo — neppure il finanziatore è stato mai inserito nell'art. 416-bis.... —, non restava che il titolo “concorsuale” generale degli art. 110 ss. c.p.; con la conseguenza che mentre si può essere associati interni senza dare nessun contributo rilevante alla vita dell'associazione (il disvalore della condotta assorbe il disvalore di evento), in caso di concorrente esterno ciò non è possibile, dovendosi recuperare attraverso il disvalore di evento un disvalore di condotta meno pregnante in termini di affectio societatis. Si è così sviluppato, già a far data almeno dal 1985, il paradigma eziologico per l'assimilazione del concorrente esterno al partecipe intraneo: mediante la ricerca di un contributo causalmente significativo all'associazione in sé considerata[1];

la disciplina del concorso si caratterizza notoriamente per l’indeterminatezza e la dilatazione della sfera del punibile: non sono chiari i requisiti minimi del concorrente, non lo è persino l’esigenza di un contributo causale, e men che mai quella di una condotta concorsuale pregnante[2];

il concorso eventuale nel delitto associativo appare il risultato di un utilizzo strumentale della indeterminata tipizzazione concorsuale che, in questo caso, giungerebbe a colpire forme esterne di contiguità non riconducibili allo schema associativo”. Infatti, la permeabilità dei rapporti tra l’associazione mafiosa e settori della società civile, l’indeterminatezza di queste relazioni, la vastità e l’eterogeneità delle connivenze si combinano perfettamente con due fattispecie, gli artt. 110 e 416 bis c.p., per lo natura carenti di precisione e tassatività, “tra due sfere normative affette, entrambe, da notevole genericità già in partenza, per cui genericità si somma a genericità dando luogo a perversi effetti moltiplicatori[3];

la Cassazione ha condotto un’azione di tipizzazione per via giudiziale del concorso eventuale nei reati associativi. Si è così pervenuti alla costruzione di una fattispecie di parte speciale, mediante la clausola generale del concorso di persone comune, di cui all’art. 110 ss. c.p., il cui utilizzo ha consentito di affiancare ai tipi nominati di partecipe, promotore, capo, organizzatore, delle associazioni per delinquere, mafiose, una nuova figura di partecipe esterno, non contemplata dalla legge.  Va rilevato che l’attività costruttrice della giurisprudenza non ha agito sugli art. 110 ss. c.p. al fine di estenderli: la costruzione del concorso esterno nelle associazioni di tipo mafioso ha avuto quale risultato quello di estendere l’art. 416 bis c.p. mediante l’utilizzo del concorso di persone. Dapprima sono state enucleate, muovendo da tipologie empirico-criminologiche disvelate dalla vita sociale, politica ed economica, alcune tipologie di condotte di concorrente esterno con riferimento alla tipicità comportamentale, non già all’incidenza sulla vita dell’associazione: condotte di soggetti estranei e come tali non incriminabili quali associati interni; che apportassero un contributo; che non fossero meri favoreggiatori. Tali figure sono poi state raccordate con il titolo concorsuale generale degli art. 110 ss. c.p.: l’unico titolo di responsabilità attingibile, non essendo utilizzabili i titoli autonomi delle figure tipiche di associati contemplate dal reato associativo. Il concorrente esterno deve dunque necessariamente apportare un contributo rilevante alla vita dell’associazione: attraverso il disvalore di evento si deve recuperare un disvalore di condotta meno significativo in termini di affectio societatis. Talché, attraverso l’individuazione di un contributo causalmente significativo all’associazione, si è sviluppato il paradigma eziologico per l’assimilazione del concorrente esterno al partecipe intraneo[4];

assumere la ‘conservazione’ e/o il rafforzamento del sodalizio come eventi da imputare causalmente al concorrente esterno, significa porsi al di fuori del combinato disposto degli artt. 110 e 416 bis del codice penale vigente (n.b.: l’art. 110 parla infatti di concorso nel “medesimo reato”), posto che quegli elementi, lungi dall’integrare espressi requisiti di tipicità di quest’ultima fattispecie, costituiscono piuttosto “il risultato di un’attività ermeneutica a carattere creativo[5].

Nessuna delle domande così poste ha mai ricevuto risposte convincenti.

 

5. Conclusioni: perché, per chi?

È arrivato il momento di giustificare le domande che fanno parte del titolo di questo scritto.

Prima ancora però si deve prendere atto di una caratteristica essenziale, addirittura identitaria, della complessiva riflessione sul concorso esterno: la duplicazione dei dibattiti e delle cerchie che ne sono protagoniste e l’impossibilità di trovare una sintesi tra le rispettive posizioni.

Come si è visto, l’incessante lavorio giurisprudenziale intorno all’istituto non ha inteso, certamente non in modo significativo, giovarsi dei tanti alert dottrinali di cui si è offerta in precedenza una sia pur sintetica rassegna.

È esemplare al riguardo l’opinione di un magistrato da anni profondamente impegnato in procedimenti attinenti a fatti di mafia[6]:

Non condivido l’ostentato scetticismo verso l’istituto del “concorso esterno”. Soprat­tutto lo “scetticismo” gridato da noti esponenti del mondo politico. E non lo condivido non solo per l’esistenza di importanti pronunce delle sezioni unite della Cassazione che riconoscono la piena legittimità del reato in questione. Ma, in particolare, perché vi sono decine e decine di processi attualmente pendenti che si fondano sulla contestazio­ne ricavabile dagli artt. 110 e 416 bis del codice penale, su tutto il territorio nazionale (in particolare in certe regioni del sud). E, comunque, ancora oggi, sulla base di quella imputazione non pochi indagati sono sottoposti alla misura della custodia in carcere. Questi dati mi paiono sufficienti, almeno sino a quando non mutano le leggi o certi orientamenti giurisprudenziali di carattere generale, per una difesa dell’istituto anche dalle semplificazioni mediatiche”.

Se dunque si continuano a istruire e celebrare procedimenti per concorso esterno, se ci sono imputati in galera per questa fattispecie, se più volte le Sezioni unite hanno riconosciuto la legittimità dell’istituto, questo è sufficiente a difenderlo: come dire che il concorso esterno c’è e per ciò stesso è bene che ci sia.

È disposto a concedere che

Nelle numerose applicazioni giudiziali del “concorso esterno”, naturalmente, non sono mancate cadute di stile ed eccessi di attenzione”.

Ma, al tempo stesso, esprime scetticismo sulla capacità del legislatore di tipizzare in modo corretto e condiviso la condotta concorsuale:

Al di là dei garantismi di comodo, rimane sullo sfondo la difficoltà di trovare nella stessa giurisprudenza una descrizione condivisa di “apporto esterno”. Autorevoli stu­diosi hanno sostenuto che l’adozione di rigidi criteri normativi potrebbe immunizzare pericolose forme di complicità nonostante producano gravi lesioni a beni di rilevanza costituzionale, quali il buon andamento della pubblica amministrazione, le libertà eco­nomiche e il metodo democratico nella distribuzione del potere reale tra consociati. Tuttavia, stando alla esperienza degli ultimi venti anni dei processi di mafia, risulta non agevole trovare una formula in grado di evitare preventivamente “eccessi” o forme improprie di supplenza a meccanismi di responsabilità extrapenale che finiscono per valorizzare in chiave criminale generiche accuse di “disponibilità” o “vicinanza” del “colletto bianco” al clan […] Occorre, quindi, ragionare se vi siano gli spazi per una equilibrata tipizzazione delle condotte. Ricordo, però, che quando il Parlamento ha tentato questa strada, come nel 1992 con il patto di scambio politico mafioso (art. 416 ter c.p.), ha confezionato un qual­cosa di assolutamente sganciato dalla realtà criminale e, quindi, di inutile. A dimostra­zione che l’operazione di tipizzazione non è poi così agevole, sia sul piano tecnico che politico-criminale, come qualcuno vorrebbe farci credere”.

Rimane quindi essenziale il compito della magistratura, in primo luogo quella requirente, nella sua insostituibile attività di concretizzazione casistica del diritto:

Non vi è dubbio che la materia del reato associativo, e quindi del “concorso esterno”, è tra quelle in cui si avverte maggiormente il peso crescente del diritto penale giurispru­denziale. È un terreno su cui si manifesta la problematicità del rapporto tra il giudice e la legge. Alla base ci sono scelte legislative che esprimono una sorta di “delega all’inter­prete”. La realtà dei processi degli ultimi anni mostra un intreccio sempre più complesso tra opzioni legislative e attività giudiziaria. Fondamentale appare l’attività di colui che concretizza casisticamente il diritto. Costui dovrà tenere conto delle molteplici condi­zioni di variabilità criminologica nella applicazione delle norme. E dunque, grandi re­sponsabilità vengono attribuite nel caso concreto alla magistratura, soprattutto a quella requirente. Come evidenziava Massimo Nobili, la difficoltà di rinvenire una effettiva funzione orientativa nella legge scritta determina la reciproca strumentalità tra diritto e prova e sposta il “baricentro verso le supremazie del processo e della magistratura penale […] È evidente, quindi, che molti dei punti critici del reato di concorso esterno dipen­dono dalla gestione giudiziale dell’istituto, e dal modo in cui si formula l’imputazione”.

Queste argomentazioni definiscono come meglio non si potrebbe l’incomunicabilità di cui si è detto in apertura del paragrafo.

La magistratura più impegnata sul fronte anti-mafia non considera “negoziabile” l’esistenza del concorso esterno, degrada a “garantismi di comodo” le posizioni critiche, svaluta anche solo la possibilità che il legislatore intervenga in materia, avoca a se stessa (in modo tendenzialmente esclusivo) la materia.

Si deve allora dar ragione a chi[7] considera il concorso esterno

uno strumento repressivo che, proprio in ragione della sua duttilità e potenziale adattabilità alla varietà anche imprevedibile dei casi concreti, […] si presta a tipi di utilizzo giudiziale eccessivamente cedevoli a fattori di condizionamento che vanno al di là della logica penalistica concepita in senso stretto. Come, ad esempio, la preoccupazione dei magistrati antimafia di privilegiare, tra più qualificazioni tecnico-giuridiche possibili dei fatti oggetto di vaglio, quella più idonea a veicolare messaggi pedagogici alla pubblica opinione anche in chiave di etichettamento simbolico del disvalore politico o etico-sociale che, al di là della lesione giuridica strettamente intesa, si ritiene insito nei fatti in questione: da questo punto di vista, qualificare un certo fatto concorso esterno, piuttosto che ad esempio favoreggiamento sia pure aggravato, può essere considerata da parte di un magistrato di merito propenso alla stigmatizzazione simbolica opzione preferibile proprio allo scopo di sottolineare che l’autore del fatto merita di essere condannato per il suo colpevole sostegno alla mafia quasi come se fosse un mafioso”.

E merita pari condivisione la tesi[8] di chi afferma che il diritto penale della criminalità organizzata

costituisce, de lege lata:

1) un rovesciamento dei tratti del garantismo;

2) un corpo giuridico così autonomo e speciale che oscilla tra il diritto penale di lotta e il diritto penale del nemico, orientato alla neutralizzazione.

Il suo funzionamento è richiesto che operi durante indagini e processo, e dunque in contrasto con la presunzione di innocenza e la piena terzietà del giudice, che non è più giudice del passato, ma agente politico (politica criminale) su fenomeni in atto: è tutt’altra cosa giudicare un singolo fatto accaduto in passato ed esaurito, e fenomeni collettivi di associazioni criminali operanti al tempo del processo e regolarmente rappresentati, a livello processuale penale, dai “maxiprocessi”. Processi vissuti “in trincea […] C’è qui la prevalenza del momento ‘di lotta’ verso un fenomeno spersonalizzato. La lotta non riguarda lo Stato contro singole persone, infatti, ma contro fenomeni “generali” attraverso azioni individuali, spesso collettivizzate: è come se, per meglio implementare l’adempimento delle obbligazioni, si volesse leggere la sentenza civile in merito ad alcuni tipi di inadempimenti in chiave generalpreventiva, modificando così la sua risposta: non già con un risarcimento matematico del danno più rivalutazione o interessi, ma ascrivendo ‘danni punitivi’ […] Il problema della terzietà della giurisdizione e della sua aderenza processuale al principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato ne esce compromesso: si giudica ultra petita per effetto della lotta contro un fenomeno, che non può entrare nell’imputazione (cioè nella “domanda”) processuale. Ma di fatto quell’ultrapetizione “di sistema” entra nelle conclusioni del pubblico ministero (del resto non vincolanti) sulla pena (quando non anche sui fatti!) […] Il diritto penale di lotta, rispetto alle diverse manifestazioni del diritto orientato alle conseguenze, o teleologicamente orientato, costituisce una radicalizzazione delle concezioni strumentali del diritto pur presenti nell’idea dello scopo e ancor meglio in quelle dell’orientamento alle conseguenze. Adesso è il diritto stesso, nella sua “progettualità” prima ancora che nella sua “funzione”, ad essere concepito come il mezzo per uno scopo diverso dalla semplice tutela di beni o dalla “giusta” regolazione di rapporti. Il mezzo giuridico non si limita a rinviare a una mera teleologia ad esso interna, o ad un orientamento della sua applicazione alle rationes che sorreggono il contenuto delle norme, oppure al raggiungimento di risultati che la norma stessa impone di guadagnare attraverso il suo rispetto. È piuttosto la norma stessa a funzionare come strumento per scopi ad essa esterni. La norma minaccia un male e questo male è un’arma per raggiungere uno scopo. Lo scopo, però, oltre a quello specifico della singola incriminazione (per esempio, prevenire e reprimere le singole condotte riconducibili a fattispecie di associazioni criminali, di traffico di esseri umani ecc.), è nello stesso tempo la vittoria contro un “fenomeno” dannoso o pericoloso. Il destinatario finale del diritto penale di lotta non è solo l’autore dei fatti di reato coinvolti, ma è innanzitutto l’organo pubblico deputato ad applicare le norme: polizia giudiziaria, pubblico ministero, giudice. L’autore dei fatti, il trasgressore, è l’avversario che esprime o rappresenta in modo contingente il fenomeno contro il quale gli organi pubblici useranno le armi del diritto. Il “diritto” è dunque per gli organi pubblici, mentre i trasgressori sono destinatari di un’azione di contrasto. Lo scopo è vincere (non solo combattere) quel fenomeno, e tanto il diritto penale sostanziale quanto il processo ne sono direttamente coinvolti […] Tali nuove ideologie penalistiche fanno del diritto criminale uno strumento d’eccezione per antonomasia, un “diritto” sottoposto alla «ragione giudiziaria» (espressione solo apparentemente disarmata della ragion di Stato), perché la regola che definisce l’illecito serve per combattere un fenomeno che va al di là del suo campo definitorio — peraltro la criminalità organizzata è concetto non veramente definito come sappiamo, anche se evocato in varie norme processuali —, per neutralizzare situazioni ad essa esterne, e dunque al di fuori della sua portata definitoria […] Questo, tuttavia, è l’esatto contrario del garantismo penale, dato che ne risulta violato il suo principio cardine che è quello della legalità: utilizzare il diritto come un’arma contro un fenomeno significa che la regola è uno strumento di politica criminale, non la definizione vincolante della premessa di un giudizio di responsabilità individuale. Il giudice si sentirà autorizzato a realizzare programmi di scopo che strumentalizzano la libertà e i diritti dei singoli a obiettivi collettivi […] Possiamo dunque enunciare la seguente tesi: la nuova “normalizzazione” del diritto penale come strumento di lotta – nel momento in cui si indirizza alla stessa giurisdizione e non solo alla fase delle indagini o agli scopi politici della legislazione, condizionando istituti giudiziali tipici – rappresenta oggi l’attacco istituzionale più diretto al garantismo penale quale prodotto maturo dell’orientamento costituzionalistico […] Nuove politiche non penali ci attendono, perché quelle penali hanno già fallito in partenza il loro compito di fare giustizia, essendo costruite come armi da guerra”.

Ecco allora che le domande che concludono il titolo di questo scritto acquistano legittimazione e cominciano a diventare possibili risposte decentemente plausibili.

Il perché del concorso esterno può essere individuato agevolmente nell’esigenza di disporre di uno strumento da iscrivere nel diritto penale di lotta, tale da permettere di combattere con la massima efficacia (id est, inclusione) la guerra contro i “contigui” e far terra bruciata della zona grigia che rappresenta il network senza il quale le mafie perderebbero gran parte della loro capacità di penetrazione strumentale nella società civile e di intelligenza delle sue dinamiche.

Se così è, il concorso esterno serve a molti.

Sicuramente ai tanti che, sulla base del puro buon senso e non tenendo in alcun conto (e magari ignorando) quelle che devono apparirgli come trascurabili beghe giuridiche, ritengono comprensibilmente che la semplice esistenza di fenomeni collusivi così pericolosi e corrosivi giustifichi l’intervento penale, quale che sia lo strumento selezionato dagli addetti ai lavori.

Serve a coloro che, partecipi per ruolo funzionale dell’azione statuale di contrasto e repressione delle attività mafiose, avvertono l’urgenza del fare e sono portati fisiologicamente a prediligere le prospettive che sembrano in grado di assicurare i massimi risultati e che comunque mostrano di avere vitalità e capacità di persistenza secondo gli attuali trend interpretativi.

Ma serve anche a chi, accanto a questi genuini sentimenti popolari e a questo senso del ruolo istituzionale e dei suoi doveri, intraveda l’ulteriore e allettante possibilità di ergersi a simbolo e guida, stagliandosi come interprete privilegiato del sentire e dei bisogni della gente comune e, in più di un caso, disponendosi poi a intraprendere ruoli di più estesa rappresentanza, presentati come ideale prosecuzione della medesima missione salvifica.

Serve a chi intenda costruire manifesti ideologici e politici nei quali lo strumento penale, tanto più se di lotta, diventa una direttrice prioritaria e una precisa e riconoscibile caratteristica identitaria.

Serve a chi, collocandosi a latere di queste tendenze ideologiche e politiche, e contribuendo ad alimentarle mediaticamente e a favorirne la penetrazione nel corpo sociale, considera una iattura qualunque riflessione critica, da qualunque parte provenga.

A tutti costoro, anche se per ragioni differenti, il concorso esterno serve eccome.

Questa constatazione non impedisce tuttavia né di identificare e censurare gli inemendabili deficit strutturali dell’istituto né di attribuirne l’esclusiva paternità al giudice.

Sono entrambe, sulla base della ricognizione complessiva oggetto di questo scritto, realtà evidenti che si offrono in modo piano a chi voglia coglierle e a dispetto di qualunque artificio linguistico.

In fondo, una diceria è nient’altro che una diceria:

“Il parlamento di Tolosa segue una pratica molto curiosa nelle prove testimoniali. Altrove si ammettono mezze prove, che in fondo non sono che dubbi, perché si sa che sono mezze verità. Ma a Tolosa si ammettono i quarti e gli ottavi di prova. Si può considerare, per esempio, un sentito dire come un quarto di prova, un altro sentito dire più vago come un ottavo; di modo che otto dicerie, che non sono che un’eco di una diceria mal fondata, possono diventare una prova completa ed è all’incirca su questo principio che Jean Calas fu condannato alla ruota”[9].

 

[1] M. Donini, Il caso Contrada e la Corte EDU. La responsabilità dello Stato per carenza di tassatività/tipicità di una legge penale retroattiva di formazione giudiziaria, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc. 1, 2016, pag. 346.

[2] A. Cavaliere, Il concorso eventuale nelle associazioni per delinquere e di tipo mafioso: dal diritto penale “vivente” a quello conforme alla legalità costituzionale, in I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio. Un contributo all’analisi e alla critica del diritto vivente, Napoli, 2003.

[3] A. Sessa, Associazione di tipo mafioso e contiguità delittuosa: profili dommatici e di politica criminale, in Criminalità organizzata e risposte ordinamentali. Tra efficienza e garanzia, in Criminalità organizzata e risposte ordinamentali, 1999. 

[4] P. Scevi, Il concorso eventuale nei reati associativi: questioni aperte e prospettive di riforma, op. cit.

[5] G. Amarelli, Contiguità mafiosa e controllo penale: dall’euforia giurisprudenziale al ritorno alla legalità, in Materiali per una cultura della legalità, op. cit.

[6] P. Morosini, Il “concorso esterno” oltre le aule di giustizia, op. cit.

[7] G. Fiandaca, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica, op. cit.

[8] M. Donini, Mafia e terrorismo come “parte generale” del diritto penale. Il problema della normalizzazione del diritto di eccezione, tra identità costituzionale e riserva di codice, op. cit.

[9] F. M. Arouet (Voltaire), Commentaire sur le livre des Délits et de Peines, Ibis, 1994, pp. 89-90.